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Riassunto Del Libro Di Storia Contemporanea

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Riassunto del libro di storia contemporanea.

Capitolo 1.

Le rivoluzioni avvenute nel 1848-49 erano state un fallimento. I vecchi sovrani erano tornati sul
trono, fatto ad eccezione della Francia. Le istituzioni rappresentative erano state eliminate. Vi era
però un clima legato ad un processo che coinvolgeva i ceti borghesi e le classi proletarie. La
borghesia nel 1850 conobbe una crescita, presentandosi come portatrice di elementi di novità e
trasformazioni: merito individuale, libera iniziativa, concorrenza e innovazione tecnica sono alcuni
degli aspetti importanti. Questa età venne definita della borghesia. Ancora oggi il termine
borghesia definiva diverse figure e posizioni sociali. Al vertice si collocavano i magnati
dell’industria e della finanza, che aspiravano all’aristocrazia e ad ottenere incarichi politici. Sotto
troviamo i gruppi sociali che si possono definire borghesi: i ceti emergenti, imprenditori, mercanti,
banchieri, ma anche coloro che traevano proventi dalla terra, avvocati e medici. Ancora sotto
troviamo impiegati, insegnanti e piccoli commercianti: quelli definiti ceto medio o piccola
borghesia. Comunque la borghesia ricopriva una piccola percentuale della popolazione. La
borghesia europea tendeva a esprimere una cultura e uno stile di vita proprio. Lo stile di vita
borghese infatti doveva essere visibile nei segni esteriori: uomini e donne ad esempio davano
molta attenzione all’abbigliamento. Alcuni elementi tipici erano la solidità e la razionalità. I valori
fondamentali borghesi erano i valori tradizionali. La componente moralistica, in particolare, si
rifletteva nella struttura della famiglia, una struttura patriarcale basata sull’autorità del
capofamiglia e sulla subordinazione della donna. La donna, infatti, spesso vive esclusa dalle attività
lavorative: doveva dedicarsi alla cura dei figli e della casa. La classe borghese doveva difendere
l’immagine di rispettabilità e dunque doveva dotarsi dei principi morali che ne giustificano la
posizione sociale. Non tutti i borghesi praticavano questa virtù. Si iniziava a credere che chi occupa
i gradini inferiori della scala sociale era colui che era sprovvisto di quelle doti. I poveri, dunque,
rimaneva poveri perché non conoscevano l’arte del risparmio. Il borghese europeo era animato da
una certezza illuminata nel progresso dell’umanità. Questo era dovuto allo sviluppo economico e
alle conquiste della scienza. Sulla base di questi progressi, si fonda una nuova corrente
intellettuale: il positivismo. Fu un indirizzo filosofico che considerava la conoscenza scientifica,
basata su dati reali, applicando i metodi della scienza naturale ai vari campi dell’attività umana.
Celebre fu il pensatore Comte, il quale delinea la scienza della società, nonché la sociologia. In
seguito sarà il filosofo Spencer che elaborerà un’interpretazione in chiave evoluzionistica con la
convinzione che mondo sociale e mondo biologico seguissero leggi analoghe. Altro esponente
celebre fu Darwin, celebre per L’origine delle specie, nel quale formulò una teoria dell’evoluzione.
Secondo questa teoria, la natura è soggetta a un incessante processo evolutivo, guidato da un
meccanismo di selezione naturale che determina la sopravvivenza degli individui più attrezzati per
reagire alle sollecitazioni ambientali. La teoria di Darwin si scontrava dunque con i dogmi religiosi.
Nel corso dell’Ottocento, però, il principio della selezione naturale veniva usato per consacrare il
diritto del più forti nei rapporti fra gli individui, tra le classi e gli stati: il famoso darwinismo
sociale.

Con l’ascesa della borghesia abbiamo anche un periodo di espansione economica, anche nel
campo dell’agricoltura. Abbiamo infatti le ferrovie, favorendo la circolazione e lo scambio delle
merci, aprendo l’economia di mercato.
Sul piano produttivo, questa è l’età del ferro e del carbone, e la macchina a vapore costruita in
ferro e alimentata a carbone. Lo sviluppo economico però avvantaggiava le nuove potenze
industriali, come la Francia e la Germani, avvicinandosi così alla Gran Bretagna.

Inoltre furono smantellati gli ordinamenti corporativi che regolamentavano l’esercizio dei mestieri
ostacolando l’innovazione tecnologica. Inoltre caddero anche le barriere che si frapponevano alla
libera circolazione delle merci, come i dazi interni. Il libero scambio favorì la Gran Bretagna che
poteva offrire i suoi prodotti sui mercati stranieri, ma in realtà giovò anche litri paesi europei.

Importante sono anche le organizzazione finanzieri. Da una parte infatti si moltiplicarono le società
per le azioni, riducendo il rischio degli investimenti. Dall’altro le banche assunsero una funzione
decisiva nel promuovere lo sviluppo, incanalando i capital disponibili verso gli investimenti
produttivi. Nacquero pertanto le banche di investimento, o banche d’affari, la cui funzione
principale era quella di sostenere iniziative di ampio respiro con finanziamenti a lunga durata.

La costruzione di linee ferroviarie, treni e avi a vapore furono un prodotto della rivoluzione
industriale. La rivoluzione dei trasporti influenzò anche abitudini e modi di pensare della gente
comune.

All’inizio degli anni 50 esistevano circa 40mila km di ferrovie: dieci anni dopo erano quasi triplicati.
Gli sviluppi più spettacolari avvenne negli Stati Uniti dove le costruzioni ferroviarie acceleravano le
conquiste di territori.

Più lenta fu l’affermazione del vapore nel campo dei trasporti marini. Le navi a vela infatti
avevamo raggiunto una certa efficienza: i clippers - velieri veloci per merci leggere - battevano in
velocità gli streamers - battelli a vapore appesantiti dal carbone. Solo in seguito e navi a vapore
furono potenziate e divennero molto più competitive nella velocità e di capacità di carico.

Al tempo stesso ci fu anche una rivoluzione della comunicazione con la diffusione del telegrafo. In
questo periodo inoltre si diffondono anche i primi cavi telegrafici sottomarini.questo pertanto
facilitò molto comunicazioni a distanza.

Altro cambiamento vi era nel campo giornalistico , in quanto l’uso del telegrafo potenziò il ruolo
delle agenzie di stampa: fornendo le notizie a riviste e quotidiani, divennero veicoli indispensabili
per la diffusione delle notizie in tempi rapidi.

Il mondo contadino in questo periodo presenterà a forti differente. In Francia, ad esempio, la


tendenza all’aumento della circola proprietaria terriera continuò a manifestarsi per tutto il secolo.
In Germania e nell’impero asburgico una serie di leggi di emancipazione avevano abolito le ultime
forme di lavoro servile. In parte della Germania la scomparsa del sistema feudale aveva lasciato il
posto alla piccola e media proprietà. In altre parti ancora la privatizzazione della terra andò a
vantaggio dei grandi proprietari, ma in generale l’emancipazione segnò il passaggio dalla
condizione di servi a quella di braccianti senza terra. Condizione analoga accadeva nel
Mezzogiorno d’Italia e in generale nell’Europa meridionale. Quasi dovunque i lavoratori agricoli
vivendo in un situazione di disagio: reddito pressoché basso, alimentazione povera e
analfabetismo. I ceti rurali rappresentavano quelli più legati alle religioni tradizionali e alla cultura
preindustriale. In seguito però milioni di lavoratori lasciarono i loro paesi per trasferirsi in territori
come il Nord America. Altri ancora si spostarono dalle campagne alle città. Infatti in questo
periodo abbiamo proprio un fenomeno di urbanizzazione. Le città si popolavano sempre di più,
infatti se prima avevamo solo pochissime grandi città, dunque con almeno 100mila abitanti,
nell’800 si moltiplicarono il mero delle grandi città. Anche in Asia, ad esempio, si ampliarono le
città-emporio, ovvero elle vicine ai fiumi navigabili intesi come centri di scambio. Londra era
indubbiamente la più grande metropoli. In Gran Bretagna l’’industrializzazione ridisegnò la
geografia delle città, favorendo lo sviluppo di piccoli centri in passato ai margini. In Francia e in
Italia lo sviluppo delle città ebbe caratteri diversi: qui furono le città preminenti a registrare un
aumento demografico. In seguito furono gli Stati Unit a elaborare un nuovo modello di sviluppo
della città, con la costruzione ad esempio dei grattacieli e gli incrementi dei sobborghi periferici.

I punti di riferimento essenziale per questo ampliamento urbano erano le stazione ferroviarie, ma
anche la Borsa, i grandi magazzini, il tribunale e i palazzi dei ministeri. Infatti attorno a questi si
sviluppava il quartiere degli affari. I ceti popolari espulsi dai centri storici andavano ad addensarsi
nelle grandi periferie. Diventa sempre più netta la distinzione tra periferia operaia e i quartieri
residenziali borghesi. Spesso capiva che ricchi e poveri potessero abitare nello stesso palazzo, ma i
poveri abitavano ai piani alti o addirittura nelle soffitte.

Lo sviluppo urbano impose di affrontare i vari problemi igienici e sanitari derivati dal
sovrappopolamento che favoriva malattie come il colera, mantenendo alto il tasso di mortalità. Fu
migliorata la rete fognaria e l’acqua potabile divenne più diffusa e regolare. Le autorità inoltre
cercarono di facilitare gli spostamenti all’interno delle aree urbane: le strade in terra furono
sostituite dal selciato. I quartieri periferici furono illuminai da lampioni a gas. In molte città gli
itinerari più importanti avevano gli o i bus, grandi corrotte su rotaie trainate da cavalli. Dunque più
le città si ampliavano, più si diffondevano servizi commerciali, luoghi di svago, punti di riferimento
culturali.

Pur conservando squilibri importanti, a grande città tendeva a perdere l’aspetto caotico, per
iniziare a diventare più organizzata e funzionale, specchio della modernità.

La ricostruzione di Parigi attorno al 1860 fu un esempio di interventi dello Stato. Infatti Napoleone
III incaricò il prefetto Haussmann il quale operò in profondità sul vecchio tessuto urbano,
rendendo ad esempio meglio percorribile il entro cittadino. Ma la sua opera non si limitò alla
risistemazione della rete viaria: infatti Parigi fu dotata di numerosi nuovi ponti, nuove stazioni
ferroviarie, parchi, edifici pubblici e un nuovo sistema di fognature.

Diverso fu per Londra, nella quale l’intervento pubblico fu quasi assente. L’estensione della città
infatti era nelle mani private di proprietari terrieri che cedevano ad imprenditori edilizi diritti di
superficie e usufrutto rimanendo in possesso del terreno e garantendo omogeneità tra i complessi
immobiliari. A Londra, infatti, i quartieri venivano chiamati con i cognomi delle famiglie cui
appartenevano. In seguito nacquero artieri residenziali per i ceti più benestanti.

Vienna rappresentò il modello urbanistico per la riorganizzazione del suo nucleo centrale e la
dislocazione degli edifici connessi alle sue funzioni di capotale imperiale. Venne costruita infatti la
Ringstrasse, ovvero un’ampia strada circolare dove furono collocati i primi edifici pubblici.

Chicago costituì uno dei simboli più evidenti dell’urbanizzazione. In breve tempo fu ricostruita e
cominciò così ad espandersi. Gli archetti misero un piano di sviluppo verticale della città. Nacquero
infatti efficienti infrastrutture urbane e divenne una delle metropoli più dinamiche al mondo.
I salari crebbero nel corso del tempo, ma continuavano a rimanere bassi. Il movimento operaio
britannico si era concentrato sul rafforzamento delle Trade Unions. Si formò un congresso che
riuniva i delegati dei maggiori sindacati.

In Francia la situazione non era migliore: i pochi nuclei organizzati su base locale erano influenzati
dalle teorie di Proudhon. I principi del suo pensiero ebbero successo anche in Italia dove il
proletariato di fabbrica era inesistente e i pochi nuclei di operai erano organizzati in società di
mutuo soccorso avevano subito l’influenza di Mazzini.

In Germania vi era un movimento socialista che trovò il suo leader in Lassalle, che basava le
sue concezioni socialiste sulla teoria dello sfruttamento capitalistico, simile a quello marxista ma
diverso perché credeva nella possibilità di conquistare lo Stato borghese dai lavoratori. Lassalle
fonda un’associazione generale dei lavoratori tedeschi e rappresentò il primo partito
operaio organizzato su scala nazionale.

La contrapposizione tra proletario e borghesia favorì la nascita di un’organizzazione internazionale


di coordinamento del movimento operaio. La riunione inaugurale dell’Associazione internazionale
si tenne a Londra nel 1864. Era evidente l’affermazione dell’autonomia del proletariato e la
priorità data alla lotta contro lo sfruttamento. La fondazione della Prima Internazionale fu un
evento capitale nella storia del movimento operaio. L’Internazionale infatti costituì un punto di
riferimento ideale per i lavoratori di tutta Europa. La capacità di rappresentare le organizzazione
operai fu però scarsa.

Il dibattito ai vertici dell’Internazionale vide contrapposti da un lato i socialisti, dall’altro i


proudhoniani, fautori di un sistema fondato sulle cooperative e sulle autonomie locali. Le tesi
proudhoniane però furono spesso sconfitte. Ma gli ideali libertari ebbero successo con il nuovo
esponente Bakunin.

Marx e Bakunin non andavano d’accordo. Per Bakunin l’ostacolo principale che impediva alll’uomo
il conseguimento sella piena libertà era costituito dall’esistenza dello Stato. Lo Stato era lo
strumento di cui si servivano le classi dominanti per mantenere la maggioranza della popolazione
in condizioni di inferiorità. Dunque il sistema di sfruttamento economico basto sulla proprietà
privata sarebbe caduto.

Marx aveva pubblicato Il Capitale in cui sosteneva che la realizzazione del socialismo sarebbe
derivata dalle leggi stesso dello sviluppo economico. Marx collocava religione e stato nella sfera
della sovrastruttura, dunque li considerava come un prodotto della struttura economica basato sul
sfruttamento: solo la distruzione di questa struttura avrebbe distrutto lo stato borghese. Anche
per Marx l’avvento del comunismo avrebbe portato con sé l’estinzione dello stato, ma questa fase
finale sarebbe avvenuto solo dopo la dittatura del proletariato.

Pertanto per Marx il protagonista del processo rivoluzionario era il proletariato industriale dei
paesi più avanzati. Per Bakunin il vero soggetto erano le masse diseredate in quanto tali, operai,
contadini e sottoproletari.

Il contrasto tra bakuniniani e marxisti mise in crisi le strutture dell’Internazionale sciolta nel 1876.
Il bakuninismo si adattava meglio a quei paesi e ceti sociali che non erano stati colpiti dalla
rivoluzione industriale. Questa fu la forza dell’anarchismo bakuniniano.
Anche l mondo cattolico assunse un atteggiamento critico nei confronti di una civiltà che si basava
su presupposti laici e individualistici. Esempio celebre fu papa Pio IX che abbandonò qualsiasi idea
innovatrice, occupandosi di riaffermare un’idea dottrinaria e di incoraggiare le pratiche di
devozione. Lo scontro tra Chiesa cattolica e cultura laico-borghese culminò con l’enciclica Quanta
cura nella quale accumunava in una condanna il liberalismo, la democrazia, il socialismo e la civiltà
moderna. Fece pubblicare anche il Sillabo, ovvero un elenco degli errori del secolo. Questo
provocò grande scalpore e contrariazione, tanto che quando le truppe italiane entreranno a Roma,
nessuno dei governi europei appoggerà il papa.

Sostenitori di un invento dello Stato auspicavano lo sviluppo delle cooperazioni e del mutuo
soccorso fra lavoratori. Pertanto si realizzarono i primi esperimenti di un moderno associazionismo
cattolico, fondato sulle unioni di mestiere, sulle cooperative.

Capitolo 2
Il periodo che va dal 1870 al 1914 è caratterizzata dalla seconda rivoluzione industriale. In questi
anni, infatti, il mondo subisce sia un sovrapproduzione delle merci, ma anche una caduta dei
prezzi: i lavoratori salariati giovarono di questa diminuzione dei prezzi. Il settore agricolo fu quello
che subì di più questa crisi: infatti attorno al 1879-80, i prezzi dei prodotti agricoli calarono
bruscamente, causando però una forte crisi per i piccoli, medi e grandi proprietari terrieri.
Pertanto le aziende agricole si ritrovarono a dover licenziare dipendenti in seguito alla crisi
economica che stava subendo, a causa dell’avanzamento dei prodotti agricoli nordamericani, più
evoluta rispetto a quella europea. In altri paesi europei riuscirono a difendersi meglio dalla crisi
grazie a nuovi strumenti come il concime chimico e l’impiego di mietitrici. Una conseguenza di
questa forte crisi che si stava vivendo è l’incremento dell’emigrazione verso paesi come l’America
del Nord: nei primi anni del 900 erano circa un milione le persone che stavano emigrando. Furono
proprio questi motivi a indurre numerosi paesi e stati ad adottare il protezionismo. Tutte le nuove
tariffe che venivano adottate stabilivano dazi doganali elevati per numerosi prodotti agricoli.
L’obiettivo era quello di tutelare le produzioni industriali dai rischi della concorrenza estera. Solo la
Gran Bretagna, patria del liberoscambismo, restò estranea alla tendenza generale, ma ne rimase
danneggiata, in quanto gli altri paesi erano protetti dalle barriere doganali: pertanto stava
osservando la crescita esponenziale che stavano vivendo paesi come Germania e Stati uniti
d’America. Pertanto la Gran Bretagna, per cercare di rispondere a questa crisi, reagì ampliando il
suo impero e intensificando lo scambio con le colonie. Proprio in questo periodo, dunque,
nacquero grandi consociazioni per il controllo finanziario di diverse imprese, ma anche dei consorzi
e anche delle concentrazioni fra imprese indipendenti. Un ruolo decisivo fu svolto dalle istituzioni
finanziarie. Solo le grandi banche potevano assicurare i flussi di denaro necessari alla crescita dei
colossi industriali. Fra banche e imprese nasce dunque un rapporto di compenetrazione: le
imprese dipendevano sempre di più dalle banche per il loro sviluppo e le banche legavano la
propria fortuna a quella delle imprese. Questo intreccio fra industria e finanzia fu definito dagli
economisti marxisti come capitalismo finanziario.
La seconda rivoluzione industriale – che portò come innovazioni l’acciaio, la chimica e l’elettricità –
aveva mutato la vita a milioni di persone. Le nuove tecniche di fabbricazione consentirono di
produrre grandi quantità di acciaio a costi modesti. L’acciaio, pertanto, vide crescere di molto in
poco tempo e trovò applicazioni in diversi ambiti: fu usato per le rotaie, per le corazze delle navi
da guerra e per utensili domestici. Sarà nel 1889 che l’ingegnere Eiffel realizzò il simbolo di Parigi
interamente di acciaio. L’industria chimica abbracciava moltissime produzioni: dai medicinali ai
concimi, dai saponi ai coloranti. La stessa siderurgia poteva essere definita un settore della chimica
applicata. La chimica ebbe un ruolo importante anche per il settore alimentare con l’introduzione
di nuovi metodi di sterilizzazione, oltre al fatto che ora i cibi si iniziavano a inscatolare in modo da
poterli conservare più a lungo: questo dunque evitava il rischio di carestie per tutti. Abbiamo poi
anche il motore a scoppio che vide una prima realizzazione ad opera di Otto, il quale costruì un
motore a quattro tempi. In seguito altri due ingegneri riuscirono a montare dei motori a scoppio su
autoveicoli a ruote realizzando nel 1885 le prime auto. La diffusione dei prodotti petroliferi, usati
anche come lubrificanti e come combustibili da riscaldamento e da illuminazione, ostacolata dagli
alti costi di produzione: il petrolio infatti costava molto più del carbone. Fondamentale fu
l’elettricità, che divenne una nuova fonte di energia quando si poteva iniziare a immagazzinarla e
distribuirla nuovamente. La svota avvenne con la lampadina introdotta da Edison. Nacquero
dunque le prime centrali termiche che fornivano energia ai privati. Si fece anche strada l’idea di
ricorrere per la produzione di elettricità all’energia idraulica. Infine si svilupparono altre novità
come il telefono con Meucci, il grammofono con Bell e il cinematografo con i fratelli Lumiere:
innovazioni molto utili in campo comunicativo.
Sempre attorno la fine dell’800 si inizia a diffondere la medicina intesa come disciplina scientifica.
Infatti si diffusero le pratiche igieniste e la conseguente adozioni di strategie di prevenzioni e
contenimento della malattia. Ma si sviluppò anche la microscopia, che consentiva di identificare i
microorganismi. I progressi della farmacologia che permise l’estrazione di sostanze che
modificavano il corso delle malattie. Infine ci fu una nuova ingegneria sanitaria con la costruzione
dei policlinici. Gli igienisti dunque riuscirono a diffondere alcune pratiche preventive. Infatti adesso
gli ospedali iniziavano ad essere luoghi più sicuri e puliti, attuando pratiche di igiene. Inoltre furono
identificati dei microorganismi come agenti di alcune malattie come il colera e la tubercolosi.
Un’ulteriore svolta avvenne anche con l’affermarsi di nuovi medicinali per curare malattie che si
erano diffuse e sarà proprio grazie a queste scoperte che si sviluppò una nuova industria
farmaceutica. Gli ospedali, da questo momento, vengono considerati come luoghi di cura e non
più posti per i trovatelli.
Pertanto proprio grazie a queste grandi innovazioni, ad un miglioramento delle condizioni
igieniche e ad un aumento del cibo, ci fu anche un aumento della popolazione. Ma inoltre si alzò
anche l’età media che fu stabilita attorno ai 50 anni. Bisogna specificare che in questo periodo
c’era stato una diminuzione del tasso di mortalità, ma al tempo stesso era diminuito anche quello
della natività, in quanto si cercava di avere un nuovo atteggiamento nei confronti dei figli,
orientato a programmare famiglie e futuro.

CAPITOLO 3
Gli anni che vanno dal 1850 al 1870 sono caratterizzati da numerose conflittualità, ma è anche un
periodo di instabilità per le tre grandi potenze europee.
La Francia di Napoleone rappresentò un caso anomalo con la nuova forma istituzionale che prese il
nome di bonapartismo. In questo caso l’omaggio formale al principio della sovranità popolare
legittimava un potere fondato sulla forza delle armi, in cui il centralismo autoritario si univa a una
dose di riformismo sociale e il conservatorismo si mescolava con la demagogia. Pertanto
l’autoritarismo e il centralismo di Napoleone III si fondavano su un vasto consenso popolare.
L’imperatore cercò anche quello della borghesia urbana, del mondo degli affari, della finanza e
dell’industria. Un aspetto importante della cultura e della società del Secondo Impero fu quello
che possiamo definire tecnocratico, dunque la tendenza ad affidare più potere ai tecnici. Ma la
tradizione bonapartista portava la Francia a intraprendere una politica estera ambiziosa e
aggressiva. La prima occasione fu la guerra di Crimea, quando la Gran Bretagna e la Francia si
impegnarono a difendere l’Impero ottomano dall’espansionismo russo. Gli eserciti alleati
sbarcarono nelle coste di Crimea e posero l’assedio alla piazzaforte di Sebastopoli. La guerra durò
circa un anno e si concluse nel 1855 con la caduta della città. Il congresso di Parigi confermò la
neutralizzazione del Mar Nero, stabilendo che restasse chiuso alle navi da guerra. Pertanto si
stabilì l’integrità dell’Impero ottomano, formando anche il nuovo Stato di Romania. Un’altra
occasione fu la guerra contro l’Austria: un risultato lontano dai principi di Napoleone che mirava a
subentrare all’Austria come potenza egemone in un’Italia che doveva rimanere divisa.
L’impero asburgico e l’Austria vivevano un periodo di forte instabilità, dovuto anche alle
rivoluzioni del 1848-49. Il potere tornava nelle mani dell’imperatore, la costituzione che fu stabilita
nel 1849 (e mai entrata effettivamente in vigore) fu eliminata nel 1851. Solo in seguito fu ristabilito
un Parlamento bicamerale, ma con poteri limitati. Lo stato sacrificò le esigenze dei settori
industriali chiamati a pagare i costi di un imponente apparato amministrativo e militare.
Sempre in questi anni la Prussia si propose come autorità alla guida della nazione tedesca. La
Prussia si era sviluppata molto velocemente. Questa espansione industriale e la crescita di una
forte borghesia si concentrarono nella parte occidentale dello Stato prussiano. I vertici dello stato
continuavano a essere occupati dagli esponenti degli Junker, gli aristocratici proprietari terrieri. Il
conservatorismo si rivelò un aspetto importante per la via prussiana. Elementi di modernità
rappresentarono un fattore decisivo per i successi della Prussia nel campo economico come in
quello militare. Il tradizionalismo degli Junker e le aspirazioni nazionali della borghesia si
convergevano nella politica di potenza dello stato prussiano e nello sviluppo di un forte esercito.
L’artefice di questa politica fu Bismarck, che fu poi eletto come primo ministro, realizzando una
riforma dell’esercito che prevedeva l’aumento degli organici e il prolungamento del servizio di leva
in funzione dell’unificazione. La Prussia doveva sconfiggere Austria e Francia.
La contesa tra Austria e Prussia costituì il pretesto per una guerra che si verificherà nel 1866.
Questa fu la prima guerra che avrebbe reso celebre e temuta la macchina militare tedesca.
L’Austria non subì mutilazioni territoriali, ma dovette accettare lo scioglimento della vecchia
Confederazione tedesca. Nel 1867 l’impero fu diviso in due parti: da una parte abbiamo quello
austriaco, dall’altra parte abbiamo quello ungherese (pertanto si parlerà di Impero austro-
ungarico), anche se avevano un solo imperatore e un solo parlamento. Il cammino verso
l’unificazione tedesca procedeva secondo una politica di potenza che la borghesia liberale era
costretta a subire e che era fuori dal controllo del Parlamento. L’ultimo ostacolo all’unificazione
era la Francia di Napoleone III. L’occasione per il conflitto fu poi offerto da una questione dinastica.
Infatti il trono di Spagna era rimasto vacante ma inizia a farsi strada il nome di un cugino
dell’imperatore prussiano: questo iniziava a spaventare la Francia che temeva di essere
accerchiata. Bismarck decise di diffondere un comunicato stampa provocatorio, dove affermava
che l’ambasciatore era stato messo alla porta dal re. Questo provocò la Francia con un’ondata di
furore nazionalistico. Pertanto si dichiarò guerra alla Prussia nel 1870. La Francia era entusiasta
della guerra, ma non era militarmente pronta, sia per numero di soldati che per forza. In poco
tempo infatti l’esercito francese fu circondato, ma anche lo stesso imperatore fu fatto prigioniero.
Pertanto dopo una serie di sconfitto, la Francia fu costretta a chiedere un armistizio nel 1871.
Intanto sempre nel 1870 fu stabilito il secondo Impero tedesco, il secondo Reich. Mentre nel 1871
Guglielmo I fu incoronato imperatore tedesco. Con la successiva pace di Francoforte, la Francia
doveva corrispondere un’importante indennità di guerra, ma dovette anche cedere alcuni territori
come l’Alsazia e la Lorena: questo rappresentò per la Francia e i francesi un’umiliazione nazionale.
Necessitavano del revanscismo che avrebbe poi caratterizzato la politica dei secoli successivi.
Dopo la battaglia di Sedan era stato il popolo francese a insorgere, stabilendo la fine del regime
napoleonico. La frattura infatti si stabilì nelle elezioni del febbraio del 1871. Infatti grazie al voto
delle campagne, l’Assemblea nazionale risultò composta da moderati e conservatori. A presiedere
il governo abbiamo Thiers, il quale si affrettò a stabilire trattati di pace. Ma il popolo francese non
accettò le dure richieste di Bismarck, iniziando a protestare. Lo scontro tra Parigi rivoluzionaria e la
Francia delle campagne più moderata diventa inevitabile. Nelle elezioni che si tennero a marzo,
l’elettorato si astenne e il potere restò nelle mani dei gruppi di estrema sinistra, democratico e
anarchici. I dirigenti della Comune diedero vita a un esperimento di democrazia diretta. Dunque fu
eliminata la distinzione tra potere legislativo ed esecutivo e l’esercito venne sostituito da milizie
popolari armate. Dunque si vedeva nella Comune il primo esempio di governo diretto dalle masse.
La Comune però non coinvolse i piccoli centri e le campagne: proprio per questo la Comune avrà
vita per soli due mesi. Le truppe governative invece procedevano all’assalto di Parigi. La battaglia
fu condotta con determinazione e alle esecuzioni sommarie, i difensori della Comune
rispondevano con sanguinose rappresaglie. Dunque il movimento francese si ritrovava sconfitto e
decimato.
Dopo la fine della guerra franco-prussiana, in tutta Europa inizia ad affermarsi una nuova
concezione dei rapporti internazionali: si affermava sempre di più l’ideologia della forza, del fatto
compiuto, della pura politica di potenza. Per quanto riguarda lo stato tedesco, il Reich aveva una
struttura molto simile rispetto alla Confederazione germanica: pertanto abbiamo 25 stati, con
propri governi e Parlamenti. La grande politica era di competenza del governo centrale. Il
Parlamento era diviso in due camere e aveva limitate possibilità di condizionare il potere
esecutivo. Il blocco sociale dominante era caratterizzato dal mondo industriale e bancario oltre
che l’aristocrazia terriera e militare. Inoltre, oltre alle tradizionali formazioni liberali e conservatrici
che avevano dominato la scena parlamentare in Prussia negli anni 60, nel 1871 nasce il partito
cattolico del Centro. Nel 1875 nasce il partito socialdemocratico tedesco, che trovava la sua forza
dagli operai delle regioni e delle città industriali, mentre il Centro si basava su agricoltori e ceti
medi urbani. Nei primi anni 70, però Bismarck si trovò a dover fronteggiare i cattolici, attuando
una politica anticattolica. La lotta che scatenò, però, non fece altro che portare nuovi consensi al
partito cattolico: pertanto fu costretto a varare una nuova legislazione ecclesiastica, più moderata.
Abbandonata dunque la lotta contro i cattolici, doveva fronteggiare un’altra minaccia, quella del
partito socialdemocratico: decise infatti di varare delle leggi che limitavano sostanzialmente i
partiti che andavano contro l’ordinamento statale: dunque il partito socialdemocratico fu quasi
costretto ad agire in semiclandestinità. In seguito il Parlamento approvò alcune leggi che
tutelavano le classi lavoratrici, che istituivano assicurazioni obbligatorie per gli infortuni sul lavoro,
le malattie e la vecchiaia: dunque questa legislazione varata da Bismarck era molto avanzata.
Questa operazione andò incontro ad un insuccesso politico simile a quello subito nella lotta contro
i cattolici. Le leggi, infatti, non riuscirono a bloccare l’avanzata elettorale della socialdemocrazia:
questo infatti sancì il fallimento della politica bismarckiana nei confronti del movimento operaio.
Dopo la vittoria sulla Francia, Bismarck costruì un sistema di alleanze con lo scopo di impedire che
la Francia potesse uscire dal suo isolamento politico. Pertanto si alleò con l’Austria-Ungheria,
Russia e Italia. Importante dunque fu il patto dei tre imperatori, stipolato tra Germania, Austria-
Ungheria e Russia, un patto che si fondava sulla solidarietà fra le tre monarchie autoritarie con
l’obiettivo di tutelare gli equilibri conservatori nei singoli stati. Nel 1877 la Russia dichiarò guerra
alla Turchia, sconfiggendola, in modo da garantire l’egemonia russa dei Balcani. Questo però
preoccupò le altre potenze. Infatti fu Bismarck a prendere iniziativa, cercando di mediare. Furono
infatti ridisegnati gli equilibri della penisola balcanica tra le varie potenze. Pertanto, scongiurato il
pericolo della guerra, Bismarck cercò di ricucire l’alleanza con Austria e Russia, riuscendo a
rinnovare il patto dei tre imperatori. Ma poco dopo, si sancì il patto della Triplice Alleanza, che
dunque includeva anche l’Italia.
La Francia non tardò a manifestare la volontà di rivincita del paese. L’assemblea aveva anche reso
obbligatoria la leva militare. Verso la fine degli anni 70, aveva già recuperato il proprio prestigio
internazionale, disponendo un forte esercito militare. I membri dell’assemblea, però, erano in
maggioranza favorevoli alla restaurazione della monarchia. La Costituzione della Terza Repubblica
del 1875 prevedeva che il potere legislativo fosse esercitato da una Camera eletta a suffragio
universale maschile. Un elemento di stabilità era reso dal presidente della Repubblica che veniva
eletto dalle Camere riunite. La Carta costituzionale rappresentava un compromesso fra una
soluzione di tipo presidenziale, preferita dai moderati, e una di stampo parlamentare, sostenuta
dai democratici. La Costituzione del 1875 rappresentò un successo per i repubblicani francesi che
capovolgono la tendenza conservatrice, assicurandosi una maggioranza. A dominare la scena
politica furono i repubblicani moderati, detti opportunisti, la cui forza stava nel legame con
l’elettorato medio, il commerciante ad esempio. Pertanto ci furono anche le critiche dei
repubblicani radicali che costituirono un raggruppamento autonomo. Ma fu sotto la guida dei
governi repubblicani-moderati che la Francia fu in grado di consolidare le sue fratture provocate
dalla Comune. Nel 1884 furono approvate tre leggi importanti: quella che garantiva la libertà di
associazione sindacale, quella che ampliava le autonomie locali, e quella che introduceva il
divorzio. Inoltre sarà grazie ai repubblicani che si affermerà la laicità dello Stato. Inoltre sempre in
questo periodo fu resa gratuita e obbligatoria la scuola. L’indebolimento dei poteri del presidente
della Repubblica, provocò un’instabilità degli esecutivi. Inoltre anche la corruzione che c’era in
questo periodo fu un altro elemento di crisi.
La Gran Bretagna rimaneva comunque la potenza più sviluppata. Dal 1846 al 1866 abbiamo i
liberali al governo, che segnarono un consolidamento del sistema parlamentare, che dunque
subordinava la vita di un governo alla fiducia del Parlamento. Alla corona era affidato un ruolo
simbolico di personificazione dell’identità nazionale. In Gran Bretagna molti poteri spettavano alla
Camera dei Lord, mentre la camera elettiva, quella dei Comuni, era espressione di uno strato di
popolazione alquanto ristretto. Nel 1865 il leader dei liberali Gladstone presentò un progetto di
legge che prevedeva una limitata estensione del diritto di voto. La proposta provocò la caduta del
governo liberale e il ritorno al potere dei conservatori. Furono proprio i conservatori che con
Disraeli assunsero l’iniziativa di una riforma elettorale più avanzata: la nuova legge infatti
aumentava la consistenza del corpo elettorale: Disraeli mostrava di riconoscere il peso che i
lavoratori dell’industria avevano nella società britannica. Gladstone e Disraeli dunque si
alternarono al governo: il primo si dimostrò più legato agli ideali del liberalismo; il secondo era
proiettato su obiettivi imperiali. Nel 1884 i liberali, tornati al governo, estesero il diritto di voto
anche ai lavoratori agricoli. Dovettero però anche dedicarsi alla questione irlandese. Infatti negli
irlandesi era presente questa fedeltà al cattolicesimo e tendenze indipendentiste di marca
nazionalista. L’Irlanda aveva visto aggravare le sue disagiate condizioni economiche a causa della
grave crisi che aveva colpito l’agricoltura europea. I conservatori si affermarono al governo nel
1866, mantenendo il potere a lungo e rinnovando il tentativo di coniugare la politica imperialistica
con una dose di riformismo sociale.
La Russia continuava, invece, ad essere una delle potenze più arretrate. La società continuava a
basarsi sulla servitù della gleba, dunque ai lavori e ai proprietari della terra. Un’aristocrazia terriera
assenteista dominava ancora incontrastata. Anche gli scrittori in questo periodo offrivano un
quadro di una società diversa in ogni suo aspetto. Sale al trono, nel 1855, lo zar Alessandro II, che
varò nuove riforme che avevano lo scopo di introdurre elementi di modernizzazione nella
burocrazia e nell’esercito. Ma la più importante fu la riforma che prevedeva l’abolizione della
servitù della gleba. I servi infatti acquistarono una maggiore libertà personale e la parità giuridica,
avendo così modo di riscattare le terre che coltivavano trasformandosi in piccoli proprietari
terrieri. Questo però provocò anche malcontenti e ribellioni. Dopo il 1861 si assiste a un
appesantimento del clima politico. Fra le giovani generazioni si diffuse un atteggiamento di rifiuto
totale dell’ordine costituito, unito a uno sforzo sincero d avvicinarsi ai problemi delle classi
subalterne. Lo slogan del periodo era “andare al popolo”: da qui il termine populismo, col quale
vennero designati gli intellettuali rivoluzionari che in questo periodo tentarono di compiere opera
di educazione culturale fra le masse. Quando nel 1881 Alessandro II fu ucciso, le speranze che
avevano accompagnato i suoi primi anni di regno erano solo un lontano ricordo.

CAPITOLO 4
Gli Stati Uniti d’America erano un paese che, nella metà dell’Ottocento, stava vivendo una crescita
esponenziale, con una popolazione in continuo evento, fenomeno dovuto ai continui flussi
migratori. Anche la produzione agricola continuava con ritmi elevati, ma al tempo stesso la regione
del Nord-Est stava vivendo una crescita nell’ambito industriale. Ciò nonostante, negli Stati Uniti,
erano presenti delle fratture interne, in quanto esistevano tre tipi di società, ognuna con le proprie
tradizioni:
 abbiamo il Nord-Est, zona delle prime colonie britanniche, ma era anche la zona più
progredita, ricca ed industrializzata e dove si concentravano i commerci europei. Era un
ambiente influenzato dal capitalismo, dominato dai gruppi industriali, commerciali e
bancari;
 gli stati del Sud, una società sostanzialmente agricola e profondente tradizionalista, che
fondava la sua economia sulle piantagioni di cotone. La manodopera era caratterizzata
soprattutto da schiavi neri. Il ceto dei grandi proprietari dominava la vita politica e sociale.
Gli schiavi potevano avere il vitto giornaliero e l’istruzione religiosa, ma entrava in
contrasto con l’insicurezza che caratterizzavano i rapporti di lavoro, caratterizzata anche
dallo sfruttamento.
 Il West, infatti qui abbiamo i liberi agricoltori e allevatori di bestiame. Era una società in
continua evoluzione, le aziende stabili si sostituivano agli insediamenti isolati dai pionieri
introducendo un’agricoltura mercantile che forniva cibo al Nord-Est.
Le differenze tra Nord e Sud erano destinate al contrasto. Proprio l’idea della schiavitù non
conciliava con la mentalità democratica delle popolazioni del Nord. L’estensione dell’economia
delle piantagioni ai nuovi territori era richiesta dai piantatori del Sud, ma incontrarono le
opposizioni da parte del Nord ma anche tra i coloni dell’Ovest, che chiedevano terre in uso
gratuito per diffondere la coltivazioni di cereali. Alla divisione della società, si aggiunsero i contrasti
politici. I partiti tradizionali, dunque i democratici e i liberali, entrarono in una profonda crisi. I
democratici si identificarono con la causa dei grandi proprietari schiavisti, mentre da liberali
nacque il partito repubblicano, che assunse una posizione antischiavista. Il nuovo partito conquistò
sempre più consensi, tanto che nelle elezioni del 1860 Abraham Lincoln ottenne la presidenza. Lui
non era un abolizionista radicale, anzi aveva negato di voler abolire la schiavitù dove esisteva.
Tuttavia la vittoria repubblicana era stata sentita molto dal Sud, che così portò alla vittoria degli
interessi industriali, al rafforzamento del potere centrale e all’emarginazione degli Stati schiavisti.
Tra il 1960-61 i timori nei contrasti della politica di Lincoln spinsero dieci stati del sud a staccarsi
dagli Stati Uniti, per unirsi in una Confederazione. Pertanto era inevitabile che Stati Uniti e
Confederazione si scontrassero in una guerra civile. Nelle fasi iniziali della guerra il miglior
addestramento delle forze sudiste e le notevoli capacità del loro comandante diedero ai
confederati un netto vantaggio. Ma il fattore numerico e quello economico furono decisivi per la
guerra, che si concluse nel 1865 con la resa dei confederati. La guerra era durata 4 anni, aveva
visto coinvolti oltre tre milioni di uomini e 600mila morti. Era stata la prima guerra totale dei nostri
tempi, intesa come la prima che avesse coinvolto così a lungo la società civile di un grande paese
moderno, la prima in cui fossero usati i nuovi mezzi offerti dallo sviluppo tecnologico e industriale.
Il 1 gennaio del 1863 fu decretata la liberazione degli schiavi in tutti gli Stati del Sud. In realtà, gli
schiavi acquistarono la libertà, ma le loro condizioni economiche non migliorarono. Il Sud fu
sottoposto un regime di occupazione militare, il risultato fu una reazione di rigetto, che prima si
espresse in forma di lotta clandestina, creando l’organizzazione razzista Ku Klux Klan,
determinando poi la riscossa del Partito Repubblicano nel Sud. Il ritorno alla normalità nel Sud,
determinò la supremazia dei bianchi destinata a restare per gran parte del 900.
All’indomani della guerra di secessione, proseguì lo slancio di colonizzazione dell’Ovest. Nel 1890
la conquista poteva dichiararsi compiuta. Le vittime principali erano le tribù pellerossa che videro
restringere i propri spazi. Queste tribù cercarono di resistere alla conquista bianca e furono in
grado di riportare qualche successo, ma in seguito alla guerra furono ridotti a un corpo marginale.
Quando Napoleone III cercò di far nascere un impero del Messico, gli Stati Uniti sostennero la
guerriglia dei repubblicani messicani fornendo anche armi: i francesi furono pertanto sconfitti. La
società americana, attorno al 1860, stavano vivendo un periodo di sviluppo capitalistico. La
crescita più imponente si verificò nell’industria, tanto che verso la fine dell’800, gli Stati Uniti
avevano superato la Gran Bretagna e la Germania, diventando anche il paese esportatore per
eccellenza. Il grande sviluppo e dunque lo strapotere delle corporations, iniziò a preoccupare,
danneggiando i contadini del Midwest a causa dei prezzi elevati dei manufatti. Nel 1886 venne
fondata l’American Federation of Labor, una confederazione di sindacati autonomi priva di una
precisa caratterizzazione politica. È in questo contesto che va considerata la nuova politica
espansionistica messa in atto dagli Stati Uniti. La prima importante manifestazione di questa
politica la possiamo ricondurre a Cuba dove era in corso una rivolta contro i dominatori spagnoli.
Nel 1898, l’affondamento di una nave da guerra americana nel porto dell’Avana, condusse alla
guerra con la Spagna, sconfitta nel Pacifico. Cuba divenne una repubblica indipendente, ma sotto il
dominio degli Stati Uniti. La Spagna dovette cedere dei territori, garantendo agli Stati Uniti un
maggiore potere, riuscendo ad ottenere anche le isole Hawaii: pertanto gli Stati Uniti iniziarono ad
assumere il ruolo di potenza mondiale.
Il Giappone continuava a mantenere una struttura sociale e politica legata ancora al 600,
basandosi sullo shogun. Sarà grazie agli Stati Uniti che inizierà ad aprire la strada alla modernità,
partendo proprio dai commerci con l’estero. L’iniziativa americana portò alla stipula, nel 1858, ad
una serie di accordi commerciali, i cosiddetti trattati ineguali. Questi suscitarono un’ondata di
risentimento nazionalistico in tutto il paese, guidata dai feudatari e dai samurai. Dopo circa dieci
anni, fu considerato decaduto lo shogun, dando vita a un governo con sede a Tokyo, rifacendosi ad
un giovane imperatore. La restaurazione Meiji non rafforzò il potere dei feudatari. Il Giappone era
comunque consapevole della propria arretratezza. Ma la modernizzazione avvenne nel giro di
pochissimo e senza destabilizzare gli equilibri della nazione. Furono proclamate l’uguaglianza
giuridica di tutti i cittadini, l’abolizione dei diritti feudali e la trasformazione dei feudi in
circoscrizioni amministrative. Fu anche resa obbligatoria la scuola elementare e venne unificata la
moneta. Anche l’industria crebbe in maniera esponenziale, grazie al massiccio investimento di
capitali e alle importazioni di tecnologia straniera. Si svilupparono anche le ferrovie, le
comunicazioni telegrafiche. Dunque in Giappone si verificò una rivoluzione dall’alto. Ci fu anche un
Parlamento, che però aveva poteri ancora limitati ed eletto a suffragio ristretto. Furono le classi
dirigenti a guidare le trasformazioni del paese. Fu la prima volta che un Paese si modernizzo in così
poco tempo, diventando subito una potenza mondiale.

CAPITOLO 5
Negli ultimi decenni dell’800, l’imperialismo fu uno degli aspetti che caratterizzò le potenze
mondiali. La nuova espansione venne assunta come un obiettivo di politica nazionale da parte dei
governi. Subentrò un disegno più sistematico di assoggettamento politico e sfruttamento
economico. I territori detenuti dalle potenze europee vennero ampliati nel giro di pochi anni. Un
ruolo fondamentale per questo fenomeno lo si riconduce agli interessi economici, ricercando
materie prime a basso costo, cercando anche di rafforzare gli sbocchi commerciali. Le motivazioni
politico-ideologiche ebbero una grande importanza, affondando le loro radici in una mescolanza di
nazionalismo e di politica di potenza, di razzismo e di spirito missionario. Spesso l’azione coloniale
era determinata dall’intento di prevenire e controbattere le iniziative di potenze concorrenti. Il
risultato fu che il mondo intero risultò spartito in imperi e zone di influenza fra le maggiori
potenze. L’interesse dell’opinione pubblica europea nei confronti delle colonie fu alimentato
dall’eco delle grandi esplorazioni che ebbero per teatro l’Africa. In questo interesse confluivano la
prospettiva di grandi ricchezze nascoste nei territori da esplorare, la curiosità scientifico-geografica
tipica della cultura del positivismo.
Gli sviluppi più spettacolari dell’espansione coloniale di ebbero nel continente africano: i paesi
europei controllavano un decimo dei territori. Si assistette anche a un rilancio dell’attività
missionaria. I primi atti della nuova espansione furono l’occupazione francese della Tunisia e
quella britannica dell’Egitto. In entrambi i paesi le potenze europee avevano consistenti interessi
economici e strategici. La Tunisia era rivendicata dalla Francia. L’Egitto aveva acquistato
un’importanza per la Gran Bretagna dopo che era stato aperto il Canale di Suez, che permetteva di
raggiungere più velocemente l’Asia. Francia e Gran Bretagna decisero la strada dell’intervento
militare. La prima a muoversi fu la Francia che trasse pretesto da un incidente avvenuto alla
frontiera con l’Algeria per inviare un ingente militare a Tunisi. Gli avvenimenti tunisini ebbero
ripercussioni in Egitto, dove la nascita di un movimento nazionalista sembrò mettere in pericolo il
controllo internazionale sul Canale di Suez. Il governo britannico, dunque, mandò in Egitto un
copro di spedizione che sconfisse gli egiziani e assunse il controllo del Paese: dunque l’Egitto
divenne una colonia britannica. La Gran Bretagna si trovò anche impegnata nel Sudan. Il profeta
aveva mandato delle truppe in una guerra santa contro le forze anglo-egiziane sconfiggendole e
fondando un proprio Stato, che i Britannici avrebbero controllato solo dal 1898. L’azione della
Gran Bretagna in Egitto, provocò il risentimento della Francia, suscitando tra le due potenze una
rivalità destinata a durare per quasi un ventennio. I primi contrasti tra i conquistatori europei si
delinearono nel bacino del Congo. Leopoldo II del Belgio si era costruito una sorta di impero
personale. In seguito alla scoperta di giacimenti minerari, il sovrano belga cercò di consolidare il
suo dominio tramite uno sbocco sull’Atlantico. La questione del Congo, però, fu oggetto di una
conferenza internazionale convocata a Berlino per iniziativa di Bismarck. Questa conferenza
codificò le norme che avrebbero dovuto regolarla anche nell’avvenire. Il principio adottato fu
quello dell’effettiva occupazione: questo principio lasciava margini di incertezza e stimolò anche
un’accelerazione della corsa all’occupazione di territori ritenuti di interesse economico o
strategico. La conferenza d Berlino riconobbe la sovranità di Leopoldo II sul Congo belga. La Gran
Bretagna non si oppose alle conquiste francesi, concentrandosi invece sull’Africa sud-orientale. La
tendenza della Gran Bretagna era quella di saldare i possedimenti britannici a sud dell’equatore,
assicurandosi un dominio dall’estremità meridionale a quella settentrionale. Questo disegno entrò
in contrasto con la Germania: pertanto la Gran Bretagna riconobbe l’Africa orientale tedesca,
ottenendo Zanzibar. I britannici si trovarono in contrasto con i francesi che si erano spinti fino al
Sudan. Il governo francese, per evitare che i due eserciti entrassero in guerra, ritirò le sue truppe
rinunciando alle sue mire sulla regione. Pertanto agli inizio del 900 la spartizione dell’Africa era
quasi completa. Tutto il resto del continente era diviso in colonie e in protettorati.
In Africa meridionale l’imperialismo della Gran Bretagna si scontrò con un nazionalismo locale di
origine europea: abbiamo uno scontro tra due popoli bianchi, ambedue cattolici. I boeri erano i
discendenti degli agricoltori olandesi che avevano colonizzato la Colonia del Capo. Per sfuggire alla
sottomissione, molti avevano dato via a un esodo verso il nord, anche noto come Grande Trek
dove avevano fondato le due Repubbliche dell’Orange e del Transvaal. La scoperta di importanti
miniere di diamanti nel Transvaal risvegliò l’interesse britannico. Se nella prima guerra boera i
britannici vennero sconfitti, in seguito la politica britannica si fece più aggressiva. La Gran
Bretagna, infatti, poté espandere i suoi domini in buona parte dell’Africa meridionale, circondando
le due Repubbliche boere. La tensione crebbe sempre di più fino a quando nel 1899 il presidente
del Transvaal dichiarò guerra alla Gran Bretagna. La seconda guerra boera fu lunga e sanguinosa. I
boeri combattevano con grande tenacia, riportando all’inizio notevoli successi. Ci fu però la
sconfitta nel 1902, seguita dall’annessione del Transvaal e dell’Orange all’impero britannico.
Nonostante ciò, i boeri cercarono di resistere per anni, ma furono costretti a cedere al controllo
britannico in seguito ad azioni di antiguerriglia. Ottener comunque uno statuto di autonomia,
simile alla Colonia del Capo, dando origine nel 1910 all’Unione sudafricana. Britannici e boeri
collaborarono allo sfruttamento delle risorse del paese.
Diverse potenze europee, oltre all’Africa, possedevano vari territori appartenenti al continente
asiatico. A dare un contributo alla corsa verso oriente fu il Canale di Suez: questo canale mise in
contatto il Mar Mediterraneo con il Mar Rosso, abbreviando di molto anche gli scambi
commerciai. L’India fu a lungo governata dalla Compagnie delle Indie, che agiva come
rappresentante del governo britannico. L’effetto principale della presenza britannica era stato di
quello di distruggere l’industria cotoniera locale. Il potere statale era assente, il senso
dell’appartenenza alla comunità locale prevaleva sul legame con l’autorità. I colonizzatori
britannici si erano appoggiati sulle gerarchie sociali preesistenti per assicurare il mantenimento
dell’ordine e della riscossione delle imposte. La Compagnia delle Indie fu però soppressa e il paese
passò sotto la diretta amministrazione della Corona. L’esercito e la burocrazia furono riformati. La
costruzione di nuove ferrovie consentì anche uno stretto controllo militare su tutto il territorio
indiano. Nel 1876 la regina Vittoria fu eletta imperatrice delle Indie. I francesi invece cominciarono
ad avanzare in Indocina, abitata da popolazione di religione buddista. All’inizio i francesi si
limitarono a costruire qualche stazione commerciale. Furono le persecuzioni contro i missionari a
fornire alla Francia il pretesto di un intervento militare. Una seconda fase dell’espansione in
Indocina si aprì attorno al 1880. La Francia infatti riuscì a estendere il suo protettorato a tutto
l’Annam. La Gran Bretagna occupò il Regno di Birmania e la Francia rispose assicurandosi il
controllo di Laos. L’impero russo seguiva invece due direttrici di espansione: la prima verso la
Siberia e l’Estremo Oriente, la seconda verso l’Asia centrale. La colonizzazione della Siberia fu
realizzata sotto la spinta e il controllo delle autorità statale. I risultati furono notevoli: la Siberia
infatti vide raddoppiata la sua popolazione e incrementate le attività produttive e commerciali. In
Asia centrale l’impero zarista riuscì a incrementare l’itera regione del Turchestan: proprio qui
Russia e Gran Bretagna si scontrarono ma alla fine il territorio resterà indipendente ma sotto il
controllo britannico. La Gran Bretagna occupò anche le isole Fiji e le Marianne, mentre la Nuova
Guinea fu divisa tra tedeschi e britannici.
L’impero cinese era rimasto inaccessibile ai viaggiatori e ai commercianti occidentali. Questo
isolamento nascondeva delle debolezze. La società cinese, infatti, aveva perso il primato scientifico
e tecnologico di cui godeva. Pertanto gli equilibri erano alquanto instabili e si rischiavano ribellioni.
Ci fu uno scontro tra Cina e Gran Bretagna a causa dell’oppio. La droga, prodotta in grandi quantità
da piantagioni indiane, venivano poi esportate nei territori cinesi, dove invece era illegale. Quando
nel 1839 un funzionario cinese fece sequestrare il carico di droga, il governo britannico decise di
intervenire militarmente. I britannici ebbero partita vinta, conquistando tutti gli accessi dei grandi
fiumi e dei porti cinesi. La Cina dovette cedere alla Gran Bretagna la città di Hong Kong e aprire al
commercio straniero altri quattro porti. La Cina dunque si trovò a fronteggiare una gravissima
guerra interna e un nuovo scontro con la Gran Bretagna. Il conflitto si concluse nel 1860 con una
nuova capitolazione della Cina, costretta ad aprire al commercio estero.
Quasi tutte le espansioni coloniali furono segnate dall’uso sistematico della violenza contro le
popolazioni indigene. Soprattutto nell’Africa nera le frequenti rivolte delle popolazioni locali
contro i dominatori si concludevano in massacri. Dal punto di vista economico, spesso poteva
avere dei risvolti positivi, in quanto si modernizzavano paesi che erano ancora arretrati, portando
anche nuovi mezzi tecnologici. Ma al tempo stesso vigeva lo sfruttamento, pagando i colonizzati a
prezzi minimi per lavori estenuanti. Si passò dalla povertà al sottosviluppo. Il razzismo condizionò
la politica degli stati europei nelle colonie. Le nuove città coloniali furono caratterizzate da
quartieri separati e dalla creazione di confini che dividevano dagli italiani in Libia tracciando una
linea tra il popolo bianco, ritenuto superiore, e i colonizzati, inferiori. Gli effetti della
colonizzazione sulle culture dei paesi afro-asiatici furono drammatici. I sistemi culturali legati a
strutture politico-sociali e religiose bene organizzate e con una solida tradizione alle spalle,
opponendo una resistenza consapevole. Interi sistemi di vita, riti e tradizioni entrarono in crisi. Sul
piano politico, l’espansione coloniale finì per favorire la formazione di nazionalismi locali a opera
di nuovi dirigenti formatisti proprio nelle scuole europee, dove avevano avuto la possibilità di
assorbire gli ideali democratici e i principi del nazionalismo.

CAPITOLO 6
Nel momento in cui avviene l’Unità d’Italia, il tasso di alfabetizzazione era alquanto basso. Circa il
75% della popolazione era analfabeta. Infatti solo il 10% degli italiani era da considerare italofono,
ovvero che parlava in italiano. L’Italia, in questo, era molto più indietro di tantissimi altri Paesi.
L’Italia però era uno dei Paesi con maggior numero di città. La grande maggioranza degli italiani
viveva nelle campagne e nei piccoli centri rurali e traeva il sostentamento dalle attività agricole.
L’agricoltura italiana, però, non era avvantaggiata dalle condizioni naturali. Le zone pianeggianti
costituivano una minima parte, in confronto a quelle montuose e collinari. Quella italiana era
un’agricoltura povera, caratterizzata da una grande varietà di colture e tipologie. La terra era
divisa in poderi in piccole e medie dimensioni dove ciascun podere produceva quanto era
necessario per il mantenimento delle famiglie che vivevano sul fondo. In molte zone dell’Italia
meridionale la coltivazione prevalente era il latifondo: grandi distese con la popolazione
concentrate in pochi e grossi borghi rurali. I contadini italiani vivevano ai limiti della sussistenza
fisica, nutrendosi con pane e pochi legumi, soggetti dunque a denutrizione. Vivevano inoltre
ammucchiati in abitazioni piccole e malsane. Sconosciute alla classe dirigente del paese erano le
condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno. Sappiamo però che vi era un divario abissale tra
Nord e Sud, testimoniato anche dalla distanza culturale e dai diversi comportamenti e mentalità.
Anche lo stesso livello di alfabetizzazione era simbolo di questo divario: al Nord il tasso di
analfabeti era molto più basso rispetto a quello del Sud. Tuttavia il confronto delle due Italie
risultavano, a livello europeo, appiattite e accumunate da un senso di arretratezza. Non fu affatto
semplice governare l’Italia dopo la sua unificazione. La morte improvvisa di Cavour lasciava priva di
una guida la classe dirigente moderata. Nei primi Parlamenti dell’Italia unita, la maggioranza si
collocava a destra ed è proprio per questo che si definiva Destra storica. Essa costituiva un gruppo
di centro moderato. Anche i mazziniani di stretta osservanza e i repubblicani intransigenti
rifiutarono di partecipare all’attività politica ufficiale. Sui banchi dell’opposizione in Parlamento
sedettero gli esponenti della vecchia sinistra piemontese: formavano infatti la cosiddetta Sinistra
storica. La Sinistra si appoggiava su una base sociale più ampia e composita, formata dai gruppi
borghesi della città. La sinistra postunitaria portò avanti le rivendicazioni democratiche
risorgimentali. Destra e Sinistra erano espressione di una classe dirigente ristretta. La legge
elettorale piemontese, che poi è stata estesa a tutto il Regno, concedeva il diritto di voto solo ai
cittadini maschi che avessero compiuto 25 anni, sapessero leggere e scrivere e pagassero le
imposte di 40 lire l’anno. La lotta politica si imperniava su singole personalità più che su
programmi definiti: era dominata da pochi notabili che sfruttavano la propria influenza e le proprie
relazioni per ottenere i voti necessari all’elezione e condizionata dal potere esecutivo che poteva
favorire la rinascita dei canditati governativi. La classe dirigente era convinta di rappresentare la
parte migliore del paese: infatti gli uomini della Destra storica si distinsero per onestà e per rigore.
Gli esponenti della Destra storica furono proiettati a identificare le sorti del proprio gruppo politico
con quelle delle istituzioni statali. La preoccupazione quasi ossessiva dell’unità di salvaguardare
contro i nemici condizionò le scelte dei primi governi postunitari e determinò la stessa fisionomia
del nuovo Stato. I leader della Destra erano disposti a riconoscere la validità di un sistema
decentrato, basato sull’autogoverno. L’accentramento era il risultato inevitabile delle unificazioni.
Tra il 1859-60 erano state varate delle leggi riguardanti i settori chiave della vita del paese: furono
emanate la legge Casati sull’istruzione, che creava un sistema nazionale e stabiliva il principio
dell’istruzione elementare obbligatoria; la legge Rattazzi, che affidava il governo dei comuni a un
consiglio eletto a suffragio ristretto. Il territorio nazionale era suddiviso in province, poste sotto il
controllo dei prefetti.
Tra i motivi che spinsero la classe politica a scegliere l’accentramento e ad accantonare ogni
progetto di decentramento amministrativo, il principale fu costituito dalla situazione che si era
venuta a creare nel Mezzogiorno. Il malessere antico delle masse masse contadine si sommò a
un’ostilità verso il nuovo ordine politico, che aveva visto la borghesia rurale schierarsi dalla parte
dei conquistatori. A questo si erano aggiunte la nuova pesante fiscalità e la leva militare
obbligatoria. In tutte le regioni del Mezzogiorno continentale si erano formate bande di irregolari,
dove i cittadini insorti si mescolavano a ex militari borbonici e ai cospiratori e ai banditi. Le bande
assalivano i piccoli centri e li occupavano per giorni, incendiando gli archivi. A queste aggressioni il
governo reagì con spietata energia, rafforzando la presenza militare al Sud. Nel 1863 il Parlamento
approvò una legge che istituiva nelle province in stato di brigantaggio, un regime di guerra: il
brigantaggio fu così sconfitto nel giro di pochi anni. Rimasero irrisolti i nodi politici e sociali che
avevano reso possibile la diffusione del fenomeno. Mancò ai governi di Destra la capacità di
attuare una politica per il Mezzogiorno capace di ridurre le cause del malcontento. La divisione dei
territori demaniali, dunque terre pubbliche di origine feudale, fu portata avanti con scarsa
incisività. Le scelte di politica economica della Destra accentuarono il divario fra le regioni del Sud
e quelle del Centro-Nord.
I governi della Destra dovettero affrontare il complesso problema dell’unificazione economica del
paese. Vennero uniformati a quello del Piemonte i diversi sistemi monetari presenti nella penisola,
con l’adozione della lira italiana. Rapido fu lo sviluppo delle vie di comunicazione stradali e
ferroviarie, premessa indispensabile per la formazione di un mercato nazionale ma anche simbolo
visibile di una modernità e di progresso civile. Nei primi decenni dopo l’Unità, il settore agricolo
conobbe un significativo incremento di produttività di cui si avvantaggiarono le culture
specializzate del Mezzogiorno e la produzione della seta greggia. Gli effetti negativi della scelta
liberista colpirono i pochi nuclei industriali del Mezzogiorno, cancellati dalla caduta dei dazi
protettivi che ne avevano sostenuto lo sviluppo. Le attività industriali erano convinti che la
vocazione dell’Italia risiedesse nell’agricoltura. L’espansione dell’agricoltura consentì
un’accumulazione di capitali che rese possibile un potenziamento delle infrastrutture. Ma nel
complesso l’Italia aveva perso terreno nei confronti dei paesi più progrediti e il tenore della vita
della maggioranza dei suoi abitanti era peggiorato. Responsabile principale di questa situazione fu
la durissima politica fiscale. La costruzione del nuovo Stato, infatti, aveva comportato spese
altissime. Per far fronte a queste spese, i governi della Destra dovettero ricorrere a una serie di
inasprimenti fiscali, che colpivano i redditi e i patrimoni, oltre che i consumi. Nel 1868 fu introdotta
una tassa sulla macinazione dei creali, appunto la tassa sul macinato: si trattava di una tassa sul
pane, dunque sul consumo popolare per eccellenza, che colpiva le classi più povere, tanto da
scatenare le prime agitazioni sociali su scala nazionale della storia dell’Italia unita.
Mentre i leader della Destra si affidavano ai tempi lunghi delle vie diplomatiche, la Sinistra restava
fedele all’idea della guerra popolare e vedeva nella lotta per la liberazione di Roma la possibilità
per un rilancio dell’iniziativa democratica. Il nodo più difficile da sciogliere era rappresentato dalla
questione romana, proclamata capitale nel 1861, ma sede di un pontificato ostile all’Unità e difesa
dalle truppe francesi. La questione romana andava risolta con prudenza perché da un lato la
Francia rimaneva l’alleato più sicuro e il principale partner economico dell’Italia, ma dall’altra
parte il pase era quasi totalmente cattolico e il clero continuava a svolgere un ruolo decisivo nel
controllo sociale e culturale delle campagne. Si diffuse, con Cavour, il concetto di “libera Chiesa in
libero Stato”, avviando trattative di una soluzione che assicurasse al papa e al clero piena libertà di
esercitare il proprio magistero spirituale in cambio del riconoscimento del nuovo Stato. Di fronte a
questa situazione, apparve possibile una ripresa della mobilitazione patriottica democratica
guidata sempre da Garibaldi. I due tentativi si rivelarono fallimentari. Inizialmente Garibaldi
raccolse in Sicilia qualche migliaio di volontari, fermato sdalle truppe regie. Dopo qualche anno fu
trovato un accordo con la Francia in base al quale l’Italia si impegnava a garantire il rispetto dei
confini dello Stato della Chiesa, ottenendo la garanzia del ritiro delle truppe francesi dal Lazio.
Pertanto il governo decise di spostare la capitale da Torino a Firenze, sembrando di rinunciare a
Roma. Si avviò una nuova iniziativa garibaldina, che avrebbe dovuto appoggiarsi su un’insurrezione
preparata dai patrioti romani. Le truppe francesi, però, si scontrarono alle porte di Roma con i
volontari di Garibaldi, sconfiggendoli. L’Italia intanto si era assicurata il possesso del Veneto e
aveva anche accettato la proposta di alleanza militare con la Prussia. Gli italiani, però, furono
sconfitti nonostante le forze austriache fossero inferiori di numero. Solo Garibaldi era riuscito ad
aprirsi la via verso il Trento, ma si erano dovuti fermare perché i prussiani avevano stipulato
l’armistizio con gli austriaci. L’ultima delle guerre di indipendenza si concludeva con un bilancio
deludente: infatti l’Italia non possedeva il Trentino e la Venezia Giulia. La sconfitta rappresentava
l’impreparazione militare italiana, ma aveva diffuso in larga parte dell’opinione pubblica la
convinzione che il nuovo Stato non era pronto a inserirsi nelle potenze europee. Anche la presa di
Roma dipese dai successi militari della Prussia. Questa volta fu la Francia a essere sconfitta. Infatti
il governo italiano decise di inviare un corpo di spedizione nel Lazio. Le truppe italiane entrarono
nella città – la breccia nelle mura presso Porta Pia - accolte festosamente dalla popolazione e poco
dopo ci fu l’annessione di Roma nel Lazio. Questo dunque dava inizio a una nuova storia per il
cattolicesimo romano. Nel 1871 la capitale, con tutte le sue strutture politiche e amministrative, fu
trasferita da Firenze a Roma. Intanto era stata approvata una legge con il quale il Regno d’Italia si
impegnava a garantire al pontefice le condizioni per il libero svolgimento del suo magistero
spirituale. Al papa venivano riconosciute prerogative simile a quelle del capo di Stato. Non si
ridusse comunque l’ostilità di Pio IX nei confronti dello Stato, che anzi stipulò il non expedit,
ovvero un esplicito divieto di partecipare alle elezioni politiche. La condizione di tensione e ostilità
si risolverà solo con i Patti lateranensi.
Nel 1876 il governo passò dalla Destra alla Sinistra: infatti erano in molti a chiedere una politica
meno rigida e restrittiva, che lasciasse più ampi argini alla formazione della ricchezza privata. Il re,
pertanto, chiamò a formare il nuovo governo Agostino Depretis, leader della Sinistra
all’opposizione. Infatti nelle elezioni politiche, il successo della Sinistra fu netto, confermando il
declino della Destra. Col 1876 si apriva una nuova fase nella storia politica dell’Italia unita. La
Sinistra parlamentare aveva attenuato la sua originaria connotazione radical-democratica e aveva
accolto nel suo seno componenti moderate o conservatrici. Il protagonista indiscusso fu Depretis,
a capo del governo per dieci anni. Approdò a posizioni più moderate e riuscì a contemperare con
abilità le spinte progressiste e le tendenze conservatrici presenti nella maggioranza. Instituirono
diverse riforme. Una delle più importanti fu la Riforma dell’istruzione elementare, la legge
Coppino, che prolungò l’obbligo della frequenza scolastica a nove anni di età e inasprì le sanzioni
per i genitori inadempienti. Legato al problema dell’istruzione era quello dell’ampliamento del
suffragio. La nuova legge elettorale introduceva come requisito fondamentale l’istruzione,
concedendo il diritto di voto ai cittadini che avessero 25 anni di età e avessero superato l’esame si
scuola obbligatorio. A causa dell’alto tasso di analfabetismo, la consistenza numerica
dell’elettorato restava esigua. Le prime elezioni a suffragio allargato videro l’ingresso alla Camera
del primo deputato socialista, Andrea Costa. Le preoccupazioni suscitate dall’ampliamento del
suffragio e dal conseguente rafforzamento dell’estrema Sinistra a favorire quel processo di
convergenza fra le forze moderate di entrambi gli schieramenti, che nacque da un accordo tra
Depretis e Mighetti, dunque sinistra e destra, che prese il nome di trasformismo. La sostanza del
trasformismo stava nel venir meno delle tradizionali distinzioni ideologiche fra Destra e Sinistra e
nella rinuncia a una precisa caratterizzazione. A un modello bipartito si sostituiva un altro basato
su un grande Centro che tendeva a inglobare le opposizioni moderate e a emarginare le ali
estreme. La svolta moderata di Depretis ebbe come conseguenza il distacco della maggioranza dei
gruppi democratici più avanzati che continuavano a battersi per il suffragio universale. Sotto la
guida di Bertani e Cavallotti questo gruppo svolse un ruolo di opposizione contro le maggioranze
trasformiste.
La Sinistra allentò la dura politica fiscale: la contestata tassa sul macinata fu infatti diminuita nel
1880, per essere poi abolita nel 1884. Venne aumentata la spesa pubblica. Questa politica provocò
la ricomparsa del deficit crescente nel bilancio statale. I pochi miglioramenti avevano riguardato le
zone e i settori progrediti. Nelle altre zone di Italia, la situazione dell’agricoltura non era cambiata
molto. Questa realtà fu documentata dalla grande Inchiesta agraria di Stefano Jacini. Dall’Inchiesta
emergeva un quadro drammatico dello stato dell’agricoltura italiana. Nella relazione finale si
indicavano come rimedi un’estensione delle colture e una loro diversificazione. La situazione si
aggravò quando l’Italia cominciò a risentire degli effetti della crisi che investì l’agricoltura europea:
un brusco abbassamento dei prezzi colpì i cereali e poi l’insieme dei prodotti agricoli. Al calo dei
rezzi seguì un calo della produzione. Inoltre questa crisi culmina con l’abbandono di numerosi
italiani che emigrano. Gli esponenti della Sinistra erano avversi in linea di principio all’intervento
dello Stato nell’economia. Una decisiva svolta in senso protezionistico era invocata da quasi tutti
gli industriali e dai proprietari terrieri. Si giunse al varo di una nuova tariffa doganale che
proteggeva dalla concorrenza straniera importanti settori dell’industria nazionale. In campo
agricolo, il nuovo regime doganale fu esteso ai cereali. È opinione comune che la scelta
protezionistica costituisse per l’Italia una sorta di passaggio obbligatorio sulla strada di quel
decollo industriale. Però i dazi doganali non proteggevano in modo uniforme i diversi comparti
produttivi. Per quanto riguarda l’agricoltura, l’introduzione del dazio sul grano provocò un rialzo
del prezzo dei cereali che danneggiò i consumatori e contribuì a tenere in vita arretrate realtà
produttive. La tariffa del 1887 ebbe come conseguenza una rottura commerciale con la Francia,
facendo diminuire di molto l’esportazione.
Anche per la politica estera italiana gli anni della Sinistra segnarono una svolta decisiva: nel 1882 il
governo Depretis stipulò con la Germania e l’Austria-Ungheria il trattato della Triplice Alleanza.
Questa scelta rappresenta una rottura poiché abbandonava la politica seguita dai governi
precedenti basata sul mantenimento di buone relazioni con le grandi potenze e sul rapporto
preferenziale con la Francia. L’isolamento era apparso chiaro quando la Francia aveva occupato la
Tunisia e l’Italia non aveva fatto nulla per opporsi. Per uscire dall’isolamento, l’Italia non aveva
altra strada se non quella dell’accordo con Germania e Austria. La Triplice era un’alleanza di
carattere difensivo, che impegnava gli Stati firmatari a garantirsi reciproca assistenza in caso di
aggressioni da parte di altre potenze. Questa alleanza fu rinnovata diverse volte, ma le garanzie
ottenute sulla carta dall’Italia nel 1887 non vennero mai applicate. Al tempo stesso, il governo
Depretis aveva ritenuto opportuno porre le basi per una piccola iniziativa coloniale in Africa
orientale. Il punto di partenza fu costituito dall’acquisto della Baia di Assab. Questa zona era
abitata da popoli nomadi. L’Etiopia era un paese economicamente arretrato con una popolazione
di fede cristiana e di confessione copta. Prevedeva un’organizzazione di tipo feudale in cui
l’autorità dell’imperatore, il negus, era limitata da quella dei signori locali, i ras, che disponevano
di propri eserciti. In un primo tempo gli italiani cercarono di stabilire buoni rapporti con gli etiopi e
di avviare una penetrazione commerciale. Ma nel 1887 una colonna di militari italiani fu sorpresa
dalle truppe abissine del ras Alula e sterminata nei pressi di Dogali. La notizia della disfatta suscitò
un’ondata di preteste in tutto il paese. La Camera accordò al governo i finanziamenti richiesti per
l’invio di rinforzi e per il consolidamento della presenza italiana sulla fascia costiera.
Il ritardo nello sviluppo industriale rallentò in Italia la crescita di un movimento operaio
organizzato. L’unica organizzazione operaia di una certa consistenza diffusa fu quella della società
di mutuo soccorso, controllate dai mazziniani e da esponenti moderati. Le società di mutuo
soccorso avevano scopi di solidarietà, rifiutando la lotta di classe e lo sciopero. La crescita del
movimento internazionalista si dovette all’opera di alcuni agitatori, come Cafiero, Andrea Costa,
Malatesta, che, fedeli a Bakunin, concentrarono i loro sforzi nell’organizzazione di moti
insurrezionali. Il fallimento di questi tentativi convinse Costa che era necessario elaborare un
programma concreto. La svolta di Costa trovò una prima attuazione con la nascita del Partito
socialista. Il partito rimase una formazione locale: fin dall’inizio circoli operai e leghe di resistenza
erano venuti sorgendo in numerosi centri industriali e avevano dato un forte impulso all’azione
rivendicativa dei lavoratori. Fra il 1887 e il 1893 sorsero le prime organizzazioni sindacali a
carattere nazionale, vennero fondate le prime Camere del lavoro. Per tutto il movimento di classe
si poneva il problema di una organizzazione politica unitaria capace di guidare e coordinare le lotte
a livello nazionale. Fu l’intellettuale milanese, Filippo Turati, il principale protagonista delle vicende
che portarono alla fondazione del Partito socialista italiano. Decisivo nella sua formazione fu Anna
Kuliscioff, giovane esule russa che aveva già alle spalle un’esperienza politica e una conoscenza del
mondo socialista europeo. La posizione di Turati fu chiara: l’affermazione dell’autonomia del
movimento operaio dalla democrazia borghese, il riconoscimento del carattere prioritario delle
lotte economiche. Nel 1892 si radunarono i delegati di operai, leghe contadine e circoli politici,
delineando una frattura tra la maggioranza. Vista l’impossibilità di trovare un accordo, i delegati
della maggioranza, guidati da Turati, abbandonarono la sala del congresso e dichiararono
costituito il Partito dei lavoratori italiani, approvandone il programma e lo statuto. Divenuto
Partita socialista dei lavoratori italiani, assunse nel 1895 il nome di Partito socialista italiano. In
tutto ciò i cattolici costituivano una forza eversiva nei confronti delle istituzioni unitarie di cui non
riconoscevano la legittimità. Qualche segno di apertura la si ha nel 1878, con Papa Leone XIII: il
movimento cattolico italiano accentuò il suo impegno sul terreno sociale, facendo sorgere società
di mutuo soccorso, cooperative agricole e artigiane controllate dal clero e ispirate alla dottrina
sociale cattolica.
Alla morte di Depretis, fu nominato Presidente del Consiglio Francesco Crispi, personalità della
Sinistra. Poteva contare su ampie simpatie a sinistra ma anche sulla fiducia di gruppi conservatori.
Crispi impresse un svolta all’azione di governo: si fece promotore di un’opera di riorganizzazione e
di radicalizzazione dell’apparato statale. Fu approvata la legge comunale e provinciale che
ampliava il diritto di voto per le elezioni amministrative; fu varato un nuovo Codice Penale, ovvero
il Codice Zanardelli, che aboliva la pena di morte. Crispi fu anche sostenitore dell’ascesa dell’Italia
a grande potenza coloniale. Puntava sul rafforzamento della Triplice alleanza: infatti nelle sue
intenzioni doveva servire anche da base per una più attiva presenza in Africa. La politica colonia
crispina suscitava perplessità nella maggioranza in quanto risultava troppo costosa per il bilancio
dello Stato. Crispi, messo in minoranza, si dimise nel 1891. Subito dopo, la presidenza del Consiglio
passò a Giovanni Giolitti. Questi si presentava con un programma avanzato. In politica finanziaria
mirava a una più equa ripartizione del carico fiscale, che risparmiasse i ceti disagiati e colpisse con
aliquote più alte i redditi maggiori. In politica interna aveva idee innovatrici, contrarie
all’intervento repressive contro il movimento operaio. L’ostilità dei conservatori, però, contribuì a
indebolire il governo e ad accelerarne la caduta, che fu dovuta soprattutto allo scandalo della
Banca Romana, responsabile dell’emissione fraudolenta di carta moneta e di finanziamento
occulto per influenzare in occasione delle elezioni. Giolitti, pertanto, cadde e fu sostituito
nuovamente da Crispi, anche lui coinvolto, ma considerato un uomo più forte. Tornato al governo,
Crispi affrontò con risolutezza una situazione che vedeva l’opinione pubblica allarmata dalla crisi
economica, sconcertata dagli scandali bancari. In campo economico, il nuovo governo avviò una
politica di rinsaldamento del bilancio basata su pesanti inasprimenti fiscali e istituì la Banca d’Italia.
Nel 1894 lo stato d’assedio, dunque il trasferimento all’esercito del controllo dell’ordine pubblico,
fu proclamato in Sicilia. La repressione militare fu dura e sanguinosa e venne accompagnata da
una repressione poliziesca su tutto il paese. Il governo volle dare alla sua azione repressiva un
carattere organico, facendo approvare dal Parlamento un complesso di leggi imitative della libertà
di stampa e di associazioni. Queste leggi, definite antianarchiche, aveva con scopo principale il
Partito socialista, che fu dichiarato fuori legge. Ma le persecuzioni non furono in grado di
ostacolare il partito. Il colpo definitivo per Crispi venne dal fallimento della sua politica coloniale.
Crispi infatti aveva cercato di stabilire una forma di protettorato sull’Etiopia, che culminarono con
il trattato Uccialli. Questo trattato fu interpretato diversamente dagli etiopi, che reagirono
energicamente agli interventi italiani di penetrazione. Dunque fra Italia ed Etiopia si giunse allo
scontro armato, culminato nel disastro di Adua nel 1896, quando un gruppo di uomini italiani
venne annientato dalle forze etiopiche. La sconfitta ebbe ripercussioni in Italia, tanto che
portarono Crispi a dimettersi nuovamente.
CAPITOLO 7
Di massa e masse nel senso di moltitudine indifferenziata, di aggregato in cui gli individui tendono
a scomparire rispetto al gruppo, si cominciò a parlare con toni allarmati fin dai primi anni dell’800.
I problemi dei rapporti tra massa e individuo e i pericoli che l’ascesa della masse portava all’ordine
sociale tradizionale erano stati al centro della riflessione di molti pensatori ottocenteschi. Sarà solo
alla fine dell’800 che si vennero a definire i contorni di quella che oggi viene detta società di
massa. Nella società di massa la maggioranza dei cittadini vive in grandi e medi agglomerati urbani.
Gli uomini entrano molto più facilmente in contatto l’uno con l’altro, anche grazie a nuovi mezzi di
comunicazione e di svago. Spesso però questi rapporti sono impersonali: infatti il sistema delle
relazioni sociali fa capo alle grandi istituzioni nazionali e agli apparati statali. I comportamenti e le
mentalità tendono a uniformarsi secondo nuovi modelli generali. La società di massa è il risultato
dell’intreccio di una serie di processi economici, di trasformazioni politiche, di mutamenti culturali.
L’avvento della società di massa è un fenomeno che ha segnato il mondo contemporaneo. Nella
classe operaia si accentuava la distinzione tra manodopera generica e i lavoratori qualificati, fra la
base del proletariato e le cosiddette aristocrazie operaie, che partecipavano ai vantaggi dello
sviluppo industriale. L’espansione del settore terziario e la crescita degli apparati burocratici
facevano aumentare la consistenza del ceto medio urbano che si distanziava sempre più dalla
borghesia. A ingrossare le file di questo ceto medio contribuivano sia il settore del lavoro
autonomo, sia quello del lavoro dipendente. In quest’ultimo settore la categoria dei dipendenti
pubblici si allargava con l’aumento dei compiti dello Stato e delle amministrazioni locali. Ancora
più velocemente cresceva la massa degli addetti al settore privato che svolgevano mansioni non
manuali, quelli che venivano definiti colletti bianchi. Già alla vigilia della prima guerra mondiale,
nei paesi più industrializzati i colletti bianchi e gli impiegati costituivano una massa omogena e
numerosa. La distinzione tra piccola borghesia e proletariato era netta. I ceti medi rifiutavano ogni
identificazione con le classi lavoratrici. Agli ideali tipici della tradizione operaia contrapponevano i
valori storici della borghesia, atteggiandosi come difensori di questi valori. La piccola borghesia
impiegatizia era destinata a svolgere un ruolo di primo piano sia in campo economico che in quello
politico.
L’economia dei paesi industrializzati conobbe una fase di espansione intesa e prolungata. Dal 1896
al 1913 abbiamo uno sviluppo generalizzato della produzione che interessò tutti i settori e toccò
anche nuovi paesi come Russia e Italia. L’indice della produzione industriale e quello del
commercio mondiale risultarono raddoppiati. I prezzi crebbero costantemente, anche se
lentamente. Ma crebbe anche il livello dei salari. La crescita dei redditi determinò a sua volta
l’ampliamento del mercato. Le industrie di beni di consumo e di servizi si trovarono per la prima
volta a dover soddisfare una domanda in crescita. Beni la cui produzione era stata fino ad allora
assicurata dal piccolo artigiano, cominciarono a essere prodotti in serie e venduti attraverso una
rete commerciale estesa e ramificata. Le esigenze della produzione in serie per un mercato di
massa spinsero le imprese ad accelerare i processi meccanizzazione e di razionalizzazione
produttiva. Nelle officine Ford di Detroit furono introdotte le prime catene di montaggio,
un’innovazione rivoluzionaria che consentiva di ridurre i tempi di lavoro ma rendeva il lavoro
ripetitivo e spersonalizzato. La catena di montaggio fu il culmine di una serie di tentativi volti a
migliorare la produttività anche attraverso un più razionale controllo e sfruttamento del lavoro
umano. Il tentativo più organico e fortunato fu portato avanti da Taylor. Il suo metodo si basava
sullo studio sistematico del lavoro in fabbrica, sulla rilevazione dei tempi standard necessari per
compiere le singole operazioni e sulla fissazione di regole e ritmi cui gli operai avrebbero dovuto
uniformarsi, eliminando le pause ingiustificate e gli sprechi di tempo. Le tecniche del taylorismo
assicurarono notevoli progressi in termini di produttività, permettendo alle imprese che lo
adottarono di innalzare il livello delle retribuzioni. Tipico fu il caso della Ford che fu la prima a
produrre auto in serie, legando la sua produzione alla nuova filosofia, il fordismo, basata sui
consumi di massa, su prezzi competitivi e sugli alti salari. Questo nuovo modo di lavoro, però,
trovò delle ostilità da parte dei lavoratori in quanto era un lavoro di macchine, che subordinava il
loro.
Nel corso dell’800 prese forma quella politica di educazione ai valori nazionali che viene definita
come nazionalizzazione delle masse. L’estraneità di una larga parte della popolazione ai principi e
agli obiettivi politici delle classi dirigenti al potere andava superata grazie al ruolo svolto dalla
scuola, dall’esercito e dall’allargamento del suffragio. In questo periodo si cercò di dare attuazione
pratica al principio secondo cui l’istruzione costituiva un’opportunità da cui nessuno doveva essere
escluso, reso alla collettività. L’idea di una scuola aperta a tutti e controllata dai poteri pubblici
presentava non pochi motivi di interesse per le classi dirigenti: la scolarizzazione diffusa poteva
rappresentare un mezzo per educare il popolo e per ridurre la criminalità, ma anche un canale
attraverso il quale lo Stato poteva diffondere i suoi valori alle nuove generazioni. Tutti i governi
d’Europa, dunque, si impegnarono per rendere l’istruzione elementare obbligatoria e gratuita. Il
processo di laicizzazione del sistema scolastico ebbe tempi, forme e risultati differenti. L’effetto più
immediato di questo sforzo fu un aumento generalizzato della frequenza scolastica: la scuola era
diventata la regola per i bambini europei sotto i dieci anni. Lo sviluppo dell’istruzione elementare
determinò una rapida diminuzione del tasso di analfabetismo. Strettamente legato al tasso di
alfabetizzazione fu l’incremento nella diffusione della stampa quotidiana e periodica. I quotidiani
divenne più vivaci, aumentarono le notizie di cronaca cittadina e crebbe l’interesse per gli
spettacoli e gli avvenimenti mondani. Questa straordinaria espansione dei quotidiani fu favorita
anche dai progressi tecnologici come la diffusione delle rotative, all’uso sempre più frequente del
telefono. Pertanto l’opinione pubblica iniziava a formarsi: era più facile accedere alle notizie, farsi
una propria idea ed esprimerla pubblicamente. Un contributo notevole allo sviluppo della società
di massa venne anche dalle riforme degli ordinamenti militari che furono realizzate in Europa. Il
principio su cui si fondavano queste riforme era quello del servizio militare obbligatorio per la
popolazione maschile, dunque la trasformazione degli eserciti a lunga ferma, ovvero composti da
professionisti. Due importanti fattori spingevano per la trasformazione degli eserciti: il primo era di
carattere politico-militare, in quanto la disponibilità di grandi masse consentiva agli stati di dotarsi
di eserciti numerosi da poter assolvere quella funzione deterrente che faceva uno strumento
indispensabile anche in tempo di pace; il secondo era dato dal fatto che la tecnologia e l’industria
consentivano la produzione in serie di armi, munizioni ed equipaggiamenti in misura tale da
coprire le esigenze di grandi eserciti. A questo vanno aggiunte le pressioni esercitate sui governi
dai gruppi industriali interessati alle forniture militari. La costrizione obbligatoria si legava
all’inevitabile estensione del suffragio. Il cammino verso la società di massa si accompagnò alla
tendenza costante verso l’allargamento del diritto di voto. Infatti sarà proprio verso la fine dell’800
e gli inizi del 900 che in quasi tutta l’Europa il suffragio sarà esteso a tutti i cittadini uomini: in Italia
ci vorrà il 1912.
L’allargamento del diritto di voto alle grandi masse determinò mutamenti di rilievo nelle forme
organizzative e nei meccanismi della lotta politica. Tutti i gruppi furono costretti a sperimentare
nuove tecniche per conquistare e mantenere il consenso popolare. Si affermò il nuovo modello del
partito di massa: quello realizzato dai socialdemocratici tedeschi, basato sull’inquadramento di
larghi strati della popolazione attraverso una struttura organizzata in organizzazioni locali. Un altro
segno delle nuove dimensioni assunte dalla lotta politica e sociale fu costruito dalla rapida crescita
delle organizzazioni sindacali. Le organizzazioni dei lavoratori crebbero in numero e in consistenza
in tutti i paesi europei. I sindacati si federarono sull’esempio delle Trade Unions britanniche in
grandi organismi nazionali. Il più importante italiano fu la CGL, ovvero la Confederazione generale
del lavoro. Furono anche introdotte alcune forme di legislazione sociale: furono istituiti sistemi di
assicurazione contro gli infortuni e anche alcuni sussidi per i disoccupati. Si stabilirono controlli
sulla sicurezza e l’igiene nelle fabbriche. E furono anche introdotti ei limiti orari per i lavoratori,
oltre che il diritto al riposo settimanale. All’inizio dei governi si affiancò quella delle
amministrazioni locali. Qui il fatto nuovo fu costituito dalla progressiva estensione dei servizi
pubblici a opera degli stessi comuni. L’iniziativa degli organi di governo locale si concretizzò anche
nel campo dell’istruzione e dell’edilizia popolare. La tendenza sostenuta dalla forze politiche più
avanzate fu quella di aumentare il peso delle imposte dirette a vantaggio di quelle indirette,
introducendo il principio della progressività del carico fiscale. Si andava ad affermare che compito
dello Stato fosse anche quello di assicurare una distribuzione equa.
I movimenti socialisti costituivano delle piccole minoranze emarginate e puntavano a un radicale
sconvolgimento rivoluzionario che colpisse alla radice la società capitalistico-borghese. Alla fine
dell’800 la situazione era mutata: nacquero partiti socialisti che cercavano di organizzarsi sul piano
nazionale. Furono proprio i partiti socialisti a realizzare per primi il modello di quel partito di massa
che si sarebbe affermato come la forma di organizzazione politica più diffusa nelle democrazie
europee. Il primo partito fu quello socialdemocratico tedesco, che grazie ai suoi successi, divenne
un modello per gli altri partiti nazionali che nacquero nell’ultimo ventennio del secolo. Diversa la
situazione in Gran Bretagna, dove furono i dirigenti dei sindacati a creare una formazione politica
che aveva l’obiettivo di rappresentare l’intero movimento operaio britannico. Nacque infatti il
Partito laburista che si fondava sull’adesione collettiva delle organizzazioni sindacali ed era privo di
una caratterizzazione ideologica. All’inizio del 900 i partiti operai europei avevano elaborato
programmi simili: tutti si proponevano il superamento del sistema capitalistico e la gestione
sociale dell’economia e tutti si rifacevano a un’organizzazione socialista internazionale. La nascita
della Seconda Internazionale risaliva al 1889, quando i rappresentanti di diversi partiti europei si
riunirono a Parigi e approvarono alcune deliberazioni, fra cui quella che prevedeva la giornata
lavorativa di otto ore. La Seconda Internazionale fu più che altro una federazione di partiti
nazionali autonomi e sovrani. Svolse un’importante funzione di coordinamento e i suoi congressi
costruirono un luogo di incontro e di discussione sui problemi di interessi comuni. La Seconda
Internazionale ebbe nel marxismo la sua dottrina ufficiale. Presero poi corpo due opposti
orientamenti: da un lato la tendenza a prendere atto dei mutamenti intervenuti nella situazione
politica e sociale per valorizzare l’aspetto democratico-riformistico dell’azione socialista; dall’altro
il tentativo di bloccare le tentazioni legalitarie e parlamentaristiche recuperando l’impostazione
rivoluzionaria del marxismo. L’interprete più coerente della prima tendenza fu Bernstein, il quale
partiva dalla constatazione di una serie di fatti che andavano in senso contrario alle previsioni di
Marx. In questa situazione, i partiti operai dovevano accantonare gli aspetti più radicali
dell’ideologia marxista: la società socialista sarebbe nata da una trasformazione graduale
realizzata grazie al lavoro quotidiano delle organizzazioni operaie e del movimento sindacale. Le
sue tesi, che furono definite revisioniste in quanto applicavano una revisione della teoria marxista,
suscitarono un dibattito acceso. Proprio da questi dibattiti, il movimento operaio vie emergere
nuove correnti di estrema sinistra che contestavano la politica centrista dei dirigenti
socialdemocratici tedeschi ed europei, accusati di mascherare una pratica riformista e legalitaria.
Un’ulteriore dissidenza fu quella che si sviluppò nella socialdemocrazia russa e che ebbe come
protagonista Lenin. Questi contestava il modello organizzativo della socialdemocrazia tedesca e gli
contrapponeva un progetto di un partito tutto votato alla lotta, formato da militanti scelti. Questa
concezione contrastava con le tradizioni del movimento operaio occidentale, ma si adattava alla
situazione di un partito come quello russo, costretto alla quasi clandestinità. Le tesi di Lenin, nel
congresso del 1903, ottennero la maggioranza dei consensi. Il partito però si spaccò in due
correnti: da una parte abbiamo i bolscevichi, la maggioranza; dall’altra parte abbiamo i
menscevichi, la minoranza. Un importante dibattito fu suscitato da un’altra dissidenza di sinistra,
che prese il nome di sindacalismo rivoluzionario. Queste idee trovarono il loro interprete più
autorevole in un intellettuale francese, Sorel, che esaltò la funzione liberatoria della violenza
proletaria e insistette sull’importanza dello sciopero generale.
Tra l’800 e il 900 cominciò a emergere la questione femminile. Il problema dell’inferiorità
economica, politica e giuridica delle donne era rimasto estraneo agli orizzonti del pensiero
liberale. Mill era stato uno dei pochi intellettuali che decise di affrontare questo argomento. Per le
donne, il lavoro extradomestico non era un’emancipazione, ma una dura necessità e non
significava la liberazione dai tradizionali obblighi familiari. In tutti i paesi industrializzati la
manodopera femminile fu protagonista di episodi salienti nella lotta sindacale e questa
mobilitazione contribuì a consolidare i legami tra le donne. Il movimento per l’emancipazione
femminile rimase ristretto a minoranze operai e intellettuali, a circoli e leghe prive di seguito
consistente. Solo in Gran Bretagna il movimento riuscì a imporsi all’attenzione dell’opinione
pubblica, concentrando la sua attività per il diritto al suffragio, da qui il nome di suffragette. La loro
lotta trovò qualche appoggio tra i parlamentari laburisti. Molti dirigenti socialisti guardavano con
sospetto al voto delle donne, perché temevano che ciò avrebbe significato un vantaggio per i
partiti di ispirazione cristiana. Diffusa era la tendenza a privilegiare gli aspetti economico-
retributivi del problema del lavoro femminile. Ovunque i movimenti femminili furono lasciati soli a
combattere le loro battaglie, ricevendo al massimo qualche incoraggiamento. Allo scoppio della
prima guerra mondiale, le donne avevano visto cadere qualche preclusione grave, ma restavano
ancora escluse dal diritto di voto e discriminate sul lavoro.
In tutto ciò la Chiesa di Roma e il mondo cattolico reagirono in modo complesso e articolato. La
Chiesa fu l’unica istituzione a poter supplire ai fenomeni di disgregazione sociale e di perdita di
identità indotti all’urbanizzazione con una struttura organizzativa capillare e collaudata. L’impegno
dei cattolici si era già dimostrato con papa Pio IX, ma ebbe un impulso più decisivo con Leone XIII.
Questi si mostrò politico e duttile: favorì il riavvicinamento fra i cattolici e le classi dirigenti di quei
paesi dove maggiore era la tensione tra Stato e Chiesa. Il documento più importante fu l’enciclica
Rerum novarum. L’enciclica ribadiva la condanna del socialismo e riaffermava l’ideale della
concordia fra le classi. La parte più importante dell’enciclica era quella che riguardava il
movimento associativo fra i lavoratori. Veniva incoraggiata la creazione di società operaie e
artigiane ispirate ai principi cristiani. Al tempo stessi in questi anni emergeva una nuova tendenza
politica che fu definita democrazia cristiana e che mirava a conciliare la dottrina cattolica anche
con la prassi e gli istituti della democrazia. La nascita dei movimento democratico-cristiani coincise
col sorgere di una corrente di riforma religiosa che prese il nome di modernismo. Anche il
modernismo aspirava sul piano dottrinario a uno scopo simile a quello perseguitato sul piano
politico della democrazia cristiana. In seguito il nuovo papa Pio X proibì ai democratici cristiani
ogni azione politica indipendente dalle gerarchie ecclesiastiche e scomunicò i modernisti.
Fra il 1815 e il 1870 il nazionalismo era stato il principio ispiratore di movimenti di liberazione che
combattevano contro l’ordine costituito. Le cose cambiarono dopo l’unificazione tedesca e con
l’imperialismo coloniale. La crescita dei movimenti socialisti suscitò per reazione un ritorno di
sentimenti patriottici e guerrieri. Il nazionalismo, dunque, tendeva a spostarsi a destra,
sganciandosi dalle sue matrici illuministiche e democratiche per riscoprire quelle tradizionaliste:
quelle che pretendevano di stabilire una gerarchia tra razze superiori e razze inferiori. Queste
teorie si fondavano su argomentazioni pseudoscientifiche di origine positivistica, ma in realtà si
rifacevano solo ad antichi pregiudizi. In Francia il nazionalismo coniugava lo spirito di rivincita nei
confronti della Germania con la polemica contro una classe dirigente repubblicano-moderata
considerata corrotta e incapace di tutelare le tradizioni del paese. Una forte componente
antiebraica fu presente anche nei movimenti nazionalisti della Germania, nei quali l’antisemitismo
si appoggiava su presupposti razzisti. Anche il nazionalismo tedesco aveva lo sguardo rivolto al
passato e cercava le sue basi nel mito del popolo, concepito come comunità di sangue. Questo
mito fornì la base alle ideologie e ai movimenti pangermanisti, che auspicavano dunque il
ricongiungimento in un unico Stato di tutte le popolazioni tedesche. Un movimento contrapposto
al pangermanismo fu il panslavismo, nato in Russia e diffusosi in Europa orientale. Il panslavismo si
basava su ideologie tradizionaliste e intrise di antisemitismo. Nell’Europa orientale l’antisemitismo
aveva profonde radici popolari. Nell’Impero russo era sancito a leggi discriminatorie e tollerato,
quando non incoraggiato, dalle autorità. Fu la polizia segreta zarista a confezionare i Protocolli dei
Savi anziani di Sion, dei protocolli falsi ma che servirono per perseguitare e uccidere ebrei. Una
reazione all’antisemitismo fu la nascita del sionismo, dunque quel movimento che si proponeva di
restituire un’identità nazionale alle popolazioni israelite sparse per il mondo e di promuovere la
costituzione di uno Stato ebraico in Palestina. Il sionismo, però, stentava ad affermarsi, ma poi
grazie all’attività di alcuni sostenitori, il movimento riuscì a imporsi all’attenzione delle comunità
ebraiche.
Il Positivismo restò per alcuni un metodo di ricerca della realtà, ma si incrinò la fiducia nella sua
capacità di offrire un’organica visione del mondo. L’oggetto principale dell’indagine condotta da
queste nuove correnti diventava la realtà psicologica, una realtà oggettiva e dunque conoscibile.
Primo interprete della critica al positivismo fu Nietzsche. All’opposizione lineare del tempo,
oppose quella ciclica dell’eterno ritorno mettendo in discussione il concetto di tempo come lo
concepiva la civiltà occidentale. In Germania la reazione al positivismo si espresse in una ripresa
della filosofia kantiana e idealistica. Anche in Italia vi fu una rinascita dell’idealismo che ebbe come
esponenti Benedetto Croce e Giovanni Gentile. In Francia la reazione al positivismo trovò la su
espressione in Bergson, che concepiva la realtà come creazione continua, mossa da uno slancio
vitale. Nei paesi anglosassoni la corrente di pensiero dominante fu quella conosciuta con il nome
di pragmatismo, che considerava determinante il rapporto di reciproca verifica tra teoria e pratica
e fra individuo e natura. Anche gli sviluppi del pensiero scientifico contribuirono a mettere in crisi il
positivismo, tra queste le teorie di Einstein. Altro elemento importante è la psicoanalisi di Freud.
La sua necessità è quella di portare una tecnica terapeutica che riporti alla luce i processi inconsci
attraverso l’analisi dell’attività onirica. Le sue teorie avrebbero poi cambiato il concetto di mente
per tutto il 900. Altro tratto distintivo della cultura europea fu la riflessione sulla relatività e sulla
soggettività della conoscenza. Un problema che interessò i filosofi e i cultori delle scienze umane e
che trovò le sue formulazioni anche con lo studioso Weber. Questi approfondì i problemi relativi al
metodo delle scienze sociali, che potevano dare risultati scientifici validi purché adottassero
procedimenti logici. I nuovi orientamenti della filosofia e della scienza umana influenzarono il
pensiero politico, dove dominante fu la tendenza a penetrare oltre la facciata delle formule
ideologiche. In genere però c’era un pessimismo sugli ordinamenti democratici, dovuto forse agli
autori del periodo.

CAPITOLO 8
Negli anni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale l’Europa visse una fase di forti
contraddizioni. Furono anni di intenso sviluppo economico e di continua crescita del commercio
mondiale, ma anche di inasprimento delle tensioni internazionali e della conflittualità sociale
all’interno dei singoli Stati. Le spinte alla democratizzazione incontrarono ovunque la resistenza
ostinata dei gruppi conservatori e in alcuni casi furono fortemente represse. Questa compresenza
di spinte diverse e fra loro contraddittorie ha fatto sì che della realtà europea di quest’epoca si
costruissero due rappresentazioni diverse: da un lato quella idilliaca e nostalgica di un’età del
progresso e di spensieratezza, ovvero la Belle époque; dall’altro quella di una stagione dominata
dal militarismo, dall’imperialismo e dalla più spietata logica di potenza. Lo sviluppo del capitalismo
finanziario era considerato da molti una garanzia di pace, visti i legami sempre più stretti che
univano il mondo industriale e bancario al di là delle frontiere nazionali. La guerra fu un prodotto
della combinazione di eventi casuali e di cause profonde. Queste ultime vanno ricercate negli
storici contrasti fra le grandi potenze europee e nel nuovo sistema di alleanze. Dopo l’uscita di
scena di Bismarck, i rapporti fra le grandi potenze europee e mondiali subirono grandi mutamenti.
Si ruppero gli equilibri internazionali e si formò un nuovo assetto bipolare fondato sulla
contrapposizione fra due blocchi di potenze europee: la Germania, l’Impero austro-ungarico con
l’Italia da una parte, la Francia, la Russia e la Gran Bretagna dall’altra. A mettere in crisi il vecchio
sistema di alleanze furono due fattori: la scelta dell’imperatore tedesco Guglielmo II in favore di
una politica più dinamica e aggressiva, e la crescente difficoltà per la Germania di tenere uniti i
suoi due maggiori alleati, in perenne contrasto per il settore balcanico. I successori di Bismarck
decisero di privilegiare l’alleanza con l’Austria. Dall’altra parte la Francia e la Russia si allearono nel
1894 con un’alleanza militare. La Francia si impegnò in una serie di ingenti prestiti alla Russia. In
seguito la decisione dell’impero tedesco di dare a via alla costruzione di una potente flotta da
guerra capace di contrastare la superiorità britannica provocava un inasprimento dei rapporti fra
Germania e Gran Bretagna. L’effetto dunque fu quello di indurre i britannici a impegnarsi in una
vera e propria corsa agli armamenti navali. Intanto aveva inizio fra Gran Bretagna e Francia quel
processo di graduale riavvicinamento che portò le due potenze a regolare gli interessi coloniali in
Africa e stipulare nel 1904 un accordo che prese il nome di Intesa cordiale. Proprio in questi anni si
delinea anche il rapporto della Triplice Intesa, meno omogeneo, ma molto più forte. In Germania
questa situazione determinò una sorta di complesso di arricchimento. Questa fu la causa di una
maggiore aggressività in politica estera, di una pericolosa inclinazione verso una guerra preventiva.
Alle paure di un conflitto generalizzato fra le potenze europee si aggiungevano ansie dovute a
sfide esterne. Una preoccupazione fu proprio l’Estremo Oriente e in particolare il Giappone e la
Cina. Si trattava di paure anche sulle tendenze dello sviluppo demografico. La popolazione
europea continuava a crescere, ma era inferiore rispetto a quella del continente asiatico. Fu allora
che, soprattutto Guglielmo II, si iniziava a parlare di pericolo giallo.
I due blocchi di potenze che si erano venuti a formare si fronteggiavano in un conteso inquieto. In
queste condizioni accadeva di frequente che le tensioni vecchie e nuove si traducessero in crisi
acute. Due furono in questo periodo i più pericolosi punti di frizione. Il primo riguardava l’assetto
dei Balcani. Il secondo era costituito dal Marocco, uno degli ultimi Stati africani indipendenti
oggetto delle mire francesi e proprio per questo scelto della Germania come ultimo terreno di
scontro per contrastare lo strapotere delle rivali in campo coloniale. Per due volte il contrasto
franco-tedesco sul Marocco sembrò portare a guerre, ma grazie all’intervento degli alleati, la
Francia ebbe la meglio. I pericoli maggiori per la pace sul continente vennero dalla zona balcanica.
A mettere in movimento una situazione precaria fu una profonda trasformazione interna, la
cosiddetta rivoluzione dei Giovani turchi, un movimento composto in prevalenza da intellettuali e
da ufficiali che si proponevano la trasformazione dell’Impero in una monarchia costituzionale. Un
gruppo di ufficiali costrinse il sultano a concedere una costituzione e ad abdicare. Il nuovo regime
tentò di realizzare un’opera di modernizzazione dello Stato. I Giovani turchi cercarono di attuare
un ordinamento amministrativo centralizzato rispetto a quello del vecchio regime, ma in realtà
accentuarono le spinte indipendentistiche. Della crisi interna che stava vivendo l’impero ottomano
ne approfittò l’Austria-Ungheria per procedere all’annessione della Bosnia ed Erzegovina: questo
provocò le preoccupazioni della Serbia e della Russia. Appoggiata dalla Germania, l’Austria riuscì a
ottenere i due territori, causando l’indebolimento della Triplice Alleanza in quanto l’Italia non era
favorevole a questa iniziativa. In seguito l’occupazione italiana della Libia provocò una guerra tra
Italia e Turchia. La sconfitta turca favorì le mire degli Stati balcanici, in quanto Grecia, Serbia e
Bulgaria si coalizzarono e attaccarono l’impero ottomano, sconfiggendolo (prima guerra
balcanica). Al momento della spartizione, l’alleanza fra gli Stati balcanici si ruppe. La Bulgaria
attaccò la Grecia e la Serbia. Contro l’aggressione bulgara si formò una nuova coalizione. Alla
Serbia e alla Grecia si unirono la Romania e la Turchia (seconda guerra balcanica). La Bulgaria,
sconfitta, dovette restituire parte della Tracia alla Turchia. Si trattò di guerre sanguinose che
colpirono le popolazioni civili. Il bilancio finale delle due guerre balcaniche risultava sfavorevole
per gli Imperi centrali. Il loro maggiore alleato, l’Impero turco, era stato estromesso dall’Europa. La
Serbia aveva raddoppiato il proprio territorio. In queste condizioni si faceva sempre più forte nei
circoli dirigenti austriaci la tentazioni di liquidare la Serbia.
Le maggiori potenze europee si differenziavano e si contrapponevano sul piano degli ordinamenti
interni. La Francia aveva compiuto progressi sostanziali sulla strada della democrazia. Le istituzioni
repubblicane continuavano a essere oggetto di una contestazione, che prendeva le forme di
nazionalismo, poi delle reazioni clericali e poi dell’antisemitismo. L’offensiva nazionalista partì da
un clamoroso caso giudiziario, quello di Dreyfus. La sentenza era basata su indizi falsi e
inconsistenti. Quando lo scrittore Zola pubblicò un atto di accusa contro i tentativi messi in atto
per nascondere la verità, fu processato e condannato per offese all’esercito. Ci furono due pensieri
contrapposti: socialisti, radicali e repubblicani moderati, insieme ad un gruppo di intellettuali, che
si batterono affinché venisse riconosciuta l’innocenza dell’ufficiale condannato; clericali, monarchi,
nazionalisti di destra e moderati che invece insistevano sulla tesi di consapevolezza. Alla fine
Dreyfus fu graziato dal Presidente della Repubblica nel 1906. I suoi sostenitori ebbero partita vinta
anche sul terreno politico. L’esito delle elezioni fu favorevole ai radicali e alle forze progressiste. Fu
avviata un’epurazione negli alti gradi dell’esercito e riprese con rinnovato vigore la battaglia contro
le posizioni di potere detenute dal clero cattolico. La battaglia anticlericale suscitò nel paese nuove
profonde divisioni, ma si concluse con un sostanziale successo e con un rafforzamento dei gruppi
radicali. In Francia i governi radicali che si succedettero tra il 1906 e il 1911 condussero alcune
riforme sociali, come la limitazione dell’orario di lavoro, la legge sul riposo settimanale e le
pensioni di vecchiaia. Lo spostamento a sinistra del movimento sindacale provocò la rottura
dell’alleanza fra socialisti e radicali e ridiede spazio alle correnti repubblicano-moderate che
riuscirono a tornare al potere 1912-1914 con Poincaré. Il dibattito politico si sarebbe concentrato
sul problema delle spese militari e del rafforzamento dell’esercito. La Gran Bretagna fu governata
dalla coalizione fra conservatori e gli unionisti. In questi anni i governi si impegnarono nel fronte
delle imprese coloniali, ma cercarono anche di contemperare le spinte imperialiste con una certa
dose di riformismo sociale. Nelle elezioni del 1906 i liberali conquistarono la maggioranza, mentre
per la prima volta i deputati laburisti fecero il loro ingresso in Camera. I liberali adottarono una
linea meno aggressiva in campo coloniale, ma l’aspetto più importante era la proposta di
introdurre una politica fiscale progressiva, che imponeva dunque una tassazione più onerosa.
Questo si scontrò con la Camera dei Lord. Quando i Lord violarono la prassi respingendo il bilancio
preventivo presentato dal governo, ne nacque un conflitto costituzionale che vide contrapposte le
due Camere, l’una maggioranza liberale, l’altra dominata dai conservatori. Alla fine i Lord si
piegarono ad accettare una riforma che impediva loro di respingere le leggi di bilancio. Il governo,
intano, decise di affrontare la questione irlandese e presentò un nuovo progetto di autogoverno,
che prevedeva un’Irlanda autonoma ma sempre legata alla Corona britannica. La soluzione
proposta scontentava sia i nazionalisti irlandesi, che i protestanti dell’Irlanda del Nord. Il progetto
fu approvato nel 1914 ma la sua applicazione fu sospesa a causa della prima guerra mondiale.
La fine del lungo cancellierato di Bismarck parve segnare una svolta nella politica tedesca.
L’Imperatore Guglielmo II aveva annunciato un nuovo corso nella vita del paese e aveva criticato le
leggi contro i socialisti. L’imperato mostrò una chiara inclinazione alle soluzioni autoritarie e
all’esercizio personale del potere. L’unico mutamento di rilievo fu costituito dal fatto che nessuno
dei cancellieri succedutisi ebbe le capacità che avevano permesso a Bismarck di imporsi allo stesso
potere imperiale. La Germania comunque inizia ad attuare la Weltpolitik (politica mondiale) e
diede il via al riarmo navale che doveva consentirle di reggere il confronto con la Gran Bretagna. La
Germania però non aveva una disponibilità di materie prime paragonabili a quella dell’Impero
britannico, degli Stati Uniti o dell’Impero russo. La spinta nazionalista e aggressiva insita nella
politica estera tedesca finì col coinvolgere tutte le maggiori forze politiche. L’unica autentica forza
di opposizione, la socialdemocrazia, restò per l’età guglielmina in una condizione di isolamento
che le precludeva l’influenza sulla condotta degli affari di Stato. Ma con il passare del tempo la
socialdemocrazia ammorbidì i toni e le forme della sua opposizione e venne a patti con le ideologie
nazional-imperialistiche cui la classe operaia era del tutto insensibile. L’Impero asburgico vide
aggravarsi il declino delineatosi a partire dal 1848 e dovuto ai contrasti tra le diverse nazionalità.
L’Impero era più povero della Germania e della Francia e poco più ricco dell’Italia. Allo sviluppo
economico e civile dei grandi centri, alla crescita dei grandi partiti di massa facevano riscontro il
sostanziale immobilismo del sistema politico e la persistenza delle strutture sociali tradizionali
nelle province contadine. Il principale motivo di crisi era costituito dai conflitti nazionali. In Austria-
Ungheria le tensioni fra i diversi gruppi nazionali costituivano un fattore di logoramento e di
disgregazione per una compagine statale che aveva come principali elementi unificanti la Corona,
l’esercito e la burocrazia. Il potere imperiale riuscì a controllare la situazione appoggiandosi agli
elementi conservatori e all’aristocrazia agraria delle varie nazionalità, con qualche concessione alle
masse contadine. Si affermò anche il movimento dei Giovani cechi che si batteva contro la politica
di germanizzazione del governo di Vienna. Anche fra gli ungheresi sorse un movimento che
rivendicava totale autonomia dell’Austria anche in materia di tariffe doganali e di organizzazione
dell’esercito. Una parte della classe dirigente e dei circoli di corte si orientò verso l’idea di
trasformare la monarchia da dualistica a trialistica: dunque gli slavi del Sud dall’Ungheria e di
creare un terzo polo nazionale accanto a quelli tedesco e magiaro. Questo processo si scontrava
con l’opposizione degli ungheresi e con quella dei nazionalisti serbi e croati, che miravano con tutti
i mezzi alla fondazione di un unico Stato slavo indipendente ed erano appoggiati dalla Serbia.
La Russia era l’unica potenza europea che si reggeva su un sistema autocratico. Questo non impedì
all’impero zarista di avviare il suo primo tentativo di decollo industriale. Il processo di
industrializzazione ebbe un impulso decisivo grazie al primo ministro. Le politiche economiche
messe in atto, da una parte mirarono ad aumentare il sostegno dello Stato alla produzione
nazionale, inasprendo il protezionismo; dall’altra incoraggiarono l’afflusso di capitali stranieri.
Dunque l’industrializzazione risultò come calata dall’alto e concentrata sia per la dislocazione
geografica sia per le dimensioni delle imprese. La classe operaia russa si concentrò in poche aree e
rimase isolata in un contesto sociale dominato dall’agricoltura. Il decollo industriale non mutò
dunque la situazione russa. In queste condizioni era naturale che la tensione politica crescesse e
che le manifestazioni di malcontento si moltiplicassero in tutti i settori della società. Fra i
contadini, infatti, riscuoteva qualche successo la propaganda del partito socialista rivoluzionario
che riprendeva il progetto di un socialismo agrario legato alle tradizioni russe. La protesta politica
e sociale finì col coagularsi in un moto rivoluzionario. A far precipitare gli eventi contribuì lo
scoppio della guerra col Giappone, che fece salire le tensioni sociali nelle città provocando un
aumento dei prezzi. Nel 1905 un corteo di migliaia di persone si diresse verso il Palazzo d’Inverno
per presentare al sovrano una petizione in cui si chiedevano maggiori libertà politiche e interventi
per alleviare il disagio delle classi popolari. I manifestanti furono accolti a fucilate dall’esercito. La
Russia visse in uno stato di semianarchia. Di fronte alla crisi dei poteri costruiti sorsero in molti
centri nuovi organismi rivoluzionari, i soviet, rappresentanze popolari elette sui luoghi di lavoro e
costruite da membri revocabili. La Corona e il Governo passarono alla controffensiva facendo
arrestare quasi tutti i membri soviet di Pietroburgo e schiacciando con durezza le rivolte scoppiate
nella capitale e a Mosca. Una volta ristabilito l’ordine restava l’impegno dello zar di convocare
un’assemblea rappresentativa, detta la Duma. Eletta nel 1906 a suffragio universale, la prima
Duma fu sciolta dopo poche settimane, ma lo stesso destinò aspettò anche alla seconda che fu
stabilita. Il governo, dunque, modificò la legge elettorale in senso classista e poté disporre di
un’assemblea più docile, composta da aristocratici. Artefice della restaurazione fu Stolypin, primo
ministro, che si pose il problema di riguadagnare al regime una base di consenso avviando una
riforma agraria in base alla quale i contadini ebbero la facoltà di divenire proprietari della terra che
coltivavano e di godere di facilitazioni creditizie. Lo scopo era quello di creare una piccola
borghesia rurale che fosse al tempo stesso fattore di modernizzazione economica e di stabilità
politica, ma il progetto riuscì solo in parte: dei nuovi piccoli proprietari creati dalla riforma, una
parte andò a rafforzare i kulaki; ma i più non trovarono nei loro piccoli appezzamenti la possibilità
di condizioni di vita accettabili. La Russia intanto aveva subito una severa sconfitta militare ad
opera del Giappone che si era affacciato sulla scena della competizione imperialistica in Asia:
aveva mosso guerra all’Impero cinese e lo aveva sconfitto dando una prima prova della sua
efficienza bellica. Il Giappone entrò in contrasto con la Russia per il controllo delle regioni del
Nord-Est asiatico. La flotta nipponica attaccò quella russa nel Mar Giallo e strinse d’assedio la base
di Port Arthur. L’assedio durò quasi un anno e, caduta Port Arthur, le forze giapponesi
penetrarono in Manciuria, sconfiggendo l’esercito russo, sia tramite mare che tramite terra.
Questa fu la prima vittoria, in età moderna, di un popolo orientale su uno occidentale, mostrando
la superiorità dell’esercito del popolo giallo su quello bianco.
Subito dopo presero vigore lotte nazionali e anticoloniali dei popoli asiatici. Fu la Cina a subire
l’influsso del Giappone. Da decenni l’Impero cinese era oggetto della pressione commerciale e
militare delle potenze europee, che miravano a spartirne il territorio in zone di influenza. La crisi
provò la nascita di un movimento conservatore e xenofobo, che trovò il suo braccio armato in una
società segreta e paramilitare, i cui aderenti erano chiamati in Occidente boxer. Le grandi potenze
si accordarono, però, per un intervento militare congiunto. In due settimane la rivolta fu sedata e
Pechino fu occupata dalle truppe alleate. La rivolta non rimase senza effetto: da un lato mostrò la
persistenza di un nazionalismo cinese che rendeva impraticabile una spartizione politica
dell’Impero; dall’altro la sconfitta del nazionalismo tradizionalista e il crescente discredito della
dinastia Qing Manciù preparano il terreno allo sviluppo di un movimento democratico e
occidentalizzante. Nacque nel 1905 il Tung meng hui, un’organizzazione segreta. Il programma si
basava su tre principi: l’indipendenza nazionale, la democrazia rappresentativa e il benessere del
popolo. Il governo, nel 1911, decisero di affidare a imprese straniere il controllo della rete
ferroviaria cinese provocando una serie di sommosse nelle province centro-meridionali. Il
compromesso raggiunto tra le forze democratiche organizzate nel nuovo Partito nazionale e i
gruppi conservatori si ruppe in pochi mesi. Nel 1913 il nuovo presidente sciolse il Parlamento
appena eletto, istaurando una dittatura personale appoggiata dalle potenze straniere. Cominciava
per la Cina una stagione di guerre civili, che termineranno solo nel 1949.
In tutto ciò, sull’altra sponda del Pacifico, si stava rafforzando il ruolo egemonico degli Stati Uniti.
La crescita più imponente si verificò nell’industria dove dominavano le grandi concentrazioni
industriali e finanziarie. Gli USA avevano raggiunto il primato mondiale nella produzione
industriale. Progressi decisivi furono compiuti nel settore dell’agricoltura e in quello
dell’allevamento. La presenza degli Stati Uniti si fece sentire quando alla presidenza c’era
Roosevelt, che mostrò grande decisione nella difesa degli interessi americani nel mondo,
alternando la pressione economica alle minacce di interventi armati. Un esempio della sua politica
è quello del Canale di Panama. Gli Stati Uniti avevano ottenuto dal governo della Colombia
l’autorizzazione a costruire e a gestire per un periodo il Canale di Panama. Quando il senato
colombiano decise di rifiutare la ratifica degli accordi, gli USA organizzarono una sommossa a
Panama e minacciarono un intervento armato. Panama divenne repubblica indipendente sotto la
tutela americana. La linea di Roosevelt si caratterizzò in politica interna per un’apertura ai
problemi sociali sconosciuta alle precedenti amministrazioni. Si dovettero a Roosevelt i primi
provvedimenti del governo federale nel campo della legislazione sociale e le prime energiche
affermazioni del diritto di intervento dei pubblici poteri nel mondo dell’economia. Dopo
l’abbandono della presidenza, il Partito repubblicano si spaccò in un’ala progressista e una
conservatrice. Nelle elezioni del 1912 si favorì il democratico Wilson. Questi impostò la lotta
contro i grandi monopoli sull’abbassamento delle tariffe protettive. Portò inoltre uno stile nuovo,
più prudente e rispettoso delle norme della convivenza interazionale. Sarà proprio questa sua
politica che porterà poi gli USA a intervenire nello scontro mondiale.
I Paesi dell’America Latina conobbero uno sviluppo economico importante, questo sviluppo attirò
un consistente flusso migratorio dall’Europa e favorì la crescita di grandi centri urbani. L’aumento
delle esportazioni finì con l’accentuare il carattere di subalternità dell’economia latino-americana.
Fu favorita la tendenza delle agricolture dei singoli paesi a concentrarsi sulle monoculture. Inoltre
l’America Latina era retta da un regime parlamentare e repubblicano: l’ultima monarchia fu
rovesciata da un colpo di stato del 1889. La facciata istituzionale liberal-parlamentare copriva una
corruzione delle masse dalla vita politica. Due luoghi importanti di rivolgimenti politici erano
l’Argentina e il Messico. Nel caso dell’Argentina abbiamo un rivolgimento pacifico, originato
dall’introduzione del suffragio universale e dall’ascesa al potere dell’Unione radicale. In Messico la
spinta alla democratizzazione politica e sociale sfociò in una lotta rivoluzionaria fra le più lunghe e
sanguinose. La rivolta scoppiò nel 1910 contro il regime del presidente Diaz. Promotori
dell’insurrezione furono i gruppi guidati da Madero, affiancati da un vasto moto contadino. Nel
1911 Diaz fu costretto ad abbandonare il paese mentre Madero venne eletto presidente. Cominciò
dunque a manifestarsi il contrasto tra le due componenti del fronte rivoluzionario: quella borghese
e moderata, che mirava alla liberazione delle istituzioni politiche; quella contadina, che mirava a
una radicale riforma agraria. Nel 1913 il presidente Madero fu ucciso durante un colpo di Stato
militare che portò al potere il generale Huerta. La guerra civile riprese con violenza e si protrasse
fino al 1920, per concludersi con l’assunzione della presidenza da parte di Obregon e con il varo di
una Costituzione democratica e laica aperta alle istanze di riforma sociale.

CAPITOLO 9
L’Italia fu teatro di una crisi polito-istituzionale. In Italia lo scontro si concluse con un’affermazione
sufficiente a far evolvere la vita del paese, che conosceva una fase di intenso sviluppo industriale,
secondo modelli vicini a quelli delle liberal-democrazie occidentali. Negli anni che seguirono le
dimissioni di Crispi si delineò fra le forze conservatrici la tendenza a ricomporre un fronte comune
contro le minacce portate all’ordine costituito dai nemici delle istituzioni, socialisti, repubblicani o
clericali. In questi anni si faceva avanti una proposta di Sonnino, che chiedeva di lasciare alle
Camere i soli compiti legislativi. La tensione esplose nel 1898 quando un improvviso aumento
prezzo del pane fece scoppiare una serie di agitazioni. Si trattava di manifestazioni in larga parte
spontanee che richiamavano forme della protesta tipica delle società preindustriali. La risposta del
governo fu durissima: prima massicci interventi delle forze di polizia, proclamando lo stadio
d’assedio, poi il passaggio dei poteri alle autorità militari. La repressione raggiunse il culmine a
Milano quando le truppe fecero uso dell’artiglieria contro la folla inerme provocando morti e feriti.
Una volta riportato l’ordine, i gruppi moderati e conservatori cercarono di dare una base
legislativa all’azione repressiva dei poteri pubblici. L scontro arrivò anche nelle aule parlamentari.
Prese potere al governo Pelloux, che presentò dei provvedimenti che limitarono il diritto di
sciopero e le stesse libertà di stampa e di associazione. I gruppi di sinistra risposero mettendo in
atto la tecnica dell’ostruzionismo, consistente nel prolungamento all’infinito le discussioni e
paralizzare l’azione della maggioranza. La maggioranza cercò di tagliare i tempi delle discussioni
modificando i regolamentari parlamentari, ma si scontrò con l’ostruzionismo della sinistra. Pelloux
si dimise dopo il risultato sfavorevole delle elezioni del 1900, in cui le opposizioni guadagnarono
numerosi seggi. Il re Umberto I mostrava di prendere atto del fallimento di quella politica
repressiva che lo aveva visto fra i più attivi sostenitori. Dopo solo un mese, Umberto I cadeva
vittima di un attentato per mano di un anarchico.
Il governo Saracco si aprì ad una fase di distensione favorita anche dall’atteggiamento del nuovo re
Vittorio Emanuele III. Quando il governo fu costretto alle dimissioni, il re chiamò alla guida del
governo il leader della sinistra liberale Zanardelli, che affidò il Ministero dell’Interno a Giolitti. Il
Ministero Zanardelli-Giolitti condusse alcune importanti riforme. Furono estese le norme che
limitavano il lavoro minorile e femminile nell’industria. Venne migliorata la legislazione sulle
assicurazioni. Ma la più importante fu il nuovo atteggiamento del governo in materia di conflitti di
lavoro. Giolitti mantenne una linea di neutralità nelle vertenze. Le conseguenze del nuovo corso
furono evidenti. Si svilupparono anche le Camere del lavoro, gli organismi locali di coordinamento
e di difesa degli interessi dei lavoratori. Si riunirono anche i contadini in alcune associazioni con gli
obiettivi di aumentare i salari e la riduzione delle ore di lavoro. Lo sviluppo delle organizzazioni
sindacali fu accompagnato da una brusca impennata degli scioperi. Questo portò al rialzo dei
salari, con l’aumento anche delle paghe giornaliere dei salari agricoli.
L’Italia conobbe il suo primo decollo industriale. Questo era dovuto grazie, ad esempio, alla
costruzione di una rete ferroviaria, che aveva favorito il commercio. La scelta protezionistica aveva
portato alla creazione di una moderna industria siderurgica. Furono questi settori che fecero
registrare maggiori progressi. Una novità riguardava il settore automobilistico che si affermò in
questi anni, con la creazione di diverse aziende: la più importante era la Fiat di Torino. L’economia
italiana realizzò notevoli progressi. Il prodotto pro capite aumentò. Il decollo industriale di inizio
900 fece sentire i suoi effetti anche sul tenore di vita degli italiani. L’aumento generalizzato dalle
retribuzioni consentì a vasti strati della popolazione di destinare una quota dei bilanci familiari alla
casa, ai trasporti e ai beni di consumo durevoli. Dunque era la condizione di vita degli italiani che
mutava. Le condizioni abitative dei lavoratori urbani restavano ancora precarie. La case operaie
erano malsane e sovraffollate. Gli appartamenti dotati di servizi igienici autonomi restavano
un’accezione nelle grandi città e un’autentica rarità nei centri rurali. La diffusione dell’acqua
corrente nelle case e il miglioramento delle reti fognarie contribuirono a ridurre la diffusione di
malattie. Questi progressi non furono sufficienti a colmare il divario tra l’Italia e gli altri Stati più
ricchi e industrializzati. L’analfabetismo ad esempio aveva ancora un tasso elevato, la popolazione
attiva nelle campagne era ancora molto elevata. Si contarono oltre 8 milioni di emigrati in questi
anni, soprattutto dal Mezzogiorno. Il fenomeno migratorio ebbe alcuni effetti positivi anche perché
le rimesse degli emigrati alleviarono il disagio delle zone più depresse. Un’emigrazione così
massiccia, però, rappresentò un impoverimento per la comunità nazionale. Dunque i progressi
economici non si distribuirono in maniera uniforme nel nostro Paese. Il divario tra Nord e Sud si
accentuò. I discreti progressi che l’agricoltura italiana realizzò finirono con concentrarsi al Nord. Da
questa situazione derivarono i mali della società meridionale: analfabetismo diffuso, disgregazione
sociale, assenza di una classe dirigente moderna. In questo periodo, però, la pubblica
amministrazione italiana inizia a meridionalizzarsi. Infatti da questo divario prese avvio un
movimento di opinione che fu definito meridionalismo. I meridionalisti erano diversi tra loro per
orientamento politico: c’erano conservatori come Sonnino, socialisti come Salvemini e radicali
come Nitti. Tutti, però, individuavano nella questione meridionale il principale ostacolo da
superare affinché l’Italia potesse procedere sulla via dello sviluppo economico e civile.
Dopo le dimissioni di Zanardelli, ritorna al governo Giolitti. Furono condotte le prime importanti
leggi speciali per il Mezzogiorno: quella per la Basilicata e quella per Napoli, volte a incoraggiare la
modernizzazione dell’agricoltura e lo sviluppo industriale tramite una serie di stanziamenti statali
e di agevolazioni fiscali. Altro importante progetto portato avanti da Giolitti fu quello relativo alla
statizzazione delle ferrovie: il progetto incontrò diffuse opposizioni sia a destra che a sinistra.
Giolitti pertanto si dimise con un pretesto lasciando la guida del governo a Fortis, che però resterà
al governo per meno di un anno. Subentra Sonnino, che governerà per soli tre mesi in quanto non
aveva un forte seguito parlamentare. Dunque nel 1906 torna Giolitti al governo per tre anni e
mezzo. Realizza la conversione della rendita, ovvero la riduzione del tasso di interesse versato
dallo Stato ai possessori di titoli del debito pubblico. Il successo dell’operazione si manifestò nel
fatto che solo pochi possessori di titoli si valsero della facoltà di esigere il rimborso delle somme
prestate. Giolitti poi attua una nuova ritirata strategica, facendo tornare al governo Sonnino,
anche in questo caso per pochissimo, e subito dopo Luttazzi, che avviò un’importante riforma
scolastica, che avocava allo stato l’onere dell’istruzione elementare. Nel 1911 torna Giolitti al
governo con un programma orientato a sinistra, il cui punto cardine era la proposta di estendere il
diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto trent’anni e tutti i maggiorenni che
sapessero leggere e scrivere o avessero prestato servizio militare. Fu anche istituito l’Ina, il
monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, che servivano per finanziare le pensioni.
Quella esercitata da Giolitti era una dittatura parlamentare molto simile a quella realizzata da
Depretis anche se diversa e più aperta. Tratti caratteristici dell’azione di Giolitti furono: il sostegno
alle forze più moderne della società italiana, il tentativo di condurre nell’orbita del sistema liberale
gruppi considerati nemici delle istituzioni. Il controllo delle Camere costituì l’elemento
fondamentale del suo governo. Grazie ad esso Giolitti poté governare a lungo. Questo controllo
era ottenuto a prezzo della perpetuazione dei vecchi sistemi trasformistici e di un intervento
costante del governo nelle lotte elettorali. Tutto ciò finiva col limitare gli aspetti nuovi e progressivi
dell’esperienza giolittiana e col contraddire le premesse. Su questi aspetti si appuntarono le
critiche di numerosi avversari di Giolitti. Infatti Giolitti era accusato di fare opera di corruzione
all’interno dei movimenti, dividendoli e cooptandone le componenti moderate entro il suo sistema
di potere. Venne anche accusato di venire a patti con i nemici delle istituzioni, mettendo in
pericolo l’autorità dello Stato. Salvemini addirittura lo accusò di essere “ministro della mala vita”.
Per loro la denuncia del malcostume politico imperante nelle regioni del Sud si legava alla critica
della politica economica protezionistica attuata dal governo, che ostacolava lo sviluppo delle forze
produttive nel Mezzogiorno. Giolitti dovette fare i conti con una crescente impopolarità, che
coincise con le vicende legate alla Libia. La decisione di impegnarsi nell’impresa coloniale è stata
interpretata come una concessione fatta ai gruppi conservatori per bilanciare gli effetti sul
suffragio universale e del monopolio delle assicurazioni.
La politica estera italiana subì una correzione di rotta. Il miglioramento dei rapporti con la Francia
portò alla firma di un nuovo trattato di commercio che poneva fine alla guerra doganale. Fu
stabilito un nuovo accordo per la divisione dei territori africani, creando il malcontento italiano e
dunque problemi con la Triplice Alleanza. In questo clima nasce un movimento nazionalista che si
diede una struttura organizzativa alla fine del 1910 con la fondazione dell’associazione nazionale
italiana. L’associazione vide prevalere al suo interno un gruppo imperialista e conservatore, che
avviò una campagna in favore della conquista della Libia. I nazionalisti trovarono alleati nei gruppi
cattolico-moderati legati alla finanza vaticana. La spinta decisiva venne dalle vicende della politica
internazionale. Il governo italiano ritenne giunto il momento di far valere gli accordi del 1902 e, nel
1911, inviò sulle coste libiche un contingente di uomini, scontrandosi con la reazione dell’Impero
turco. La guerra fu lunga e difficile anche perché i turchi preferivano fomentare la guerriglia delle
popolazioni arabe contro gli occupanti. L’Italia dovette estendere il teatro di guerra al Mare Egeo,
occupando Rodi e Dodecaneso. I turchi firmarono la pace di Losanna, da cui gli italiani trassero
pretesto per mantenere l’occupazione delle due nuove città.
La conquista della Libia fu molto costosa. Le ricchezze naturali favoleggiate dai nazionalisti si
scoprirono scarse o inesistenti. Non mancarono degli oppositori: i socialisti, una parte dei
repubblicani e dei radicali. Ma la maggioranza dell’opinione pubblica borghese si schierò a favore
dell’impresa coloniale, accolse con soddisfazione che l’Italia fosse riuscita a condurre la sua prima
campagna militare vittoriosa.
La guerra di Libia scosse gli equilibri su cui si reggeva il sistema giolittiano e favorì il rafforzamento
delle ali estreme. La destra liberale, e clerico-conservatori e i nazionalisti trassero nuovo slancio
dal buon esito di un’impresa che avevano sostenuto. Sul versante opposto, quello socialista,
l’opposizione alla guerra fece emergere le tendenze intransigenti e indebolì quelle correnti
riformiste che avevano costituito un elemento importante. In molte città entrarono in crisi le
amministrazioni di centro-sinistra nate sotto gli auspici della massoneria e basate sull’alleanza in
chiave anticlericale fra i liberi progressisti, i socialisti e i radicali.
La svolta liberale di inizio 900 aveva avuto nei socialisti alcuni protagonisti attivi, tra questi
abbiamo Turati. Quando si delineavano i limiti del liberalismo giolittiano crebbe nel Partito
socialista la forza della corrente rivoluzionaria, che sosteneva la necessità di opporre allo Stato
monarchico e borghese la linea di una lotta di classe. Nel congresso di Bologna del 1904 le correnti
rivoluzionarie conquistarono la guida del partito e in seguito si indisse il primo sciopero generale
nazionale in Italia. Ci furono forti pressioni sul governo perché intervenisse militarmente, ma
Giolitti lasciò che la manifestazione si esaurisse da sola. Per il movimento operaio lo sciopero
costituì una prova di forza ma rivelò anche gravi limiti organizzativi: si era sentita l’esigenza di un
coordinamento nazionale. Anche gli industriali cominciarono a organizzarsi in associazioni
padronali, dando vita nel 1910 alla Confederazione italiana dell’industria (Confindustria). Si
accentuarono le fratture interne al Partito socialista italiano. Questa volta fu la maggioranza
riformista a dividersi, lasciando spazio alle tendenze intransigenti. A far precipitare i contrasti fu
l’atteggiamento non contrario assunto da Bissolati e Bonomi di fronte all’impresa libica. Nel
congresso di Reggio Emilia del 1912, i rivoluzionari riuscirono a imporre l’espulsione dal Partito
socialista italiano dei riformisti di destra, dando vita al Partito socialista riformista italiano. I
riformisti rimasti nel Partito socialista italiano furono ridotti in minoranza e la guida del partito
tornò nelle mani intransigenti. Fra questi emerge la figura di Benito Mussolini, chiamato anche alla
direzione dell’Avanti!, portando nella propaganda socialista uno stile nuovo, basato sull’appello
diretto alle masse e sul ricorso a formule agitatorie prese a prestito del sindacalismo
rivoluzionario. Nel corso dell’età giolittiana anche il movimento cattolico italiano conobbe sviluppi
e trasformazioni di grande importanza che lo portarono a esercitare un peso reale crescente nella
vita politica nazionale. Il fatto nuovo fu l’affermazione del movimento democratico-cristiano.
Leader del movimento era Murri che era approdato a posizioni riformatrici. I democratici cristiani
svolsero un’intesa attività organizzativa, fondarono riviste e circoli politici, diedero vita alle leghe
bianche, le prime unioni sindacali cattoliche basate sull’adesione dei soli lavoratori. Papa Pio X
ostacolò l’azione dei democratici cristiani. Decise di sciogliere l’Opera dei congressi, creando tre
nuove organizzazioni, inizialmente distinte, poi riunite in un unico organo di coordinamento. Murri
fu sconfessato e sospeso dal sacerdozio. Il papa e i vescovi favorirono le tendenze clerico-
moderate che si erano manifestate. Alleanze di questo genere furono autorizzate dalle autorità
ecclesiastiche e furono incoraggiate anche da Giolitti. Questi vide nel nuovo atteggiamento dei
cattolici la possibilità di allargare i suoi spazi di manovra, usando nuove forze a sostegno delle sue
maggioranze. Il non expedit fu sospeso definitivamente nel 1909, autorizzando la presentazione di
candidature cattoliche. La linea clerico-moderata ebbe consacrazione nelle elezioni del 1913
quando il conte Gentiloni invitò i militanti ad appoggiare quei candidati liberali che si
impegnassero a rispettare un programma comprendente anche la tutela dell’insegnamento
privato e l’opposizione al divorzio. Nello prospettiva dello sviluppo di un movimento cattolico
autonomo, il Patto Gentiloni rappresentò una netta battuta d’arresto, e fu per questo criticato dai
democratici cristiani.
L’allargamento del suffragio non ebbe effetti sconvolgenti sugli equilibri parlamentari. I liberali
delle varie gradazioni conservavano un’ampia maggioranza, ma si trattava di una maggioranza più
eterogenea e divisa. Nel 1914 Giolitti diede le sue dimissioni designando come successore
Salandra. La guerra in Libia aveva radicalizzato i contrasti politici e anche la situazione economica
si era deteriorata. Un sintomo del nuovo clima fu la cosiddetta settimana rossa del 1914. La morte
di tre dimostranti in uno scontro con la forza pubblica durante una manifestazione antimilitarista e
antimonarchica provocò un’ondata di sciopero e di agitazioni in tutto il paese. Ci furono anche
assalti a edifici pubblici, atti di sabotaggio contro le linee telegrafiche e ferroviarie. L’agitazione
però si esaurì in pochi giorni, con l’unico risultato quello di rafforzare le tendenze conservatrici in
seno alla classe dirigente e di accentuare le fratture all’interno del movimento operaio. Gli echi
della settimana rossa non si erano ancora spenti, quando lo scoppio del conflitto mondiale distolse
l’opinione pubblica dai problemi interni determinando nuove divisioni tra le forze politiche
italiane. La Grande guerra avrebbe reso inevitabile la crisi del giolittismo, mettendo in luce la
debolezza di una strategia politica che aveva favorito la democratizzazione, ma che si rivelava
inadeguata a fronteggiare le tensioni sprigionate dalla società di massa.

CAPITOLO 10
Agli inizi del 1914 il predominio dell’Europa su gran parte del mondo era indiscusso. Lo sviluppo
nella produzione industriale, nel campo tecnologico e negli scambi commerciali aveva diffuso
l’idea di un progresso inarrestabile. L’evoluzione politica e i progressi economici e materiali, però,
non bastavano a spegnere i conflitti sociali interni ai singoli paesi e nemmeno a far scomparire le
tensioni politiche internazionali. Tre le potenze europee erano vive vecchie e nuove rivalità e in
questo quadro, la corsa agli armamenti e la forza distruttiva dei nuovi mezzi bellici rendevano
inquieta l’ipotesi di un conflitto. La guerra era nell’aria. Per molti giovani, però, la guerra si
presentava come l’occasione per uscire dagli orizzonti angusti di una mediocre realtà quotidiana.
Solo la guerra, insomma, avrebbe potuto risvegliare una società fin troppo piatta. Altri però ne
avrebbero voluto sfruttare le opportunità di carriera, di guadagni.
Il casus belli e dunque il pretesto che ha portato allo scoppio della guerra lo si riconduce ad un
evento. I 28 giugno 1914 uno studente bosniaco di nome Gavrilo Princip uccise l’erede al trono
d’Austria, Francesco Ferdinando, e sua moglie a Sarajevo, capitale della Bosnia. L’attentatore
faceva parte di un’organizzazione ultranazionalistica che si batteva affinché la Bosnia entrasse a far
parte della “Grande Serbia”, dunque indipendente dall’Impero asburgico. L’organizzazione, detta
“Mano nera”, aveva la sua base operativa proprio in Serbia e godeva di larghe complicità nella
classe politica e nei vertici militari. Un attentato terroristico si trasformò in un caso internazionale
e mise in moto una catena di reazioni che precipitarono l’Europa in un conflitto di proporzioni mai
viste. L’Austria compì la prima mossa inviando un ultimatum alla Serbia. In seguito fu la Russia che
promise sostegno alla Serbia. Pertanto il governo serbo accettò in parte l’ultimatum, respingendo
la clausola che prevedeva la partecipazione di funzionari austriaci alle indagini sui mandanti
dell’attentato. L’Austria, che ritenne la risposta insufficiente, dichiarò guerra alla Serbia. Subito
interviene il governo russo che ordinò la mobilitazione delle forze militari. La mobilitazione fu, a
sua volta, interpretata dal governo tedesco come un atto di ostilità. Dunque la Germania inviò un
ultimatum alla Russia intimandole la sospensione dei preparativi bellici, ma non ci fu risposta.
Anche la Francia iniziava anche a preparare il suo esercito, in quanto alleata alla Russia. La
Germani, dunque, dichiara guerra alla Francia. Fu l’iniziativa del governo tedesco a far precipitare
la situazione. La Germania soffriva da tempo questa preoccupazione di accerchiamento. Ma
c’erano anche motivazioni militari. La strategia dei generali tedeschi si basava sulla rapidità e sulla
sorpresa: il piano di guerra elaborato da Schlieffen prevedeva un attacco contro la Francia, che
doveva essere sconfitta in poche settimane. Dunque il grosse delle forze, dopo, sarebbe stato
impiegato nei confronti della Russia. Presupposto essenziale per il Piano Schlieffen era la rapidità
dell’attacco della Francia. A questo scopo era previsto che le truppe tedesche passassero
attraverso il Belgio. I primi contingenti tedeschi invasero il Belgio per attaccare la Francia. La
violazione della neutralità belga ebbe un peso decisivo nel determinare l’allargamento del
conflitto. La Gran Bretagna pertanto dichiara guerra alla Germania. Fra i politici era diffusa la
convinzione che una guerra avrebbe contribuito a soffocare i contrasti sociali e a rafforzare la
posizione dei governi e classi dirigenti. I capi della socialdemocrazia tedesca votarono a favore dei
crediti di guerra, motivando la loro scelta col pericolo di una vittoria dell’assolutismo zarista. I
socialisti francesi rinunciarono a ogni manifestazione di protesta ed entrarono a far parte del
governo. La Seconda Internazionale cessò di esistere, dunque fu la prima vittima della Grande
Guerra.
La pratica generalizzata della costrizione obbligatoria e le accresciute possibilità dei mezzi di
trasporto consentirono ai belligeranti di schierare milioni di uomini in uniforme e di dotarli di armi
moderne: tutti gli eserciti disponevano di fucili a ripetizione e di cannoni potentissimi, ma
importante era anche la mitragliatrice automatica, capace di sparare centinaia di colpi al minuto.
Tutti i piani di guerra erano basati sulla previsioni di un guerra che sarebbe durata poche
settimane, ma così non era. Furono i tedeschi a puntare su una strategia offensiva. Anche questa
volta ottennero una serie di importanti successi attestandosi a pochi chilometri da Parigi. Intanto i
russi erano sconfitti nelle battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri. La minaccia russa si rivelò più
seria del previsto e indusse i comandi tedeschi a distogliere una parte delle loro forze dal fronte
occidentale. I francesi riuscirono a lanciare un contrattacco e i tedeschi furono costretti a ripiegare
su una linea più arretrata: il piano tedesco, però, poteva dirsi fallito. Gli eserciti si erano attestati in
trincee improvvisate: cominciava così una guerra nuova, che vedeva due schieramenti immobili
affrontarsi in sanguinosi attacchi, inframmezzati da periodo di lunghe pause. Un problema per
entrambi gli schieramenti era l’atteggiamento dei paesi che in un primo momento aveva deciso di
rimanere estranei alla guerra. Con il passare degli anni, però, questi paesi iniziarono ad essere
coinvolti, direttamente o indirettamente, dovendo dunque entrare in guerra: questa può essere
definita la prima guerra mondiale perché per la prima volta tutti e 5 i continenti erano coinvolti nel
conflitto. Nel 1914 il governo di Salandra aveva dichiarato la neutralità dell’Italia. Questa decisione
aveva trovato concordi tutte le principali forze politiche. Ma cominciò ad affacciarsi l’eventualità
opposta: quella di una guerra contro l’Austria:
- Sostenitori di questa linea interventista furono gruppi e partiti della sinistra democratica
convinti che una partecipazione italiana alla guerra contro gli Imperi centrali avrebbe
aiutato la causa di una nuova Europa fondata sulla democrazia e sul principio di nazionalità.
Erano a favore della guerra anche le associazioni irredentiste, che avevano tra le loro file
numerosi fuoriusciti dall’Impero austro-ungarico. Sull’opposto versante dello schieramento
politico furono i nazionalisti. Più graduale, però, fu l’adesione alla causa dell’intervento dei
gruppi liberal-conservatori, con esponenti proprio Salandra e Sonnino.
- Schierati su una linea neutralista era l’ala più consistente dei liberali, che faceva capo a
Giolitti. Questi non riteneva il paese preparato alla guerra ed era convinto che l’Italia
avrebbe ottenuto dagli Imperi centrali buona parte dei territori rivendicati. Ostili
all’intervento erano anche i cattolici, mentre il Partito socialista e la Confederazione
generale del lavoro mantennero una posizione di netta condanna della guerra. Tra i leader
dei socialisti solo Mussolini si schierò a favore della guerra. Espulso dal partito socialista
italiano, fondò un nuovo quotidiano, il Popolo d’Italia.
I neutralisti erano in prevalenza, ma non costituivano uno schieramento omogeneo. Il fronte
interventista era unito dall’obiettivo della guerra contro l’Austria. La guerra, per molti, doveva
significare la fine del giolittismo e l’avvio di un cambiamento della politica italiana. Le minoranze
interventiste seppero impadronisti del dominio delle piazze ed inoltre tra gli interventisti vi erano
molti giovani e intellettuali come Gentile e D’Annunzio. A decidere l’esito dello scontro fra
neutralisti e interventisti fu il capo di stato e gli uomini cui spettava il potere di decidere il destino
del pese. Si decise, alla fine, di accettare le proposte di Francia, Gran Bretagna e Russia firmando il
Patto di Londra. L’Italia, in caso di vittoria avrebbe ottenuto il Trentino, il Sud Tirolo, la Venezia
Giulia e la Dalmazia. Restava da superare l’opposizione della maggioranza della Camera. La volontà
del Parlamento fu scavalcata: da un lato dalla decisione del re che non accettò le dimissioni di
Salandra; dall’altro dalle manifestazioni in piazza che nelle radiose giornate di maggio si fecero
minacciose. La Camera dunque approvò la concessione dei pieni poteri al governo. L’Italia dichiarò
guerra all’Austria e il 24 maggio 1915 cominciarono le operazioni militari. I socialisti non riuscirono
a organizzare un’opposizione efficace.
L’intervento italiano non servì a decidere le sorti del conflitto. Le forze austro-ungariche si
schierarono sulle posizioni difensive più favorevoli. Contro queste linee le truppe comandate da
Cadorna sferrarono quattro sanguinose offensive (le quattro battaglie dell’Isonzo) senza successo.
In seguito furono gli austriaci a lanciare un attacco, noto come spedizione punitiva, cercando di
spezzare in due lo schieramento italiano. L’offensiva fu arrestata, ma il governo Salandra fu
costretto alle dimissione, venendo sostituito da un governo di coalizione nazionale presieduto da
Boselli. Ne faceva parte un esponente dell’area cattolico-moderata, Filippo Meda. All’inizio del
1916 i tedeschi sferrarono un attacco contro i francesi, ma la battaglia durò troppo costosa per la
Germania, registrando numerosi morti e feriti. In seguito gli anglo-francesi attaccarono i tedeschi,
causando ancora più vittime. I soli successi militari di qualche importanza risalgono all’Europa
orientale. Una grande offensiva tedesca costrinse i russi ad abbandonare buna parte della Polonia.
Gli austriaci attaccarono la Serbia che fu eliminata dal conflitto. Nel 1916 furono i russi a lanciare
l’offensiva contro gli austriaci impegnati sul fronte italiano. I loro successi convinsero la Romania a
scendere in campo al fianco dell’Intesa, ma vennero subito attaccati dagli austro-tedeschi,
abbandonando subito il conflitto. In tutto ciò la flotta tedesca aveva tentato un attacco in
prossimità della penisola dello Jutland. Le perdite subite nella battaglia furono tali da indurre i
comandi tedeschi a ritirare le navi nei porti.
La vera protagonista della guerra fu la trincea, ossia la più semplice tra le fortificazioni difensive.
Inizialmente scavate come rifugi provvisori, divennero la sede permanente dei reparti di prima
linea. Vennero poi anche dotate di ripari, protette da reticolati di filo spinato e da nidi di
mitragliatrici. La vita in trincea era pericolosa, logorava i combattenti gettandoli in un torpore
mentale. Vivevano in condizioni igieniche deplorevoli, esposti al caldo, al freddo e alle intemperie.
Gli assalti erano preceduti da un tiro di artiglieria che avrebbe dovuto scompaginare le difese
avversarie. In seguito i soldati, usciti dal loro rifugio, avrebbero dovuto raggiungere le trincee di
prima linea, subendo però il contrattacco dai reperti di seconda linea e delle riserve. Gran parte
dei soldati semplici non aveva idee precise sui motivi per cui si combatteva e considerava la guerra
come un flagello naturale. In generale la guerra però era intesa come dura necessità. I soldati la
combatteva in quanto sentivano un senso di solidarietà nei confronti dei loro compagni o perché
costretti. Alcuni invece cercarono di rifiutarsi di essere chiamati in guerra cercando di praticare
autolesionismo, spesso invece c’erano anche scioperi militari. Gli eserciti belligeranti fecero ricorso
a tutte le risorse messe a disposizione dalla scienza e dal progresso tecnologico. Una novità fu l’uso
delle armi chimiche: proiettili esplosivi che sprigionavano gas tossici letali, ma questa pratica fu
ovviata con l’uso di maschere antigas. La guerra però accelerò anche la crescita di altri settori
come quello automobilistico o alcuni nuovi come quello della radiofonia. Più lento fu lo sviluppo
dell’aviazione, infatti gli aerei furono usati in questo periodo soprattutto per la ricognizione e per
azioni di bombardamento. Anche il carro armato non fu un mezzo molto sviluppato in questa fase
della guerra: sarà impiegato in maniera più massiccia verso la fine della guerra. Un ruolo
importante, invece, era destinato ai sottomarini. Furono i tedeschi a servirsene. Ma la guerra
sottomarina si rivelò un’arma molto efficace. Sollevava, però, gravi problemi politici e morali e
urtava soprattutto gli interessi commerciali degli Stati Uniti. Quando nel 1915 i tedeschi
affondarono il transatlantico britannico, Lusitania, le proteste degli USA furono energiche da
convincere i tedeschi a sospendere la guerra sottomarina.
Per tutti quelli che vi parteciparono la Grande Guerra costituì un campo di sperimentazione. Anche
i civili furono chiamati in guerra per dare il loro contributo, il cosiddetto fronte interno: proprio in
questo periodo le donne si trovavano a svolgere il ruolo del capofamiglia, sostituivano anche gli
uomini nei lavori dei campi, negli uffici e nelle fabbriche. I più colpiti furono gli abitanti delle zone
in cui si combatteva, costretti a lasciare le loro case e le loro terre. Le minoranze etniche erano
tenute sotto controllo perché sospettate di scarsa lealtà nei confronti della nazione in guerra. Un
caso limite fu quello degli armeni. Questa popolazione abitava in una regione del Caucaso divisa
tra l’Impero ottomano e quello russo. Gli armeni di Turchia avevano pagato con persecuzioni e
massacri i loro tentativi di ribellione. Gli armeni che vivevano nella parte turca di quella regione
furono sottoposti a una brutale deportazione nelle zone interne dell’Anatolia che si trasformò in
sterminio. La guerra comunque produsse una serie di profonde trasformazioni in tutti i paesi che vi
furono coinvolti. I mutamenti più vistosi furono quelli che riguardavano il mondo dell’economia e il
settore industriale. Le industrie interessate alle forniture belliche conobbero uno sviluppo
importante. Questo impose una riorganizzazione dell’apparato produttivo. Interi settori
dell’industria furono posti sotto il controllo dei militari. Anche la produzione agricola fu
assoggettata a un regime di requisizioni e di prezzi controllati. I governi furono investiti di nuove
attribuzioni e dovettero farvi fronte con l’aumento della burocrazia. I poteri dei governi erano
insidiati dall’invadenza dei comandi militari. Furono comunque usati tutti i mezzi per combattere i
nemici interni e per nobilitare la popolazione verso la vittoria. Strumento essenziale per la
mobilitazione dei cittadini era la propaganda: una propaganda che cercava anche di raggiungere in
tutti i modi possibili la popolazione civile. Si trattava di mezzi che rivelavano la preoccupazione dei
governi nel curare l’opinione pubblica e nel cercare l’appoggio. La scelta patriottica operata dai
maggiori partiti socialisti non fece tacere del tutto le voci di opposizioni nel movimento operaio
europeo. In Svizzera si tennero due conferenze socialiste internazionali che si conclusero con
l’approvazione di documenti in cui si chiedeva una pace senza indennità.
Nel 1917 due novità intervennero nel corso della guerra. A Febbraio uno sciopero generale degli
operai di Pietrogrado si trasformò in una manifestazione politica contro il regime zarista. La sorte
della monarchia era segnata: lo zar dovette abdicare e dopo poco venne arrestato. Questo
avrebbe portato al collasso militare russo, firmando l’armistizio. Sempre nel 1917 gli Stati Uniti
dichiaravano guerra alla Germania che aveva ripreso la guerra sottomarina. In Francia e in Italia si
fecero sempre più frequenti episodi di insubordinazione dei reparti combattenti e le proteste
popolari contro la guerra. Il caso più grave si verificò sul fronte francese, dove alcuni reparti di
fanteria si rifiutarono di tornare a combattere. L’ammutinamento fu domato con una repressione
e cercando di migliorare la condizione dei soldati. Ma in generale negli Imperi centrali si stava
sempre più verificando segni di stanchezza. Anche Papa Benedetto XV, che definì questa guerra
come “inutile strage”, invitava i governi a porre fine al conflitto. Per l’Italia il 1917 fu un anno duro.
Cadorna ordinò una nuova serie di offensive sull’Isonzo, con risultati modesti e costi umani più
pesanti che in passato. Fra i civili si moltiplicavano i segni di malcontento per i disagi causati
dall’aumento dei prezzi e della carenza di generi alimentari. Si trattava di manifestazioni
spontanee che vedevano in prima fila le donne, ma l’unico vero moto insurrezionale si verificò a
Torino quando una protesta originata dalla mancanza di pane si trasformò in una sommossa. I
comandi austro-tedeschi decisero di approfittare delle disponibilità di truppe provenienti dal
fronte russo per infliggere un colpo decisivo all’Italia. Un’armata austriaca, dunque, attaccò le linee
italiane sull’alto Isonzo giungendo a Caporetto. Gli attaccanti avanzarono nel Friuli, mettendo in
atto la nuova tattica dell’infiltrazione. La manovra fu efficace e infatti molte truppe italiane
dovettero abbandonare la guerra. Solo dopo due settimane un esercito dimezzato riusciva ad
attestarsi sulla nuova linea difensiva del Piave, lasciando al nemico numerosi territori e prigionieri
italiani. Il generale Cadorna gettò le colpe della disfatta sui suoi stessi soldati. In realtà la rottura
del fronte era stata determinata dagli errori dei comandi, che si erano lasciati cogliere impreparati.
Questa disfatta ebbe ripercussioni positive sul corso della guerra italiana. La ritirata sul Piave aveva
consentito un accorciamento del fronte. Dunque i soldati si ritrovarono a combattere una guerra
difensiva, contro un nemico che occupava una parte del territorio nazionale. Fu costituito un
nuovo governo di coalizione nazionale presieduto da Vittorio Emanuele Orlando e le forze
politiche parvero trovare una concordia. Anche il cambio della guardia alla testa dell’esercito ebbe
effetti positivi sull’esercito. Infatti Diaz si mostrò più attento alle esigenze dei soldati, cui furono
garantiti vitto e licenze più frequenti. Dal 1918 fu svolta un’opera sistematica di propaganda con la
diffusione dei giornali di trincea e la creazione di un Servizio P ovvero di propaganda. Si prospettò
ai soldati la possibilità di vantaggi materiali di cui il paese e i singoli cittadini avrebbero potuto
godere in caso di vittoria. Si cercò di presentare la guerra come una lotta per un più giusto ordine
interno e internazionale. Prese vigore l’idea della guerra democratica.
La rivoluzione russa fu un evento drammatico e improvviso. Dopo l’abdicazione dello zar, si formò
nella capitale un governo provvisorio che aveva lo scopo di continuare la guerra al fianco
dell’Intesa e di promuovere la modernizzazione, politica ed economica, del paese. I rappresentanti
dei costituzionali-democratici, i socialisti menscevichi (minoritari) e i social-rivoluzionari entrarono
nel governo provvisorio. Al potere del governo si affiancò quello dei consigli, appunto i soviet,
degli operai e dei soldati. I soviet di Pietrogrado agiva come una specie di parlamento proletario, in
contrasto con le disposizione del governo. Si era messo in moto un movimento di massa che
respingeva l’idea di un’autorità centrale. Lenin rientrò in Russia dopo un viaggio in Svizzera. Il
viaggio era stato reso possibile dalla copertura delle autorità tedesche che speravano di accelerare
l’uscita della Russia. Lenin diffuse un documento in dieci punti, le Tesi di Aprile, in cui poneva il
problema della presa del potere. Il primo obiettivo era quello di conquistare la maggioranza dei
soviet e di lanciare le parole d’ordine della pace, della terra ai contadini poveri. Il primo scontro tra
bolscevichi e il governo provvisorio si ebbe a Pietrogrado quando soldati e operai armati scesero in
piazza per impedire la partenza per il fronte di alcuni reparti. L’insurrezione però fallì. Un nuovo
tentativo di colpo di stato fu sventato grazie all’aiuto delle forze socialiste. Uscirono rafforzati i
bolscevichi che conquistarono la maggioranza nei soviet di Pietrogrado e Mosca. La decisione di
rovesciare il governo fu presa dai bolscevichi in ottobre. Organizzatore dell’insurrezione fu Trotzkij,
eletto presidente del soviet di Pietrogrado. I soldati rivoluzionari e guardie rosse circondarono il
Palazzo d’Inverno e se ne impadronirono la sera stessa. L’assalto al Palazzo d’Inverno fu incruento:
poche furono le vittime negli scontri che ebbero luogo nei corridoi e nei saloni. Si riuniva inoltre il
Congresso panrusso dei soviet, ovvero l’assemblea dei delegati dei soviet di tutte le province. Il
Congresso varò due decreti proposti da Lenin: il primo faceva appello ai popoli belligeranti per una
pace giusta; il secondo stabiliva l’abolizione della grande proprietà terriera senza indennizzo.
Veniva dunque costituito un nuovo governo rivoluzionario presieduto da Lenin, chiamato Consiglio
dei commissari del popolo.
La presa del potere da parte dei bolscevichi colse di sorpresa tutte le altre forze politiche. I
bolscevichi, che ottennero pochi seggi, non avevano alcuna intenzione di rinunciare al potere
conquistato. L’Assemblea costituente fu sciolta dall’intervento dei militari bolscevichi, che
obbedivano a un ordine del Congresso dei soviet. Questo nuovo atto di forza segnava una rottura
irreversibile con le altre componenti del movimento socialista e con tutta la tradizione
democratica occidentale. I leader bolscevichi spettavano di poter procedere alla costruzione di un
nuovo Stato proletario ispirato all’esperienza della Comune di Parigi. Nella società socialista non ci
sarebbe stato il bisogno di un Parlamento e di magistratura, di eserciti o di burocrazia, ma le
masse si sarebbero autogovernate. L’ipotesi su cui puntavano i bolscevichi era quella di una
sollevazione generale dei popoli europei. Ma questa ipotesi non si realizzò. Il nuovo governo firmò
l’armistizio che poneva fine alle ostilità. Seguì una lunga trattativa con gli Imperi centrali, che si
concluse con la firma della pace di Brest-Litovsk. La Russia rivoluzionaria dovette accettare le
condizioni imposte dalla Germania e Austria-Ungheria, che comprendevano la perdita di territori
dove stavano nascendo nuovi stati indipendenti. Gravi furono le conseguenze del trattato a livello
di rapporti internazionali. Le potenze dell’Intesa considerarono la pace un tradimento e
cominciarono ad appoggiare le forze antibolsceviche che si erano organizzate in varie zone del
paese. Ci furono sbarchi di truppe anglo-francesi in Russia e nel Mar Nero mentre reparti
statunitensi e giapponesi penetravano nella Siberia orientale. L’arrivo dei contingenti stranieri
servì a rafforzare l’opposizione al governo bolscevico e ad alimentare la guerra civile in diverse
zone del paese. Fu in questa circostanza che lo zar e la sua famiglia furono giustiziati per ordine del
soviet locale per paura che fossero liberati dai controrivoluzionari. Solo a partire dal 1919 le
potenze straniere iniziarono a ritirare le loro truppe per le proteste che l’intervento suscitava nei
loro paesi e per il pericolo di un contagio rivoluzionario fra i soldati. Intanto il regime rivoluzionario
accentuava i suoi tratti autoritari. Si era cominciato con la creazione di una polizia politica, la Ceka.
Vennero messi fuori legge i partiti d’opposizione e fu reintrodotta la pena di morte che era stata
abolita subito dopo la rivoluzione d’ottobre. Si procedeva anche alla riorganizzazione dell’esercito,
riscostruito a febbraio del 1918 col nome di Armata rossa degli operai e dei contadini. Artefice
dell’operazione fu Trotzkij che costruì una potente macchina da guerra. La creazione di un esercito
efficiente, decisiva per la vittoria nella guerra civile, avrebbe consentito alla Russia sovietica di
sopravvivere allo scontro con i suoi nemici. Nasceva un nuovo modello di Stato a partito unico dai
tratti autoritari, capace di proporsi come agente di liberazione per i popoli di tutto il mondo.
Nella fase fiale della guerra gli Stati dell’Intesa accentuarono il carattere ideologico dello scontro.
Si diffuse la concezione della guerra come crociata della democrazia contro l’autoritarismo, che
trovò il suo interprete nel presidente Wilson. Il presidente americano proponeva l’abolizione della
diplomazia segreta, il ripristino della libertà di navigazione, la soppressione delle barriere doganali.
La pace appariva lontana. La Germania tentò la sua ultima scommessa sul territorio francese
impegnando tutte le forze che aveva a disposizione. In quello stesso periodo gli austriaci
attaccarono l’Italia sul Piave, ma furono respinti dopo una serie di combattimenti. Le forze
dell’Intesa, dunque, passarono al contrattacco: attaccarono i tedeschi che subirono un forte colpo
nella battaglia di Amiens. I generali tedeschi capirono di aver perso la guerra. Il compito di aprire le
trattative spettò al nuovo governo di coalizione democratica formatosi con i socialdemocratici e i
cattolici. Gli alleati tedeschi cedevano: la prima fu la Bulgaria, subito dopo tocca alla Turchia.
Anche l’Austria-Ungheria inizia ad entrare in crisi: quando l’Italia lancia un’offensiva sul Piave,
l’Impero era in piena crisi. L’Austria infatti firmò a Villa Giusti l’armistizio con l’Italia. La situazione
precipita anche in Germania. Presero vita i consigli rivoluzionari. A Berlino Ebert fu proclamato
capo del governo, mentre Guglielmo II fuggiva in Olanda e veniva proclamata la Repubblica:
dunque anche i tedeschi firmano l’armistizio. La Germania perdeva una guerra poiché è stata
schiacciata sul piano militare. Gli Stati dell’Intesa uscivano scossi dal conflitto. La guerra comunque
si concluse con la morte di oltre 8 milioni di persone.
Solo nel 1919 nella Reggia di Versailles si aprirono i lavori della conferenza di pace. Furono esclusi i
paesi sconfitti, chiamati a ratificare le decisioni che li riguardavano. Il nuovo equilibrio doveva
tener conto dei principi di democrazia e di giustizia internazionale enunciati da Wilson. La
Germania poteva limitare le amputazioni territoriali, ma subì una serie di clausole che sarebbero
state sufficienti a cancellarla dalle potenze mondiali. Il trattato di Versailles firmato nel 1919 fu
un’imposizione subita dalla Germania sotto la minaccia dell’occupazione militare e il blocco
economico. Era previsto la cessione alla Polonia di alcune regioni orientali abitate da alcuni
tedeschi. Venne inoltre anche private delle colonie in Africa e Oceania, divise tra Francia, Gran
Bretagna e Giappone. Ma la parte più pesante dell’imposizione era costituita dalle clausole
economiche e militari. La Germania, inoltre, doveva impegnarsi a rifondere ai vincitori i danni
subiti dopo il conflitto. Infine era prevista la smilitarizzazione della valle del Reno. Erano condizioni
umilianti per la nazione. La nuova Repubblica di Austria si trovò in un territorio ridotto. Un
trattamento severo toccò all’Ungheria che perse le regioni slave, ma anche altri piccoli territori. A
trarre vantaggio dal crollo dell’Impero asburgico furono i popoli slavi. I cechi e gli slovacchi
confluirono nella Repubblica di Cecoslovacchia. Il nuovo assetto balcanico era completato
dall’ingrandimento della Romania e dal ridimensionamento della Bulgaria. Gli stati vincitori,
intanto, non riconoscevano la Repubblica dei soviet, mentre furono riconosciute e protette le
nuove repubbliche indipendenti. L’Europa dunque contava otto nuovi stati, e nel 1921 si sarebbe
aggiunto lo Stato libero d’Irlanda, indipendente. Ad assicurare il rispetto dei trattati sarebbe
dovuto essere la Società delle Nazioni. Il nuovo organismo prevedeva la rinuncia da parte degli
stati membri alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti. Il colpo più duro della Società
delle Nazioni era rivolto agli Stati Uniti: infatti il Senato statunitense decise di non ratificare i
trattati di Versailles, iniziando così una fase di isolazionismo, di rifiuto delle responsabilità
mondiali.
Anni dopo la fine, il conflitto continuava a essere oggetto di rappresentazioni e di trasfigurazione
mitica. La celebrazione dei morti in guerra era stata rivendicata dalla cultura romantica che vedeva
negli eserciti basati sulla leva in massa l’espressione della nazione in armi. Ci furono diverse
iniziative per ricordare e celebrare i numerosi morti: furono eretti mausolei nei luoghi di
combattimento, in molti centri sorsero monumenti ai caduti, si aggiunsero anche parchi e viali
delle rimembranze. Una forma di celebrazione collettiva fu quella del milite ignoto: la sepoltura
solenne in uno spazio pubblico delle spoglie di un soldato anonimo, scelto in rappresentanza di
tutti i combattenti morti e di cui non si era risalito all’identità in quanto sfregiati. Rappresentava
anche un moto delle classi dirigenti di riunificare una memoria che restava divisa, di riavvicinare
l’immagine ufficiale ed eroica del conflitto al sentimento diffuso in vari strati della società.

CAPITOLO 11
Quella che usciva dalla guerra era un’Europa sconvolta e trasformata, anche in ambito economico.
La guerra aveva inghiottito una quantità incredibile di risorse, spesso anche più di quello che s
possedeva. Per far fronte a queste enormi spese, i governi era ricorsi all’aumento delle tasse e
aumentando il debito pubblico, chiedendo anche debiti agli Stati Uniti che era l’unica potenza a
non aver subito questa crisi. Ma tutto questo non aiutò a migliorare la situazione. Pertanto i
governi ricorrono a stampare carta moneta in eccedenza, mettendo in moto un processo
inflazionistico. Dunque i prezzi iniziarono ad aumentare di molto. L’inflazione stava distruggendo
posizioni economiche consolidate ed erodeva i risparmi dei ceti medi. Il sostegno dei poteri
pubblici era richiesto dagli industriali che dovevano affrontare la riconversione delle attività di
pace. Si rafforzò la tendenza dei pubblici poteri a intervenire su materie un tempo riservate alla
libera iniziativa delle parti sociali. Grazie al sostegno dello stato l’industria europea riuscì a
mantenere i livelli produttivi degli anni di guerra. Una pronta ripresa delle economie europee era
frenata dagli scambi internazionali. Invece delle piena libertà degli scambi auspicata dal
programma di Wilson, si ebbe nel dopoguerra una ripresa di nazionalismo economico e di
protezionismo.
L’espansione dell’industria bellica aveva spostato dalle campagne alle città nuovi strati di
lavoratori, molto spesso donne e ragazzi. Il brusco distacco dal nucleo familiare di molti giovani e
l’assenza prolungata di un capofamiglia avevano messo in crisi le strutture tradizionali della
famiglia e provocato mutamenti profondi nella mentalità e nelle abitudini. I giovani cercavano
nuove occasioni di divertimento, spesso nei cinema o nella musica esportata dai soldati
statunitensi. I lavoratoti chiedevano più tempo libero. A risentire di questi mutamenti furono
anche le donne. Infatti nel periodo della guerra divennero operaie delle fabbriche, guidatrici di
tram, impiegate di banca. Divennero anche le capofamiglia. Inoltre quelle più giovani avevano
mutando anche il modo di vestirsi, optando per vestiti più leggeri. Il processo di emancipazione
ebbe nel dopoguerra un riconoscimento nel diritto di voto: prima nella Gran Bretagna, poi negli
Stati Uniti e anche in Germania. Questo però creò delle preoccupazioni, soprattutto nei reduci di
guerra, che temevano di vedere occupati i posti di lavoro di cui pensavano di avere il diritto. In
realtà i reduci di guerra erano convinti di aver maturato un credito nei confronti dei cittadini.
Sorsero anche associazioni di ex combattenti che si mobilitavano per la difesa dei propri valori e
dei propri interessi. Dunque ci fu un forte senso di risentimento da parte dei reduci. Per far valere i
propri diritti era necessario associarsi e organizzarsi in gruppi numerosi. Dunque si affermò la
massificazione: partiti e sindacati videro aumentare il numero dei loro iscritti. Acquistavano
maggior peso le manifestazioni pubbliche basate sulla partecipazione diretta del cittadino. Per
molti lavoratori l’ordine nuovo era quello che si stava attuando in Russia, ma questa prospettiva
era fatta da minoranze. Era molto più frequente vedere richieste concrete nel quadro di una
società più equa.
La vittoria delle potenze democratiche e il crollo degli imperi multietnici significava, per molti
popoli, l’indipendenza. Negli antichi imperi la divisione etnica coincideva con i confini di classe.
L’applicazione del principio di nazionalità risultava imperfetto. La presenza di gruppi che parlavano
lingue diverse fu sentita come una minaccia dai membri della comunità nazionale. Si cercava di
veicolare questo problema facendo studiare e comunicando con la lingua della nazione.
Tra il 1918 e il 1920, il cosiddetto biennio rosso, il movimento operaio europeo fu protagonista di
un’avanzata politica che assunse connotati rivoluzionari. I lavoratori organizzati dai sindacati
diedero vita a un’ondata di agitazioni che consentì agli operai di difendere i livelli delle loro
retribuzioni e di ridurre la giornata lavorativa a otto ore. L’ondata rossa del 1919-20 si manifestò in
maniera differente. Francia e Gran Bretagna conservavano i Parlamenti. Germani, Austria e
Ungheria furono teatro di tentativi rivoluzionari, che furono subito stroncati. La rivoluzione
d’ottobre, intanto, aveva accentuato la frattura fra le avanguardie rivoluzionarie e il resto del
movimento legato ai partiti socialdemocratici. La scissione fu sancita con la costituzione a Mosca di
una Internazionale comunista, anche nota come Terza Internazionale. La sua struttura e i suoi
compiti furono fissati nel secondo congresso e fu lo stesso Lenin a fissare il documento. I partiti, ad
esempio, dovevano ispirarsi al modello bolscevico e dovevano cambiare il proprio nome in quello
di Partito comunista. Queste decisioni non trovarono consensi da tutti. La rottura fra
socialdemocrazia e comunismo era stata segnata dalle vicende drammatiche che in Germania
avevano seguito la proclamazione della Repubblica. Il governo legale era formato da esponenti
della socialdemocrazia, ma in realtà in molte città a governare erano operai e soldati. I
socialdemocratici però non avevano intenzione di smantellare la struttura militare e civile del
vecchio Stato. I capi dell’esercito stabilirono con i leader socialdemocratici un patto, impegnandosi
a servire le istituzioni repubblicane in cambio di garanzie di tutela dell’ordine pubblico. La linea
moderata scelta dal partito socialdemocratico portava allo scontro con le correnti più radicali del
movimento operaio. Centinaia di berlinesi scesero in piazza per protestare contro la destituzione
di un esponente della sinistra dalla carica di capo della polizia. I dirigenti della Lega di Spartaco
decisero di diffondere un comunicato dove si invitava a rovesciare il governo, ma non ci la risposta
che si attendeva. Durissima fu la reazione delle autorità che si servirono per la repressione di
squadre volontarie, dei corpi franchi. Nel giro di pochi giorni schiacciarono l’insurrezione berlinese
e i leader del movimento spartachista furono uccisi. Si tennero le elezioni per l’Assemblea
costituente. I socialisti, cattolici e democratici avevano permesso l’approvazione di un nuovo testo
costituzionale. La Costituzione di Weimar aveva un’ispirazione democratica: prevedeva anche il
suffragio universale maschile e femminile. Questo però non calmò gli animi, anzi si preparava un
moto rivoluzionario. Furono i generali che portavano la maggiore responsabilità politica della
sconfitta a diffondere la leggenda della “pugnalata alla schiena” secondo cui l’esercito tedesco
avrebbe perso perché pare fosse stato tradito da una parte del paese. Anche nella nuova
Repubblica austriaca furono i socialdemocratici a governare il paese nella fase del trapasso di
regime. Breve fu la vita della Repubblica democratica in Ungheria, dove socialisti e comunisti si
unirono per dare vita a una Repubblica sovietica, che attuò una politica di dura repressione contro
la borghesia e l’aristocrazia. Il regime però cadde dopo poco, grazie alle truppe rumene che
avevano invaso il paese con l’appoggio della Gran Bretagna e della Francia. L’Ungheria quindi cade
sotto un regime autoritario sorretto dalla Chiesa e dai proprietari terrieri.
La Repubblica nata dalla Costituente di Weimar rappresentò per l’Europa un modello di
democrazia. Molti era i fattori che contribuivano a indebolire il sistema repubblicano. Un motivo di
debolezza stava nella frammentazione dei gruppi politici, che rendeva il governo instabile. Nel
1921 le potenze alleate stabilirono l’ammontare dei risarcimenti dovuti alla Germania nella cifra di
132 miliardi di marchi. L’annuncio dell’entità delle riparazioni suscitò proteste. I gruppi
dell’estrema destra nazionalista scatenarono un’offensiva terroristica contro la classe dirigente
repubblicana. I governi di colazione che si susseguirono in questi anni si impegnarono a pagare l
prime rate delle riparazioni ma evitarono interventi troppo drastici sulle tasse e sulla spesa
pubblica: pertanto furono costretti ad aumentare la stampa di carta moneta, facendo aumentare
l’inflazione. La Francia e il Belgio inviarono truppe nel bacino della Ruhr. Il governo incoraggiò la
resistenza passiva della popolazione. Per le dissestate finanze tedesche l’occupazione della Ruhr
rappresentò il tracollo definitivo. Il marco precipitò, annullando il suo potere d’acquisto. Nel
momento più drammatico della crisi la classi dirigente trovò la forza di reagire. Nel 1923 si formò
un governo di grande coalizione presieduto da Stresemann. Il governo ordinò la fine della
resistenza passiva nella Ruhr e riallacciò i contatti con la Francia. Decretò lo stato di emergenza e
reprimono i focolai insurrezionali diffusi nel paese e per fronteggiare la ribellione della destra
nazionalista in Baviera. A Monaco alcune migliaia di aderenti al Partito nazionalsocialista guidati da
Hitler cercarono di organizzare un’insurrezione contro il governo centrale. Il complotto fallì, Hitler
fu arrestato e la sua carriera politica parve conclusa. Il governo cercò di porre rimedio al caos
economico. Intanto era stata emessa una nuova moneta, il marco di rendita, il cui valore era
garantito dal patrimonio agricolo e industriale. Al tempo stesso era stata avviata una politica
deflazionistica che costò ai tedeschi altri sacrifici, consentendo un ritorno alla moneta normale. Fu
trovato un accordo: il piano Dawes. Questo piano si basava sull’idea che la Germania avrebbe
potuto far fronte ai suoi impegni solo se avesse avuto modo di rilanciare a sua economia. La
Germania dunque rientra in possesso di Ruhr, vedeva alleviato momentaneamente l’onere dei
suoi debiti e otteneva un aiuto per la sua ripresa economica dagli Stati Uniti. Più lenta fu la
stabilizzazione politica. La coalizione di Stesemann si ruppe. Nelle elezioni presidenziali del 1925, il
cattolico Marx fu batto da Hindenburg. La situazione politica si normalizzò. I socialdemocratici nel
1928 ottengono il potere.
Le classi dirigenti si preoccuparono di ricostruire gli equilibri politici e sociali, di frenare i fenomeni
inflazionistici. Nelle due maggiori potenze vincitrici, Gran Bretagna e Francia, l’obiettivo della
stabilizzazione fu raggiunto. In Francia la maggioranza di centro-destra che controllò il governo
attuò una politica conservatrice. Solo dal 1924 i radicali di sinistra e i socialisti riuscirono a
strappare la maggioranza ai moderati. L’esperimento ebbe breve durata. Nel 1926 la guida del
governo fu assunta dal leader dei moderati Poncaré, che riuscì a stabilizzare la moneta. Anche in
Gran Bretagna abbiamo i moderati alla guida del Paese. I liberali ebbero un ridimensionamento,
consentendo al Partito laburista di assumere il ruolo di antagonista dei conservatori. I governi
conservatori porteranno avanti una politica di austerità finanziaria e di contenimento dei salari,
facendoli scontrare con i sindacati. I minatori chiedevano un aumento dei salari, senza successo. Il
governo cercò di profittare della sospensione delle agitazioni vietando gli scioperi e dichiarando
illegale la pratica per cui gli aderenti alle Trade Unions veniva iscritti d’ufficio al Partito laburista. La
Francia cercò di costruire una rete di alleanze con tutti i Paesi dell’Europa centro-orientale che
erano stati avvantaggiati dai trattati di Versailles ed erano contrari alla revisione del nuovo assetto
europeo. Con l’accettazione del Piano Dawes s inaugurò una fase di distensione e di collaborazione
fra le due potenze ex nemiche. Abbiamo da una parte Briand che voleva fondare su basi più stabili
l’equilibrio di Versailles, mentre Stresemann cercava di superare quell’equilibrio per riportare la
Germania a una condizione di grande potenza. Alla base c’era la volontà di normalizzare i rapporti
fra vincitori e vinti. Un accordo importante era quello di Locarno, che consisteva nel
riconoscimento delle frontiere comuni tracciate a Versailles e nell’impegno della Gran Bretagna e
Italia a farsi garanti contro eventuali violazioni. La Germania, inoltre, fu annessa alla Società delle
Nazioni. Fu varato anche nel 1929 il piano Young che ridusse le riparazioni tedesche dilazionandole
in 60 anni. Ci fu una fase di distensione, dunque, che però si interruppe alla fine del decennio a
causa della crisi economica del 29. La Francia decise di costruire un complesso di fortificazioni
difensive: segno della caduta delle speranze di una sicurezza collettiva assicurata dalla Società
delle Nazioni.
La Russia comunista rappresentò un mito positivo per i rivoluzionari europei. Appena conclusa la
guerra civile, i bolscevichi dovettero affrontare l’attacco improvviso da parte della Polonia, che
cercava di profittare delle difficoltà del vicino per ritagliarsi confini più vantaggiosi. Dopo fasi
alterne si giunse a un trattato di pace che contattava le aspirazioni polacche e segnava la fine della
speranza di esportare la rivoluzione grazie ai successi militari. Quando i bolscevichi presero il
potere, l’economia russa si trovava in uno stato di dissesto, che la rivoluzione e le devastazioni
aggravarono. L’abolizione della proprietà terriera e la redistribuzione delle terre ai contadini
poveri si risolsero nella creazione di piccole aziende che producevano per l’autoconsumo. Le
banche furono nazionalizzate e i debiti con l’estero cancellati. Nel 1918 il governo bolscevico cercò
di attuare una politica più energica e autoritaria, definita comunismo di guerra. Venne incoraggiata
la formazione di comuni agricoli delle fabbriche sovietiche gestite dallo Stato e dai soviet. Grazie al
comunismo di guerra il regime bolscevico riuscì ad assicurare lo svolgimento di alcune funzioni
essenziali e ad armare il suo esercito. La crisi raggiunse il suo culmine nel 1921 quando una
terribile carestia colpì le campagne della Russia e dell’Ucraina. Il punto di maggiore tensione lo
abbiamo quando a ribellarsi furono i marinai nella base di Pietrogrado. Alle richieste dei ribelli il
governo rispose con una repressione militare, con morti e prigionieri. Sempre nel 1921, prende al
via una liberazione nella produzione e negli scambi. La nuova politica economica (NEP) aveva lo
scopo principale di stimolare la produzione agricola a favorire l’afflusso dei generi alimentari verso
le città. Ai contadini si consentiva di vendere sul mercato le eccedenze. La liberazione si estese
anche al commercio e alla piccola industria produttrice di beni di consumo. Lo Stato mantenne il
controllo delle banche. La NEP ebbe conseguenze benefiche su un’economia stremata, ma
produsse effetti sociali non previsti. Si favorì infatti la riaffermazione dei contadini benestanti, i
kulaki. La liberazione del commercio accrebbe la disponibilità di beni di consumo, provocando la
comparsa di una nuova classe di affaristi.
La prima Costituzione della Russia rivoluzionaria fu varata nel 1918, nel pieno della guerra civile, e
si proclamava che il potere doveva appartenere ai soviet. Prevedeva, inoltre, che il nuovo Stato
avesse carattere federale, rispettasse l’autonomia delle minoranze etniche e si aprisse all’unione
con altre future Repubbliche sovietiche. Quello che si attuò tra il 1920-22 era l’unione alla
Repubblica russa delle altre province dell’ex Impero zarista. Dunque nel 1922 prende forma l’URSS
e la nuova Costituzione del 1924 prevedeva una complessa struttura istituzionale, al cui vertice
avevamo ancora i soviet. Il potere era però nelle mani del partito comunista. Il partito era guidato
da un segretario generale e aveva come organo fondamentale l’Ufficio politico del Comitato
centrale. Il partito, ad esempio, controllava la polizia e proponeva i candidati alle elezioni dei
soviet. Anche i comunisti russi mirarono a cambiare la società, creando una nuova cultura adatta
alla realtà che si voleva costruire. Lo sforzo si indirizzò verso due direzione: alfabetizzazione di
massa e la lotta contro la Chiesa ortodossa. Si cercava di collegare la scuola al mondo della
produzione, privilegiando l’istruzione tecnica. Anche la lotta contro la Chiesa ortodossa assumeva
una valenza ideologica. La scristianizzazione fu portata avanti con durezza e poté dirsi riuscita,
anche se l’influenza della Chiesa fu solo ridimensionata. Venne anche proclamata la parità fra i
sessi e la condizione dei figli illegittimi fu equiparata a quelli legittimi. In generale il regime
comunista favorì la liberalizzazione dei costumi. Gli effetti della rivoluzione si fecero sentire anche
nel mondo dell’alta cultura. Molti intellettuali ingrossarono le file dell’emigrazione politica. Per
alcuni la nuova arte proletaria doveva porsi al servizio della politica di classe, per altri la
rivoluzione nelle arti doveva essere parallela a quella politica e doveva consistere nella rottura dei
canoni tradizionali. Le tendenze autoritarie si consolidarono con Stalin. Infatti dal momento in cui
Lenin si ammala, si aprì una lotta per la successione. Lo scontro non riguardava solo il problema
della burocratizzazione. Trotzkij attribuiva l’involuzione autoritaria dello stato sovietico e riteneva
che la Repubblica dei soviet dovesse estendere il processo rivoluzionario all’intero Occidente
capitalistico. Viene coniata, per contrapporre questa tesi, il concetto di rivoluzione permanente:
Stalin sosteneva che l’Unione Sovietica aveva le forze sufficienti a fronteggiare l’ostilità del mondo
capitalista. Una volta sconfitto Trotzkij venne meno il legame che teneva uniti i suoi avversari. Una
parte voleva l’interruzione della NEP, ma dall’altra parte fu favorevole alla continuazione di questo
governo, sostenuta anche da Lenin. Pertanto i leader dell’opposizione furono allontanati e poi
espulsi dal partito. Trotzkij fu deportato ed espulso dall’URSS. Si chiude così la prima fase della
rivoluzione comunista, la fase della costruzione del nuovo Stato.

CAPITOLO 12
L’Italia si trovò a condividere i problemi politici e le tensioni sociali che la Grande Guerra aveva
suscitato in tutta Europa. L’economia presentava i tratti tipici di una crisi postbellica. L’esperienza
del primo conflitto mondiale aveva accelerato il processo di avvicinamento delle masse allo Stato,
ma lo aveva fatto in modo traumatico, provocando nuove divisioni. Quella che usciva dalla guerra
era una società inquieta e attraversata da profonde fratture, unita da un senso di ansia di
rinnovamento. Le tensioni sociali erano legate al continuo aumento dei prezzi al consumo. Le
principali città italiane divennero teatro di violenti tumulti. Ci furono anche lotte dei lavoratori
agricoli. Nelle regioni centrali erano attive le leghe bianche cattoliche. L’aspirazione alla proprietà
della terra fu all’origine di un movimento che si formò nel Centro-Sud. Ad agitare la scena italiana
contribuì la cattiva gestione della pace. L’Italia era uscita dalla guerra rafforzata, ottenendo diversi
territori come le terre irredente e il Sud Tirolo. Ma la dissoluzione dell’Austria-Ungheria e la
nascita dello Stato jugoslavo ponevano una serie di problemi non previsti: infatti l’Italia non poté
ottenere la Dalmazia come previsto con il Patto di Londra. Non fu neanche possibile ottenere la
città di Fiume, abitata soprattutto da italiani: annessione ostacolata soprattutto dagli USA. Questo
insuccesso segnò la fine del governo Orlando, succeduto perciò da Nitti. Gli avvenimenti dei
territori avevano creato un malcontento tra i cittadini italiani, tanto da diffondersi il pensiero di
“vittoria mutilata”, coniato da D’Annunzio. La manifestazione più clamorosa di questa protesta si
ebbe nel 1919 quando alcuni reparti militari ribelli, guidati da D’Annunzio, occuparono la città di
Fiume per ben 15 mesi. A Fiume il poeta istituì una provvisoria reggenza, sperimentando formule e
rituali collettivi.
La classe dirigente liberale si trovò sempre più isolata. Risultarono favorite quelle forze che si
consideravano estranee alla tradizione dello Stato liberale, che potevano interpretare meglio le
nuove dimensioni assunte dalla lotta politica. Furono i cattolici a portare il primo fattore di novità,
dando vita a una nuova formazione politica che prese il nome di Partito Popolare Italiano, guidato
da Don Luigi Sturzo. Il partito si presentava con un programma di impostazione democratica e si
dichiarava non confessionale. La nascita del partito rappresentò una svolta in positivo per la
democrazia italiana. Altra grande novità riguardava la crescita del Partito socialista, dove si
registrava la prevalenza della corrente di sinistra, detta massimalista, su quella riformista. I
massimalisti si ponevano l’obiettivo di instaurare la repubblica socialista fondata sulla dittatura del
proletariato e si dichiaravano ammiratori della rivoluzione russa. Si formarono nel partito socialista
italiano gruppi di estrema sinistra che si battevano per un impegno rivoluzionario e per una stretta
adesione all’esempio dei bolscevichi russi. Fra questi gruppi emergono quello napoletano con
Bordiga e quello torinese con Gramsci. Il primo puntava alla creazione di un nuovo partito
rivoluzionario, Gramsci era affascinato dall’esperienza dei soviet. Il grosso del Partito socialista era
schierato su posizioni rivoluzionarie. I socialisti si preclusero ogni possibilità di collaborazione con
le forze democratiche-borghesi. Ferirono il patriottismo della piccola borghesia e fornirono
argomenti all’oltranzismo nazionalista dei gruppi che si formarono per difendere i valori della
vittoria. Fra questi movimenti spicca quello di Mussolini, i Fasci di Combattimento. Politicamente
schierato a sinistra, chiedeva audaci riforme sociali e si dichiarava favorevole alla repubblica, ma
ostentava un acceso nazionalismo e una feroce avversione nei confronti dei socialisti. Il fascismo
raccolse scarse adesioni, ma si fece subito notare per il suo stile aggressivo e violento. I fascisti
furono protagonisti del primo grave episodio di guerra civile dell’Italia postbellica: lo scontro
avvenuto a Milano e conclusosi con l’incendio dell’Avanti!. Le prime elezioni politiche del
dopoguerra del 1919 mostrarono la gravità delle fratture che attraversavano la società e il sistema
politico. I gruppi liberal-democratici persero la maggioranza assoluta. I socialisti ottennero un
successo clamoroso. Il Partito popolare italiano si affermava come una novità.
Il ministro Nitti sopravvisse fino al 1920, quando a costituire un nuovo governo ritorna Giolitti.
Questi era rientrato nella scena politica alla viglia delle elezioni con un programma molto
avanzato, in cui si proponeva la nominatività dei titoli azionari. Le preoccupazioni che questo
programma suscitava negli ambienti conservatori passarono in secondo piano. Giolitti diede prova
di abilità ed energia. I risultati più importanti li abbiamo in politica estera, avviando un negoziato
con la Jugoslavia. Firma infatti il trattato di Rapallo che prevedeva che la Jugoslavia ottenesse la
Dalmazia, mentre l’Italia riconfermò Trieste, Gorizia e Istria. La città di Fiume fu ritenuta libera:
sarà proprio in questo periodo che, il giorno di Natale del 1920, le truppe regolari attaccarono la
città. Diverso il discorso in politica interna. Il governo impose la liberazione del prezzo del pane e
avviò un risanamento del bilancio statale. Giolitti però non ebbe molti consensi dai popolari e dai
socialisti. I conflitti sociali del biennio rosso italiano conobbe l’episodio più drammatico nel 1920
con l’agitazione degli operai metalmeccanici che occupano le fabbriche. Fu la Federazione italiana
operai metallurgici a dare inizio alla vertenza, presentando una serie di richieste economiche e
normative, che gli industriali rifiutarono. La FIOM ordinò ai lavoratori di occupare le fabbriche ad
agosto. 400 mila operai occuparono gli stabilimenti metallurgici e meccanici del Nord, issando le
bandiere rosse sui tetti delle officine (guardie rosse). Molti intesero questi eventi come moti
rivoluzionari. Prevalse la linea della CGL, che intendevano riportare la vertenza nei binari di una
lotta sindacale. Giolitti infatti fu neutrale, resistendo alle pressioni del padronato per un intervento
della forza pubblica contro le fabbriche occupate. Alla fine si giunse ad un accordo e dunque gli
operai uscirono vincitori. Si diffuse anche un senso di delusione rispetto alle attese maturate con
l’occupazione. Le polemiche interne al movimento operaio si intrecciarono con le fratture
provocate dal II congresso della Terza Internazionale. Al congresso del Partito socialista italiano la
minoranza di sinistra di Bordinga dovette abbandonare il partito e ne fondarono uno loro: il Partito
comunista d’Italia. Il partito nasceva con una certa influenza leninista. Il movimento operaio
cominciò ad accusare i colpi della crisi che stava investendo l’economia italiana. In questo quadro
si inserì lo sviluppo del movimento fascista.
Il fascismo aveva svolto, inizialmente, un ruolo marginale nella politica italiana. Il movimento però
subisce un rapido processo d mutazione che lo portò ad accantonare l’originario programma
radical-democratico, a organizzare le squadre d’azione e a condurre una lotta contro il movimento
socialista. Le leghe di molte province avevano creato un sistema che sembrava intoccabile
attraverso i loro uffici di collocamento, controllavano il mercato del lavoro. I socialisti disponevano
di una fitta di una fitta rete di cooperative e avevano buona parte delle amministrazioni comunali.
Fu l’offensiva fascista ad aprire le prime brecce nell’edificio delle organizzazioni rosse. Il 21
novembre 1920 a Bologna gli squadristi si mobilitarono per impedire la cerimonia d’insediamento
della nuova amministrazione comunale socialista. Vi furono scontri e sparatorie. Per un tragico
errore i socialisti incaricarono di difendere Palazzo d’Accursio gettando bombe sulla folla,
composta dai loro stessi sostenitori. Da ciò i fascisti trassero pretesto per scatenare una serie di
ritorsioni antisocialiste in tutta la provincia. Episodi analoghi si verificarono a Ferrara. In entrambi i
casi i socialisti furono colti di sorpresa. I proprietari terrieri scoprirono nei Fasci lo strumento
capace di abbattere il potere delle leghe. Il movimento fascista vide affluire nelle sue file nuove
reclute, come ex reduci di guerra. Il fenomeno dello squadrismo dilagò ovunque, fatta eccezione
per il Mezzogiorno dove erano più restii. Il successo dell’offensiva fascista sicuramente lo si deve
agli errori dei socialisti, ma non è l’unica motivazione. Il movimento operaio si trovò a combattere
una lotta impari contro un nemico che poteva giovarsi della neutralità di buona parte della classe
dirigente e degli apparati statali. Giolitti pensava di servirsi del movimento fascista per poterlo
assorbire nella maggioranza liberale.
Nelle elezioni del 1921 il disegno di Giolitti si concretizzò con l’ingresso dei fascisti nelle liste di
coalizione. I fascisti ottenevano una legittimazione da parte della classe dirigente. La campagna
elettorale fornì loro lo spunto per intensificare violenze contro gli avversari. I risultati delle urne
delusero chi aveva volito le elezioni: alla fine 35 deputati fascisti riuscirono ad accedere in
Parlamento, capeggiati da Mussolini. L’esito delle elezioni di maggio mise fine all’ultimo governo
Giolitti. Il suo successore, Bonomi, tentò di far uscire il paese dalla guerra civile favorendo una
tregua d’armi fra le due parti in lotta. Fu firmato un patto di pacificazione tra socialisti e fascisti
con cui le parti si impegnavano a rinunciare alla violenza e a sciogliere le loro formazioni degli
Arditi del popolo, gruppi di militanti che si erano formati in alcune città per contrastare lo
squadrismo fascista. I ras sabotarono il patto e giunsero a mettere in discussione l’autorità di
Mussolini. La ricomposizione si ebbe al congresso dei Fasci tenutosi a Roma. I ras riconobbero
l’autorità di Mussolini e accettarono la trasformazione del movimento fascista in un partito.
Nasceva il Partito nazionale fascista. Il ministro Bonomi cadde nel 1922. Subentra Facta, un
giolittiano. Il governo non mise freno alla violenza fascista che si rese protagonista di operazioni
clamorose. In un congresso tenutosi a Roma, i riformisti guidati da Turati fondano il nuovo Partito
socialista unitario. Il fascismo doveva porsi il problema della conquista dello Stato. In questa fase
Mussolini giocò su due tavoli: da un lato intrecciò trattative con i più autorevoli esponenti liberali
in vista della partecipazione fascista a un nuovo governo, guadagnandosi il favore degli industriali;
dall’altro preparava le squadre d’azione per la presa del potere tramite un colpo di Stato. Prese
dunque al via il progetto della marcia su Roma, dunque una mobilitazione generale di tutte le forze
fasciste, con scopo la conquista del potere centrale. Un piano del genere non avrebbe avuto
alcuna possibilità di successo se avesse incontrato una resistenza dell’esercito regolare. Vittorio
Emanuele III, per paura di una guerra civile, rifiutò di firmare il decreto per la proclamazione dello
stato d’assedio. Il rifiuto del re aprì alle camicie nere la strada per la capitale: Mussolini, però,
chiese anche di essere chiamato lui stesso a presiedere il governo. Mussolini, dunque, fu ricevuto
dal re e la sera stessa il nuovo ministero era già pronto. La crisi era risolta. I fascisti avevano
trionfato. I moderati pensavano che la legalità costituzionale fosse stata rispettata. Il paese nel suo
complesso seguì gli eventi con indifferenza e rassegnazione.
Mussolini non disponeva di una maggioranza alla Camera, ma riuscì a consolidare il suo potere
grazie al sostegno delle forze moderate, liberali e cattoliche. Fu istituito il Gran Consiglio del
fascismo. Che aveva il compito di indicare le linee generali della politica fascista e di servire da
raccordo fra partito e governo. Le squadre fasciste vennero inquadrate nella Milizia per la
sicurezza nazionale: un corpo armato di partito che aveva come scopo quello di disciplinare lo
squadrismo e limitare il potere dei ras. Le vittime principali della Milizia furono i comunisti. Le
conseguenze di queste azioni combinata su quel che restava delle organizzazioni del movimento
operaio furono disastrose. Fu alleggerito il carico fiscale sulle imprese, privatizzato il servizio
telefonico e contenuta la spesa statale con un energico sfoltimento dei dipendenti pubblici. La
politica liberista ottenne discreti successi, con un aumento della produzione e il bilancio dello
Stato tornò in pareggio. Un sostegno decisivo Mussolini lo ricevette dalla Chiesa in cui stavano
riprendendo il sopravvento le forze più conservatrici. Mussolini si mostrò disposto a importanti
concessioni. La riforma scolastica varata da Gentile prevedeva l’insegnamento della religione nelle
scuole elementari e l’introduzione di un esame al termine di ogni ciclo di studi. Mussolini aveva il
problema di crearsi una sua maggioranza parlamentare, affermando la posizione di preminenza
del fascismo. La legge Acerbo avvantaggiava la lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa,
assegnandole due terzi dei seggi. Quando la Camera fu sciolta, molti esponenti liberali e cattolici
conservatori accettarono di candidarsi assieme ai fascisti nelle liste nazionali. Le forze antifasciste
erano divise: i socialisti, comunisti, popolari e liberali guidati da Amendola presentavano delle
proprie liste. La scontata vittoria fascista nelle elezioni del 1924 assunse proporzioni clamorose. Il
successo fu massiccio soprattutto nel mezzogiorno e nelle isole. Poco dopo le elezioni, un evento
tragico intervenne a mutare lo scenario. Il 10 giugno 1924 il deputato Giacomo Matteotti fu rapito
a Roma da un gruppo di squadristi e fu ucciso a pugnalate. Il suo cadavere verrà ritrovato solo due
mesi dopo l’omicidio. Dieci giorni prima di essere ucciso, Matteotti aveva pronunciato alla Camera
una requisitoria contro i fascisti, denunciandone le violenze e contestando i risultati dei voti. Il
paese capì che il delitto era il risultato di una pratica consolidata di violenze e di impunità, di cui
Mussolini e i suoi seguaci portavano la responsabilità. Il fascismo si trovò isolato. L’unica iniziativa
presa dai gruppi antifascisti fu quella di astenersi dai dibattiti nelle aule parlamentari. La
secessione dell’Aventino aveva un significato ideale, ma era di per sé priva di qualsiasi efficacia
pratica. I partiti aventiniani si limitarono ad agitare una questione morale, sperando in un
intervento del re, che però non ci fu. Nel giro di pochi mesi l’ondata antifascista rifluì. Mussolini
tenne un discorso, il 3 giugno 1925, dove si assunse la responsabilità politica, morale e storica
dell’accaduto, minacciando la forza contro le forze antifasciste. Ci furono infatti una raffica di
arresti e sequestri nei giorni successivi. La crisi Matteotti, dunque, aveva determinato la disfatta
dei partiti democratici e accelerato il passaggio ad una dittatura. La scelta era tra fascismo e
antifascismo, tra dittatura e libertà.
Giunse a compimento il processo di fascistizzazione dello Stato. Gli organi di stampa dei partiti
antifascisti furono messi nell’impossibilità di funzionare. I quotidiani furono fascistizzati tramite
processi che prevedevano il licenziamento dei direttori antifascisti. Il fascismo procedette alla
formulazione di nuove leggi destinate a stravolgere i connotati dello Stato liberale. La prima legge
costituzionale del regime fu quella che rafforzava i poteri del capo del governo. Seguì una riforma
delle amministrazioni locali che aboliva l’elettività dei sindacati e dei consigli comunali. Nel 1926,
dopo un tentato omicidio a Mussolini fallito, furono sciolti tutti i partiti antifascisti e soppresse
tutte le pubblicazioni contrarie al regime, istituendo anche un Tribunale speciale. La costruzione
del regime viene ultimata nel 1928 con due provvedimenti: la nuova legge elettorale che
introduceva il sistema della lista unica e lasciava agli elettori solo la scelta se approvarla o
respingerla; e la costituzionalizzazione del Gran Consiglio che diventò un organo dello Stato. Le
leggi fascistissime del 1926 avevano messo fine allo Stato liberale nato con l’Unita d’Italia e
avevano dato al via a un nuovo regime.
Il successo del fascismo in Italia non fu un caso isolato. Regimi autoritari sostenuti dall’esercito e
dai gruppi conservatori, e pivi di una base di massa, si affermarono in Ungheria e in Polonia. In
Spagna fu attuato un colpo di stato con l’appoggio del sovrano, mentre in Portogallo un
economista cattolico assunse la guida di un regime autoritario, clericale e corporativo che sarebbe
rimasto in vita per quasi mezzo secolo.
CAPITOLO 13
Durante gli anni Venti si ebbe negli Stati Uniti d’America un grande sviluppo economico che ha
fatto parlare di questo periodo come dei ruggenti anni Venti. Ruggenti nel senso che furono anni
caratterizzati da un’intensa ed euforica ricerca di successo e di emozioni. Simboli di questi anni
erano lo sviluppo dell’aviazione, del cinema e del jazz. I fattori che spiegano lo sviluppo degli anni
Venti li possiamo ricollegare al fatto che si ebbe un grande sviluppo industriale dovuto
all’allargamento dei consumi grazie alla diffusione della produzione in serie e ai nuovi stili di
vendita. Beni durevoli, come le automobili Ford, si diffusero in questo periodo. Si ebbe un intenso
sviluppo agricolo e la crescita delle esportazioni agricole dovuti al fatto che durante la Guerra,
l’Europa impegnata nel conflitto non poteva produrre per il proprio fabbisogno e allora ricorreva
alle importazioni. Gli USA furono tra i più importanti fornitori per l’Europa in guerra. Si ebbe anche
un aumento delle transazioni bancarie e vennero erogati prestiti agli agricoltori per l’acquisto di
nuovi terreni e per la meccanizzazione dell’agricoltura. Nelle grandi pianure vaste porzioni di
territorio prima non coltivate vennero convertite all’agricoltura. Il grande sviluppo economico creò
un diffuso ottimismo che si concretizzò nello sviluppo degli investimenti in borsa. Durante gli anni
Venti, gli azionisti aumentarono: tutti investivano in borsa i propri risparmi. Tutto questo
benessere e questo sviluppo ebbero come corrispettivo una politica di chiusura degli USA agli altri
Paesi. Dopo la guerra, infatti, gli USA erano diventati la prima potenza mondiale. Rifiutavano ogni
coinvolgimento nelle relazioni internazionali per paura di essere nuovamente coinvolti in altre
guerre europee: i repubblicani vinsero le elezioni e perseguirono una politica di isolazionismo. Dal
punto di vista economico si diffuse una politica di chiusura e di protezionismo. La volontà di
difendere il benessere raggiunto portò all’intolleranza verso il diverso: si accentuò il fenomeno
della xenofobia; la società segreta del Ku Klux Klan infierì contro afroamericani, cattolici, socialisti e
comunisti; si diffuse il proibizionismo, dunque il divieto di produrre, trasportare e vendere
bevande alcoliche, ma questo generò il commercio illegale.
La grande fase di sviluppo attraversata dagli USA durante i ruggenti Anni Venti si interruppe nel
1929, quando il crollo della Borsa di Wall Street segnò l’inizio della Grande Depressione che
interesserà l’America durante gli anni Trenta. La caduta della Borsa fu il segnale dell’arresto dello
sviluppo e della fiducia degli investitori. Molti fattori possono essere chiamati in causa, ma furono
due i più importanti: l’arresto delle esportazioni agricole verso l’Europa e la saturazione del
mercato con i beni di consumo durevoli che restavano invenduti. La ripresa dell’Europa nel
dopoguerra creò difficoltà agli agricoltori americani i cui prodotti rimanevano invenduti. Da una
parte gli agricoltori fallivano; dall’altra anche le banche entravano in crisi perché gli agricoltori non
potevano più pagare i loro debiti. La meccanizzazione dell’agricoltura fu a sua volta un altro fattore
all’origine della crisi perché aveva creato disoccupazione e disagi per i braccianti. Per avere nuovi
terreni da sfruttare, era accaduto che l’agricoltura si era sviluppata anche in zone non adatte, dove
si erano prodotti notevoli squilibri ambientali il cui aspetto più evidente era la desertificazione di
queste zone. Ciò fece aggravare la siccità che colpiva le pianure centrali americane. La depressione
economica investì anche il settore dei consumi di beni durevoli. Crollò il valore delle azioni e perciò
crollo la Borsa di New York martedì 29 ottobre 1929 (Black Tuesday).
Il crollo di Wall Street segna l’inizio della Grande depressione che interesserà il paese per tutti gli
anni Trenta. Questo causerà: crollo del valore delle azioni; il fallimento delle banche; il fallimento
delle industrie; forte livelli di disoccupazione; si verificarono migrazioni di contadini; l’America
decide di imboccare la strada dell’isolamento inasprendo il protezionismo, determinando una
reazione analoga da parte degli altri Paesi, che aggravò la crisi; lo Stato non intervenne per salvare
le banche o con altre misure atte a contenere la crisi. Alla presidenza c’era Hoover che contribuì ad
aggravare la crisi.
La crisi economica americana, si ripercosse in tutti i Paesi che avevano stretti rapporti economici e
finanziari con gli USA, dall’America Latina alla Gran Bretagna, all’Austria e alla Germania e anche in
Francia e in Italia. Ovunque si registrò un calo della produzione seguito dalla diminuzione dei
prezzi, crolli della borsa, fallimenti e chiusura di industrie e banche e aumento della
disoccupazione. In particolare in Gran Bretagna si abbandonò la convertibilità in oro della sterlina.
La risposta alla Grande depressione venne dal nuovo presidente americano, Roosevelt che varò un
programma di riforme economiche che avevano il compito di risolvere la crisi. Tale programma
prese il nome di New Deal. Il programma di riforme elaborato dal presidente si ispirava alle teorie
economiche del celebre economista britannico Keynes, che metteva in discussione una legge
chiave del sistema capitalistico. Il mercato non si armonizza e lo Stato ha il diritto e il dovere di
intervenire. Il risparmio può essere nocivo per un’economia in recessione mentre è la spesa
pubblica che può risollevare l’economia creando posti di lavoro e opportunità di sviluppo
aumentando il debito pubblico. Tutto ciò è espresso anche dal paradosso delle buche, ovvero in
tempi di crisi è lo Stato che deve intervenire nell’economia e fare di tutto per creare occupazioni:
in questo modo i lavoratori avrebbero avuto un salario e potevano spenderlo in modo da favorire
l’economia. Il New Deal prevedeva: che venissero varate leggi che incoraggiavano la riduzione
delle eccedenze agricole; che venisse creata occupazione tramite programmi statali d’impiego con
i sindacati e gli industriali; che venissero chiuse le banche pericolanti e tenute aperte quelle sane;
che venisse imposto un controllo sulla Borsa; che il dollaro venisse svalutato; che vennero
aumentate le imposte sui redditi più elevati; che venne attuata una politica di apertura e tutela
verso i lavoratori conferendo importanza ai sindacati; e che venisse introdotto un sistema di
previdenza sociale.
Il New Deal otterrà risultati cospicui, anche se non risolutivi, introducendo elementi di novità nella
società americana. Roosevelt venne però accusato di essere un socialista e trovò un nemico nella
Corte suprema che ostacolò il presidente in quanto riteneva che alcune leggi da lui promosse
vennero dichiarati incostituzionali. Comunque il New Deal contribuì a diminuire la disoccupazione;
si affermò il Welfare State, in quanto lo Stato si assunse il compito di tutelare i diritti sociali dei
cittadini; i sindacati furono considerati legittimi interlocutori del governo.
La produzione europea di veicoli a motore fece registrare progressi importanti. Cominciavano ad
apparire le prime vetture popolari. Un discorso analogo si può fare anche con gli elettrodomestici.
I più costosi continuavano ad essere considerati beni di lusso, ma il loro uso si andò estendendo.
Ma sempre in questo periodo si affermava sempre di più la radio. I primi dispositivi di trasmissione
del suono privo di fili lo dobbiamo a Marconi. La radio, dopo la fine della guerra mondiale, si
trasformò come mezzo di comunicazione e di svago destinati al pubblico. Le prime trasmissioni
regolari si ebbero negli Stati Uniti e furono organizzate da compagnie private che si finanziavano
con gli introiti pubblicitari. Nei maggiori paesi europei le trasmissioni si svilupparono a opera di
enti che operavano sotto il controllo statale, sul modello della britannica BBC, imponendo un
canone di abbonamento. La radio svolgeva anche il compito di informazione: i notiziari radiofonici
infatti erano molto più rapidi dei giornali e dei quotidiani e si potevano ascoltare in qualsiasi
momento con molta facilità. Si resero conto dell’importanza della radio anche alcuni uomini
politici, come Roosevelt, Hitler e Mussolini che decisero di affidare proprio alla radio i loro discorsi
più importanti. Al tempo stesso in questo periodo si affermò anche il cinema. Il cinema divenne
uno spettacolo completo, che costava molto meno rispetto ad una rappresentazione teatrale: il
film infatti poteva essere riproposto più volte tramite un nastro ad un costo basso. Il cinema
poteva essere anche un momento per imporre immagini e personaggi, che face nascere il divismo,
dunque quel rapporto di attrazione che lega il pubblico agli attori popolari. Inoltre si potevano
divulgare anche messaggi, ideologie e visioni del mondo. Lo sviluppo di comunicazione di massa
ebbe effetti rivoluzionari in tutti i settori dell’attività umana. Furono soprattutto i regimi autoritari
a sfruttare le possibilità insite nei mezzi di comunicazione. Radio, cinema e stampa illustrata
contribuivano a spettacolarizzare la competizione politica, valorizzandone gli aspetti più eclatanti.
Un gruppo di fisici di diversi paesi portò avanti gli studi e gli esperimenti sul nucleo dell’atomo
avviato all’inizio del 900. Si trattava di ricerche teoriche che assunsero una risonanza anche al di
fuori degli studi scientifici quando si scoprì che dalla scissione di un nucleo atomico di materiale
radioattivo era possibile liberare enormi quantità di energia. Durante la seconda guerra mondiale
una equipe di scienziati guidati da Fermi realizzò il primo reattore nucleare inducendo gli
schieramenti in una lotta verso la costruzione della nuova bomba. Sempre in questo periodo si
sviluppava sempre di più l’aviazione civile: infatti in questo periodo si verificò per la prima volta un
volo aereo senza scalo da New York a Parigi. L’aviazione civile dunque conobbe un incremento
decisivo, anche se solo per le categorie privilegiate. Altro sviluppo riguardava l’aeronautica
militare: tutte le grandi e medie potenze intensificarono la costruzione di aerei militari.
Si accentuarono i fenomeni di disgregazione e di perdita dell’unità. Le maggiori scuole di pensiero
dopo la guerra avevano interessi distanti fra loro e precedettero senza influenzarsi in modo
significativo. Un altro elemento di crisi e di disgregazione della cultura europea di questi anni fu
rappresentato dalle divisioni politico-ideologiche. Letterati e artisti furono coinvolti nelle grandi
contrapposizioni fra liberalismo borghese e comunismo marxista, tra fascismo e democrazia. La
cultura europea subì anche i modo diretto e drammatico e le conseguenze dell’avvento dei regimi
totalitari. Se la dittatura staliniana provocò la scomparsa fisica di una parte non trascurabile
dell’intellettualità russa, il nazismo costrinse all’esilio di numerosi intellettuali. La cultura e la
scienza europee subirono così un’emorragia di grandi proporzioni: la cosiddetta fuga di cervelli.

CAPITOLO 14
Regimi autoritari si erano affermati in molti stati dell’Europa mediterranea. Questi regimi erano
stati visti come un prodotto dell’arretratezza economica e politica e dell’insufficiente radicamento
dei principi liberal democratici. In ampi strati dell’opinione pubblica si era diffusa la convinzione
che i sistemi democratici fossero troppo deboli per tutelare gli interessi nazionali e troppo
inefficienti per garantire il benessere dei cittadini, che la vera alternativa fosse il comunismo
sovietico e i regimi autoritari di destra. Caratteristica fondamentale dei movimenti e dei regimi che
chiamiamo fascisti era il tentativo di proporsi come artefici di una propria rivoluzione, di dar vita a
un nuovo ordine politico e sociale, diverso da quelli conosciuti fino a quel momento. Fascismo
significava accentramento del potere nelle mani di un capo. Il fascismo si vantava di aver
introdotto una terza via fra capitalismo e comunismo. Il fascismo e i regimi ad esso affini
esercitarono una notevole attrazione, soprattutto tre i ceti intermedi. Questo rappresentava una
sorta di protezione contro il senso di schiacciamento e di anonimato provocato dai processi di
massificazione: dunque una reazione contro la società di massa e un’esaltazione di alcuni suoi
aspetti. Il fascismo seppe capire la società di massa, interpretandone le componenti aggressive. Fu
di tutti quei regimi che si condizionava la società e dunque la mentalità dei cittadini: pertanto
vengono definiti totalitari.
Un elemento caratterizzante dei regimi autoritari fu la scarsa considerazione del valore della vita
umana e della dignità dell’individuo, praticando invece la forza. Si era andato a creare un senso
comune che vedeva nella comunità nazionale un’entità collettiva, un organismo unico la cui
integrità andava tutelata a ogni costo. In questo quadro si spiega la rinnovata fortuna
dell’eugenetica, una teoria che sosteneva la necessità di un perfezionamento non spontaneo della
specie umana tramite pratiche simili a quelle adottate per animali e piante, come sezioni e incroci
volti a far prevalere i caratteri positivi su quelli negativi. Il passaggio da queste esperienze a una
diffusa pratica di eliminazione fisica dei soggetti ritenuti estranei alla comunità si ebbe nei regimi
totalitari. Questo si verifica anche in Germania, e in un qualche modo anticipava lo sterminio
razziale della seconda guerra mondiale. Alla base di questi orrori c’era un’idea di fondo: quella di
una comunità omogenea e compatta, capace di espellere ogni elemento di diversità.
Nel 1923 Hitler finì in prigione per aver tentato di organizzare un colpo di Stato: a quel tempo era
ancora semisconosciuto, ma in circa 10 anni Hitler riceveva l’incarico di formare il governo. Il
partito nazionalsocialista rimase un gruppo marginale, che fondava la sua forza su
un’organizzazione armata. Hitler aveva cercato di dare al partito un volto più rispettabile. Il suo
progetti vengono messi per iscritto su un libri che scrisse nel periodo in carcere. Hitler era convinto
nell’esistenza di una razza superiore e conquistatrice, quella ariana, inquinata dalla commistione
con le razze inferiori. I caratteri dell’arianesimo si erano conservati nel popolo tedesco che
avrebbe dunque dominato l’Europa. Per realizzare il suo sogno era necessario schiacciare i nemici
interni: primi fra tutti gli ebrei considerati popolo senza patria: solo così i tedeschi potevano essere
davvero un popolo superiore. Questo programma aveva trovato scarsi consensi nella Germania di
Weimar. Nelle elezioni del 1928 i nazisti ottennero pochissimi voti. Con lo scoppio della crisi, la
maggioranza dei tedeschi perse la fiducia nella Repubblica. In questa situazione i nazisti poterono
uscire da loro isolamento e far leva sulla paura della grande borghesia e sulla rabbia dei
disoccupati. L’agonia della Repubblica di Weimar cominciò quando il cancelliere Bruning convocò
nuove elezioni. Accade che i nazisti ebbero un incremento a spese della destra tradizionale.
L’aspetto più grave dei risultati stava nel fatto che i partiti fedeli alla Repubblica non disponevano
più della maggioranza. Il ministero continuò a governare per altri due anni, ma le istituzioni
parlamentari si indebolirono. Nel 1932 la crisi raggiunse il suo apice. La produzione industriale calò
di molto e anche i disoccupati. Le città divennero teatro di scontro tra nazisti e comunisti. Per
sbarrare la strada a Hitler, i partiti democratici decisero di appoggiare Hindenburg, il quale cedette
alle pressioni dei militari e della grande industria. A guidare il governo furono chiamati due uomini
della destra conservatrice, ma entrambi i tentativi si rivelarono fallimentari. Nel 1933 Hitler fu
convocato dal presidente della Repubblica e accettò di capeggiare un governo in cui i nazisti
avevano solo tre ministri e in cui erano rappresentate le componenti di destra: in questo modo
pensavano di poter controllare Hitler.
A Hitler bastarono pochi mesi per imporre un regime totalitario. L’occasione per una prima stretta
repressiva fu offerta da un episodio drammatico: l’incendio appiccato alla sede del Parlamento
nazionale. L’arresto di un comunista olandese fornì al governo il pretesto per un’imponente
operazione di polizia contro i comunisti e per una serie di misure che limitavano la libertà di
stampa. Nelle elezioni i nazisti ottennero voti sufficienti per assicurarsi una base parlamentare.
Hitler puntava all’abolizione del Parlamento. Gli vennero conferiti pieni poteri e decise di
modificare la Costituzione. Hitler poteva varare una legge che proclamava il Partito
nazionalsocialista unico partito in Germania. Di fronte a Hitler restavano due ostacoli: da una parte
l’ala estremista del nazismo, rappresentata dalle SA di Rohm; dall’altra parte la vecchia destra,
impersonata dai capi dell’esercito. Hitler, con la sua milizia personale SS, decise di risolvere il
problema con un massacro che fece inorridire il mondo civile. Siamo nel 1934 quando avviene
quella che viene definita come la notte dei lunghi coltelli, durante la quale reparti di SS
assassinarono Rohm con tutto lo stato maggiore delle SA. Hitler si trovò a cumulare dunque le
cariche di cancelliere e capo di Stato. Ciò significava l’obbligo per gli ufficiali di prestare
giuramento di fedeltà ai Hitler. Con la vittoria di Hitler in Germania, la crisi dei regimi e dei valori
democratici subì un’accelerazione. Crebbero i movimenti estremisti e antisemiti che si
richiamavano all’esempio del nazismo e su questa base contestavano gli stessi regimi autoritari dei
loro paesi.
Dunque nasceva il Terzo Reich, il terzo Impero. Il capo, Fuhrer, era la fonte suprema del diritto, la
guida del popolo e colui che sapeva esprimere le aspirazioni. Dalla comunità del popolo erano
esclusi gli elementi antinazionali, i cittadini stranieri e soprattutto gli ebrei. Proprio questi ultimi
vivevano soprattutto nelle grandi città e occupavano le zone medio-alte della società. Nei confronti
di questa minoranza inserita nella comunità nazionale, la propaganda nazista riuscì a risvegliare
quei sentimenti di ostilità che erano diffusi. La discriminazione fu sancita dalle leggi di Norimberga
che tolsero agli ebrei la nazionalità tedesca ma anche i diritti politici, proibendo anche i matrimoni
tra ebrei e non ebrei. Fu impedito di avere attività industriale e commerciale. Alla discriminazione
legale si accompagnava un’emarginazione dalla vita sociale che spinse molti ebrei ad abbandonare
la Germania. La persecuzione antisemita subì un’accelerazione quando i nazisti organizzarono un
pongrom in tutta la Germania. Facciamo riferimento alla notte dei cristalli, chiamata così per via
delle numerose vetrine di negozi di ebrei che vennero infrante dai dimostranti. Ma furono
distrutte sinagoghe, numerosi di ebrei vennero uccisi. La persecuzione antiebraica fu la
manifestazione più vistose della politica razziale nazista. Venivano attuate pratiche incompatibili
con i fondamenti dell’etica cristiana, che suscitarono reazioni di rivolta morale e di protesta:
reazioni che portarono alla sospensione di questi programmi. La macchina del regime nazista poté
funzionare senza incontrare ostacoli di rilievo e senza tante resistenze. L’opposizione comunista
riuscì a mantenere in piedi solo pochi nuclei clandestini. I cattolici finirono con l’adattarsi al regime
che stipulò un concordato col governo nazista, assicurandosi la libertà di culto e la non
interferenza dello Stato negli affari interno del clero. Solo papa Pio XI intervenne con un’enciclica
in tedesco che condannava le pratiche più pagane. Solo una minoranza di ministri del culto si
oppose alla nazificazione e fu perseguitata. Era presente anche un apparato repressivo e
terroristico, come diversi corpi di polizia che controllavano con ogni mezzo la vita pubblica e
privata dei cittadini, ma anche i campi di concentramento. Questi due aspetti possono spiegare la
debolezza del dissenso. Un importante fattore di consenso fu la ripresa economica. La produzione
industriale tornò in pochi anni ai livelli del 1928, dunque in questo periodo la disoccupazione
diminuì. Attraverso la stampa i discorsi del capo dello stato, i film di propaganda, il nazismo
propose ai tedeschi un’utopia reazionaria e ruralista. Questo ideale contrastava con la prassi
concreta del regime, ma si innestava su una solida tradizione culturale nazionale fondata sui miti
della terra e del sangue. Quello nazista fu il primo governo a istituire un ministero per la
Propaganda che divenne uno dei principali centri di potere del regime. La stampa fu sottoposta a
controllo e inglobata in un unico apparato alle dipendenze del ministero. Gli intellettuali furono
inquadrati in un’organizzazione nazionale e dovettero fare atto di adesione al regime. Il potere
nazista seppe usare le tecniche dello spettacolo. Tutti i momenti più significativi della vita del
regime furono scanditi da feste e cerimonie pubbliche, come sfilate militari ed esibizioni sportive.
Queste cerimonie-spettacolo erano preparate con estrema cura. Il cittadini trovava quei momenti
di socializzazione.
L’URSS, in tutto ciò, si rendeva protagonista di uno sforzo di industrializzazione. La decisione di
forzare i tempi dello sviluppo industriale e di porre fine all’esperienza della NEP fu accolta d Stalin.
L’idea dell’industrializzazione come presupposto della società socialista si univa alla convinzione
che solo un impulso all’industria pesante avrebbe potuto fare dell’URSS una grande potenza
militare. Il primo ostacolo alla costruzione di un’economia collettivizzata e industrializzata fu
individuato nel ceto dei contadini benestante, i kulaki, accusati di affamare le città. I kulaki furono
espropriati di terre, bestiame e mezzi di produzione e inquadrati a forza nelle fattorie collettive:
l’obiettivo era eliminare i kulaki come classe. Il gruppo dirigente comunista procedette sulla via
della collettivizzazione forzata, tutti coloro che venivano considerati come nemici del popolo. Agli
effetti della repressione si sommarono quelli di una carestia. Questa fu determinata da una serie di
fattori concomitanti. Gli effetti furono terribili in termini di costi umani, ma anche il bilancio
economico dell’operazione fu disastroso. In compenso l’eccesso di popolazione nelle campagne fu
ridotto e la grande maggioranza dei contadini fu inserita nelle fattorie collettive. Il vero scopo di
quella rivoluzione dall’alto era favorire l’industrializzazione del paese mediante lo spostamento di
risorse economiche e di energie umane. La produzione industriale dunque aumentò e anche il
numero dei lavoratori: vennero portati avanti i piani quinquennali. Questi risultati furono
consentiti da una concentrazione di risorse ma anche dal clima di entusiasmo ideologico e
patriottico che Stalin seppe suscitare nella classe operaia intorno agli obiettivi del piano e che
permise ai lavoratori dell’industria di sopportare sacrifici pesanti. Gli operai furono sottoposti a
una disciplina severissima ma furono anche stimolati con incentivi materiali. Celebre fu il caso di
un operaio che in una notte produsse molto più carbone di quello che di norma si produceva,
dando origine allo stachanovismo, movimento di esaltazione del lavoro.
Stalin finì con l’assumere in URSS un ruolo di capo assoluto. Ogni critica assumeva segni di
tradimento. Le stesse attività intellettuali dovevano ispirarsi alle direttive del capo e dei suoi
interpreti autorizzati. La letteratura, la musica e il cinema furono sottoposti a un regime di rigida
censura e costretti a svolgere una funzione propagandistico-pedagogica, cercando di mettere in
luce il ruolo di Stalin. Questi introdusse nella gestione di questo sistema elementi di spietatezza e
arbitrio, eliminando buona parte del gruppo dirigente comunista e tutti coloro che considerava
rivali, facendo sparire quadri di dirigenti del partito e cittadini sospetti di deviazionismo. La
macchina del terrore aveva cominciato a funzionare già durante i piani quinquennali. Nel 1934
l’assassinio di un comunista fornì il pretesto per un’ondata di arresti che colpirono gli stessi quadri
del partito. Iniziava la stagione delle grandi purghe, dunque dell’epurazione di massa che
colpivano dirigenti politici o categorie di cittadini, visti come traditori. Milioni di persone furono
deportate nei campi di lavoro disseminati nelle zoni inospitali chiamati inizialmente Lager e poi
Gulag. Peggiore fu la sorte di coloro che furono sottoposti a processi in cui gli imputati si
confessavano colpevoli di complotti tramati d’intesa con i sostenitori di Trotzij. Dunque furono
eliminati tutti gli antichi oppositori di Stalin ma anche collaboratori del dittatore. Lo stesso Trotzkij
fu ucciso in Messico da un sicario di Stalin. La repressione causò numerosissimi morti. Le grandi
purghe e i processi provocarono notevoli impressioni in Occidente. L’immagine di Stalin riuscì a
passare indenne attraverso il drammatico periodo delle persecuzioni di massa e il regime
comunista sovietico continuò a esercitare il suo fascino su molti lavoratori.
La prima importante decisione del governo nazista in politica estera fu il ritiro della delegazione
tedesca e dalla conferenza internazionale di Ginevra. Seguì anche il ritiro della Germania dalla
Società delle Nazioni. Queste decisioni allarmarono l’Europa. Anche l’Italia fascista dovette
preoccuparsi per le mire aggressive tedesche. Quando i nazisti cercarono di impadronirsi del
potere in Austria, Mussolini reagì facendo schierare quattro divisioni al confine italo-austriaco,
tanto che Hitler indietreggiò. Hitler reintrodusse in Germania la coscrizione obbligatoria e di fronte
a questa violazione, i rappresentanti si riunirono a Stresa per ribadire la validità dei trattati e per
riaffermare il loro interesse all’indipendenza dell’Austria. Mussolini intanto stava preparando
l’aggressione all’Impero etiopico, riavvicinandosi alla Germania. I successi di Hitler, nel frattempo,
indussero Stalin a intraprendere la strada della cooperazione internazionale: l’URSS infatti entrò
nella Società delle Nazioni, stipulando un’alleanza con la Francia. La nuova minaccia ora era il
fascismo. Ai partiti comunisti spettava il compito di riallacciare i rapporti anche con le forze
democratiche-borghesi, di favorire la nascita di larghe coalizione dette fronti popolari, allo scopo
di appoggiare i governi democratici decisi a combattere il fascismo. Questa linea, da una parte era
funzionale alla nuova politica estera dell’URSS, dall’altra fu il risultato di una pressione unitaria
della base operaia europea. Quando l’estrema Destra organizzò una marcia sul Parlamento per
impedire l’insediamento del governo presieduto da Daladier. La nuova linea unitaria ebbe effetto
di rinfrescare un movimento operaio depresso da una lunga serie di sconfitte e di far rinascere la
speranza che fosse possibile fronteggiare il fascismo con l’unità fra tutte le forze di sinistra. Questo
fece sì che l’avanzata italiana in Etiopia si arrestò. In Francia il netto successo elettorale delle
sinistre aprì la strada alla formazione di un governo composto da radicali e socialisti.
L’insediamento del primo governo a guida socialista in Francia fu accompagnato da grandi
manifestazioni di entusiasmo popolare. Gli operai dell’industria diedero vita a un’ondata di
scioperi e di occupazioni di fabbriche, strappando la firma degli accordi di Palazzo Matignon, che
prevedevano la riduzione della settimana lavorativa e la concessione di ferie pagate. Questi
accordi crearono notevoli difficoltà all’economia francese. Questo infatti innescò un processo
inflazionistico: costrinse i governi di fonte popolare a due successive svalutazioni del franco.
Dunque l’esperienza del Fronte popolare poteva considerarsi chiusa.
Nel frattempo la Spagna fu sconvolta da una guerra civile, un conflitto che si caricò di accesi
antagonismi ideologici, trasformandosi in uno scontro tra democrazia e fascismo. La Spagna aveva
attraversato un periodo di grave instabilità economica e sociale. Alle tensioni che vi erano in
Europa, si aggiunsero quelle specifiche di un paese arretrato e agricolo. Queste tensioni
condizionarono anche la vita politica della Spagna repubblicana. Le forze politiche del paese erano
divise ma accumunate da una concezione strumentale della democrazia. Quando le sinistre unite
in una coalizione di Fronte popolare si affermarono nelle elezioni politiche, le tensioni esplosero in
tutto il paese. Le masse proletarie vissero la vittoria come l’inizio di una rivoluzione sociale. I
gruppi di destra risposero con la violenza squadristica. Una guerra civile era già in corso quando un
gruppo di militari decise di ribellarsi al governo repubblicano. L’evento scatenante fu l’uccisione di
un monarchico-conservatore. A guidare la ribellione fu una giunta di cinque generali, ma il più
celebre fu Francisco Franco. I ribelli assunsero il controllo di gran parte della Spagna. Le prime fasi
erano favorevoli per i repubblicani che mantennero il controllo della capitale e le regioni più
ricche. In aiuto di Franco l’URSS, seppur aveva firmato insieme a Italia, Germania, Gran Bretagna e
Francia, aveva firmato un patto che prevedeva che non si aiutasse la Spagna. L’URSS favorì la
formazione di Brigate internazionali, ovvero reparti volontari composti da comunisti e antifascisti.
Mentre Franco si era definito duce, si guadagnavano l’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche,
dell’aristocrazia terriera e di buona parte della borghesia moderata. I repubblicani si scontravano
tra loro sull’organizzazione della società e sul modo stesso di combattere la guerra. Grave era il
contrasto tra anarchici e comunisti. Il contrasto assunse tratti drammatici quando a Barcellona gli
anarchici si scontrarono armi in pugno con comunisti e l’esercito regolare repubblicano. Le
divisioni nel fronte repubblicano contribuirono a far svanire quel clima di entusiasmo popolare che
aveva caratterizzato le prime fasi della resistenza antifranchista, facilitando le forza nazionaliste. La
sorte della guerra fu segnata quando i franchisti riuscirono a spezzare in due il territorio
controllato dai repubblicani. I nazionalisti nel 1939 sferrarono l’offensiva finale che si concluse con
la caduta di Madrid. Tre anni di guerra civile lasciarono nel paese numerose distruzioni e morti,
anticipando in qualche modo il conflitto mondiale.
Nel frattempo i piani hitleriani speravano di evitare uno scontro con la Gran Bretagna. In questa
speranza fu incoraggiato dalla linea seguita dai conservatori britannici quando la guida del governo
fu affidato a Chamberlain, sostenitore della politica dell’appeasement, della pacificazione. L’idea
della pacificazione riscosse notevole successo perché rispondeva a una tendenza diffusa nella
classe dirigente e nell’opinione pubblica inglese, incline al pacifismo. Quando la Francia fu
attraversata da una crisi morale che ne minò la capacità di reazione. In Francia la paura della
Germania era molto sentita. I francesi si chiedevano se valesse la pena rischiare un terribile
scontro armato per difendere la Russia comunista. La Francia si adattò a una politica timida e
oscillante e questo consentì alla Germania di cogliere una serie di successi senza l’uso di armi. Un
successo clamoroso Hitler lo ottenne con l’annessione dell’Austria al Reich tedesco. Questa volta
non ci fu nessuna opposizione per l’annessione dell’Austria. Ma Hitler metteva subito sul tappeto
una nuova rivendicazione: quella dei Sudeti. Anche in questo caso Hitler agì mobilitando i nazisti
locali e spingendoli a formulare richieste più pesanti al governo ceco. Hitler accettò la proposta di
un incontro fra i capi di governo delle grandi potenze europee, lanciata da Mussolini. Nell’incontro
che si svolse a Monaco, Chamberlain e Daladier accettarono un progetto presentato dall’Italia che
accoglieva le richieste tedesche e prevedeva l’annessione al Reich il territorio dei Sudeti: dunque i
cecoslovacchi dovettero solo accettare questa imposizione. Dunque Chamberlain, Daladier e
Mussolini furono accolti da manifestazioni di entusiasmo. Le potenze democratiche avevano
distrutto la loro stessa credibilità e avevano aperto la strada a nuove aggressioni.
CAPITOLO 15
Nel fascismo italiano l’apparato dello Stato ebbe una netta preponderanza sulla macchina del
partito. Mussolini si servì del tradizionale strumento dei prefetti. A controllare l’ordine pubblico e
a reprimere il dissenso provvedeva la Polizia di Stato, mentre la Milizia era un ausilio. In questo
periodo ci furono numerose organizzazioni giovanili come i Fasci giovanili e i gruppi universitari
fascisti, che fornivano agli iscritti un indottrinamento ideologico. Queste strutture svolsero una
funzione importante nella fascistizzazione del paese: attraverso queste organizzazioni di massa il
fascismo cercava di occupare anche la società. Il fascismo però trovava alcuni ostacoli e il
maggiore era rappresentato dalla Chiesa. Mussolini cercò un’intesa col Vaticano, cercando di porre
fine allo storico contrasto tra Stato e Chiesa. Le trattative fra governo e Santa Sede si conclusero
nel 1929 con la stipula dei Patti Lateranensi. Questi si articolavano in tre parti: un trattato
internazionale con cui la Santa Sede poneva fine alla questione romana riconoscendo lo Stato
italiano e la sua capitale; una convenzione finanziaria, con cui lo Stato si impegnava a
corrispondere alla Santa Sede una forte somma; infine un concordato che regolava i rapporti
interni fra la Chiesa e lo Stato, intaccando il carattere laico dello Stato. Inoltre i patti lateranensi
prevedeva soprattutto l’obbligo della religione nelle scuole. Per il regime fascista questi patti
rappresentavano un successo. Mussolini infatti consolidò il suo consenso e le estese anche a strati
di popolazione che erano rimasti indifferenti. Le prime elezioni plebiscitarie registrarono il 98% dei
voti favorevoli. La Chiesa intanto acquistò una posizione di privilegio nei rapporti con lo Stato,
anche in materie importanti come la legislazione matrimoniale e l’istruzione. L’unico contrasto
emerso dopo il concordato riguardò le organizzazioni di Azione cattolica che furono oggetto di
violenze squadristiche per aver difeso la loro autonomia organizzativa nel settore giovanile. Il
contrasto fu però superato: il Vaticano ribadì il carattere non politico di quelle organizzazioni. La
Chiesa rimaneva intatta la sua rete di associazioni e circoli. La Chiesa usò questi spazi per educare
ai suoi valori una parte non trascurabile della gioventù, per formare una classe dirigente capace di
prendere il posto quella fascista. Un altro limite stava al vertice delle istituzioni statali ed era
rappresentato dalla monarchia. Al re spettavano ancora le decisioni importanti e il comando
dell’esercito, ma si trattava di poteri teorici.
Gli anni del regime erano fortemente influenzati da Mussolini e della fase di fascistizzazione. Ma
per capire com’era la situazione in Italia, bisognerebbe avere una visione più oggettiva. L’Italia
infatti continuò a svilupparsi, ma in maniera lenta. L’arretratezza economica e civile della società
italiana fu per certi aspetti funzionale al regime e all’ideologia fascista. Il fascismo predicò il ritorno
alla campagna tentando di scoraggiare l’afflusso dei lavoratori verso i centri urbani. Il regime
difese ed esaltò la funzione del matrimonio e della famiglia. Inoltre cercò di incoraggiare
l’incremento della popolazione, aumentando i salari. Il regime però ostacolò il lavoro delle donne,
opponendosi all’emancipazione femminile. Al tempo stesso cercava di guardare verso il futuro,
verso la creazione di un uomo nuovo. Per la realizzazione di questa utopia il ritardo economico e
culturale era un problema. Ma era anche la scarsezza delle risorse che impediva al regime di
praticare una politica capace di acquistare consenso dalle classi lavoratrici. I maggiori successi il
regime li ottenne dalla media e piccola borghesia. I ceti medi furono favoriti dalle scelte
economiche del regime e si videro aprire nuovi canali di ascesa sociale degli apparati burocratici. Il
regime fu in grado di cambiare i comportamenti pubblici e le forme di partecipazione collettiva,
ma non a trasformare le mentalità e le strutture sociali.
Il fascismo dedicò un’attenzione particolare alla scuola: il regime si preoccupò di fascistizzare
l’istruzione con una stretta sorveglianza sugli insediamenti, sia attraverso il controllo dei libri
scolastici e l’imposizione di testi unici per le elementari. L’università godette di una maggiore
autonomia. Quando fu imposto a tutti i docenti il giuramento di fedeltà al regime, alcuni
rifiutarono di farlo, perdendo la cattedra. Gli ambienti dell’alta cultura si allinearono su una
posizione di adesione al regime. Tutto il settore della stampa politica fu sottoposto a un controllo
dal parte del potere centrale che interveniva con precise direttive sul merito degli articoli. La
sorveglianza della stampa veniva esercitata direttamente da Mussolini. Venivano controllate anche
le radio da un ente di stato detto Eiar (attuale Rai). La radio però ebbe una diffusione lenta. Anche
il cinema fu attenzionato dal regime, soprattutto per far sì che si bandisse nelle pellicole un
argomento politico e socialmente scabroso.
Il fascismo italiano ebbe l’ambizione di presentarsi come portatore di soluzioni nel campo
dell’economia. La formula fatta dal regime fu quella del corporativismo. In sostanza avrebbe
dovuto significare gestione diretta dell’economia diretta dell’economia da parte dell’economia da
parte delle categorie produttive, organizzate in corporazioni distinte per settori di attività. Le
istituzioni corporative avrebbero dovuto incarnare una terza via tra capitalismo e socialismo. Non
si realizzò appieno questo sistema. Il fascismo riuscì ugualmente a realizzare interventi importanti
nell’economia, ma non inventò alcun sistema nuovo. Il fascismo aveva adottato una linea liberista.
Questa politica aveva provocato un riaccendersi dell’inflazione, un crescente deficit negli scambi
con l’estero e un deterioramento del valore della lira. Venne inaugurato un nuovo corso di
protezionismo. Prima importante misura fu l’aumento del dazio sui cereali: una misura che si
inseriva in una tendenza volta a favorire la produzione cerealicola nazionale, accompagnata da
una campagna propagandistica detta battaglia del grano. L’obiettivo era il raggiungimento
dell’autosufficienza nella produzione dei cereali. Lo scopo fu raggiunto in buona parte,
aumentando la produzione di grano. La seconda battaglia fu quella della rivalutazione della lira. Il
duce infatti annunciò di voler riportare la moneta ai livelli precedenti al conflitto mondiale. I prezzi
diminuirono e la lira dunque aumentò il suo valore che aveva perduto. Molte piccole e medie
aziende agricole entrarono in crisi in quanto strozzate dal calo dei prezzi dei loro prodotti e della
restrizione del credito. Questo invece avvantaggiò le grandi industrie e favorì i processi di
concentrazione aziendale. Iniziarono a farsi sentire anche le conseguenze della crisi mondiale. Il
commercio con l’estero diminuì e le imprese industriali accusarono gravi difficoltà. La risposta del
regime si articolò in due punti: lo sviluppo dei lavori pubblici come strumento per rilanciare la
produzione e l’intervento dello Stato a sostegno dei settori in crisi. In questo periodo furono
realizzate anche nuove strade e nuovi edifici pubblici dove il regime poté appagare il suo gusto per
il monumentale. Fu avviato un programma di bonifica che avrebbe dovuto valorizzare terre
incolte. Fu nel settore dell’industria e del credito che l’intervento dello Stato assunse le forme più
incisive. Erano in difficoltà le grandi banche e, per evitare la loro crisi, il governo intervenne
creando un nuovo istituto di credito, col compito di sostituire le banche aiutando le industrie in
crisi. La vendita ai privati risultò impraticabile, diventando però un modo permanente. Lo Stato
italiano si trovò a controllare una quota dell’apparato industriale e bancario superiore agli altri
paesi: diventò dunque uno Stato imprenditore. Queste scelte si tradussero in una fascistizzazione
dell’economia: per gli interventi più importanti Mussolini si servì di tecnici. Alla fine del 1935
Mussolini decise di insistere con la politica autarchica e consistente nella ricerca di
un’autosufficienza economica. Dunque l’autarchia si tradusse in una stretta protezionistica, in un
incoraggiamento alla ricerca applicata. Alla fine l’autosufficienza fu un risultato inarrivabile e la
produzione industriale crebbe lentamente. Le spese militari invece sottrassero risorse agli
investimenti produttivi accentuando l’isolamento economico del paese. Per l’Italia iniziava una
lunga stagione di economia di guerra destinata a prolungarsi.
Le aspirazioni imperiali del fascismo rimasero vaghe e si tradussero in una contestazione
dell’assetto europeo. Con la conquista dell’Etiopia il duce intendeva dare uno sfogo alla vocazione
imperiale del fascismo, vendicando lo scacco subito dall’Italia. I governi francese e britannico
erano disposti ad assecondare le mire italiane, ma al tempo stesso non potevano accettare che
potesse essere vittima di un’aggressione. Le sanzioni ebbero un’efficacia limitata. Le decisioni
prese ebbero l’effetto di approfondire la frattura fra il regime fascista e le democrazie europee e
consentirono a Mussolini di montare un’imponente campagna propagandistica tesa a presentare
l’Italia come vittima di una congiura internazionale. Le piazze in questo periodo si riempirono di
folle inneggianti a Mussolini e alla guerra. L’impresa fu più difficile del previsto: gli etiopici si
abbatterono con accanimento sotto la guida si Selassiè. Ma il loro esercito era più debole rispetto
a quello degli italiani. Dunque nel maggio del 1936, l’esercito guidato da Badoglio riuscì a trionfare
e Mussolini fu in grado di consegnare la corona a Vittorio Emanuele III dell’Etiopia. Dal punto di
vista economico questa guerra fu costosa, visto che non l’Italia non fu supportata da nessuno, ma
fu gratificante per il prestigio. Il duce credeva di poter produrre una politica ambiziosa, sfruttando
ogni occasione per allargare l’area di influenza italiana. In questo piano riguardava anche
l’avvicinamento della Germania all’Italia, che si verificherà prima con l’Asse Roma-Berlino, ma che
verrà poi fortificato con il patto d’acciaio del 1939, che era un trattato che legava le sorti dell’Italia
a quelle della Germania.
Il fronte compatto dei consensi conobbe alcune incrinature. La politica di Mussolini si mostrava
avara di risultati immediati e faceva sembrare più vicina l’eventualità di una nuova guerra
europea. Il duce auspicava per l’Italia un avvenire di imprese militari e pensava che gli italiani
avrebbero dovuto anche rinnovarsi nel profondo, trasformandosi in un popolo di conquistatori e di
guerrieri. Il regime doveva diventare più totalitario e da qui scaturirono alcune modifiche: si
aboliva l’uso del lei ma anche i termini stranieri; fu anche usato e introdotto il passo romano. Ma
l’aspetto più drammatico fu l’introduzione di una serie di leggi razziali, discriminatorie nei
confronti degli ebrei: leggi che escludevano gli ebrei dagli uffici pubblici e vietando i matrimoni
misti. Mussolini si proponeva di inoculare nel popolo italiano il germe dell’orgoglio razziale e di
fornirgli un nuovo motivo di aggressività e di compattezza nazionale. Ma le leggi raziali furono
accolte con indifferenza e perplessità. Questo cambiamento di Mussolini fu accolto soprattutto dai
giovani che erano cresciuti ormai con un pensiero fascista: ma saranno proprio loro che, durante la
guerra mondiale, capiranno il fallimento di un regime che si dimostrò incapace di preparare la
guerra.
Ci furono molti antifascisti che dovettero pagare il loro pensiero con l’esilio, anche se molti altri
preferirono il silenzio. I liberali, infatti, potevano contare sulla presenza di Benedetto Croce. Il
filosofo poté proseguire la sua attività culturale e pubblicistica, evitando ogni esplicita presa di
posizione politica. Per coloro che intendevano opporsi attivamente alla dittatura avevano due
strade: l’esilio all’estero e l’agitazione clandestina in patria. A praticare quest’ultima strada furono
soprattutto i comunisti. Il Partito comunista riuscì ad alimentare dall’interno e dall’esterno una
rete clandestina, diffondendo opuscoli, giornali e volantini di propaganda. Anche gli altri gruppi
antifascisti cercarono di tenere in vita qualche isolato nucleo clandestino in Italia. Questi gruppi
antifascisti si federarono in un’organizzazione unitaria, la Concentrazione antifascista: i partiti
dunque svolsero un’attività importante a livello di testimonianza e di propaganda, fecero sentire la
voce dell’Italia antifascista nelle organizzazioni internazionali, proseguendo in esilio le elaborazioni
ideologiche e i dibattiti politici iniziati in patria. Un nuovo impulso all’azione concreta contro il
fascismo tramite il movimento di Giustizia e Libertà. Questo voleva essere un organismo di lotta,
capace di far concorrenza ai comunisti sul piano dell’attività clandestina, ma si proponeva anche
come nucleo di una formazione politica che sapesse coniugare gli ideali di libertà. Polemici erano i
comunisti, che avevano un centro estero con sede a Parigi, ma il vero centro dirigente era Mosca.
Le critiche alla linea ufficiale formulate in carcere da Terracini e Gramsci rimasero sconosciute ai
militanti. La svolta dei fronti popolari aprì anche per l’antifascismo italiano una fase nuova che
vedeva il partito comunista italiano riannodare i contatti con l’opposizione. Ma il fallimento del
Fronte popolare in Francia, le lotte interne allo schieramento repubblicano in Spagna, le grandi
purghe e la rottura fra l’URSS si ripercossero negativamente sull’unità del movimento antifascista.
Il movimento antifascista svolse un ruolo di grande importanza politica oltre che morale:
testimoniò l’esistenza di un’Italia che non si piegava alla dittatura.

CAPITOLO 16
La Grande Guerra influì in modo determinante sullo sviluppo dei movimenti indipendentisti in Asia
e in Africa: Gran Bretagna e Francia avevano usato uomini e mezzi delle loro colonie, facendo
scaturire nei popoli colonizzati la consapevolezza di nuovi diritti. Determinanti furono gli echi della
rivoluzione russa e la diffusione dell’ideologia wilsoniana, in particolare del principio di
autogoverno dei popoli. Il colosso dell’Impero ottomano suscitò in Turchia un movimento di
riscossa nazionale promosso dalle forze armate e guidato da Kemal. La Turchia ebbe riconosciuta
la sua sovranità su tutta l’Anatolia e si vide restituito quel lembo di territorio europeo che le
garantiva il controllo degli Stretti. Kemal proclamò la repubblica e avviò una politica di
modernizzazione e laicizzazione del paese. La Gran Bretagna e Francia cercarono di sfruttare la
crisi dell’Impero ottomano per imporre la loro egemonia sull’area meridionale prospettando una
spartizione in zone di influenza: Iraq e Palestina ai britannici e Siria e Libano ai francesi. La Gran
Bretagna cercò di mobilitare contro l’Impero ottomano il nascente nazionalismo arabo,
promettendo di favorire la costituzione di un nuovo regno indipendente. Questo impegno si
contrastava con il riconoscimento da parte britannica del diritto del popolo ebraico a fondare un
proprio Stato in Palestina. Si ponevano le premesse per un conflitto fra ebrei e palestinesi. La Gran
Bretagna fu tra le potenze coloniali che per prima comprese la necessità di dare maggiore
autonomia ad alcune sue colonie: l’Egitto venne trasformato in Regno autonomo e dopo ottenne
la piena indipendenza. I dominions bianchi furono riconosciuti come Stati indipendenti all’interno
del Commonwealth britannico. In India il governo inglese aveva promesso uno sviluppo di forme di
autogoverno, ma questa promesse ebbe un’attuazione lenta. La repressione d parte della Gran
Bretagna delle proteste del movimento indipendentista determinò la rottura tra colonizzatori e
colonizzati. Nel partito del Congresso nazionale indiano cresceva l’influenza politica e morale di
Gandhi. Quest’ultimo coniugò la battaglia, non violente, per l’indipendenza con quella per la
rottura del sistema delle caste, e acquistò in poco tempo una certa popolarità, facendo del
nazionalismo indiano un movimento di massa. La Cina fu teatro di una lunga guerra civile. Il
contrasto principale fu quello tra i nazionalisti e il governo centrale. Negli anni successivi si scatenò
una dura lotta tra i nazionalisti e i comunisti. Sconfitto il governo centrale, Chiang proseguì nella
sua lotta contro i comunisti. Numerosi comunisti si trasferirono nella regione settentrionale,
seguiti da altri numerosi dopo una lunga marcia. Alla fine nel 1937 comunisti e nazionalisti si
accordarono in funzione antigiapponese. In Giappone il dinamismo dell’economia e la struttura
della classe dirigente spinsero il paese verso una politica imperialista che ebbe come obiettivo la
Cina. Queste spinte si conciliarono col mantenimento di un quadro istituzionale di tipo liberale, ma
alla fine cominciò una stagione di autoritarismo.
L’attacco del Giappone alla Cina portò gli aggressori a occupare la capitale. L’avanzata proseguì
anche se lentamente: il Giappone occupava buona parte della zona costiera e città industrializzate:
nella capitale fu introdotto un governo-fantoccio.
Rispetto all’Africa del Nord e all’Asia il dominio coloniale era arrivato più tardi e non mostrava crisi.
Nacquero le prime organizzazioni autonome dei nativi e quattro congressi panafricani discussero i
problemi comuni e lanciarono proposte di federazione fra le colonie: in questo contesto emersero
nuove figure di intellettuali che avrebbero svolto un ruolo decisivo nelle lotte d’indipendenza del
proprio paese.
In America Latina la grande crisi ebbe conseguenze negative. Molti stati videro l’affermarsi di
dittature personali o di governi autoritari. In Argentina un colpo di Stato militare rovesciò le
istituzioni democratiche, mentre in Brasile una rivolta popolare contro le vecchie oligarchie portò
al potere Vargas, fondatore di un regime populista. Per populismo si intendeva un orientamento
politico e culturale che si fonda su una visione idealizzata e indifferenziata del popolo, visto come
depositario dei valori nazionali e come protagonista del processo di rinnovamento sociale.

CAPITOLO 17
Le democrazie occidentali si era illuse di aver placato la Germania con la cessione dei Sudeti. In
realtà Hitler aveva pronti i piani per l’occupazione della Boemia e della Moravia. L’operazione
scattò nel 1939. Mentre la Slovacchia si proclamava indipendente con l’appoggio dei tedeschi,
Hitler dava vita al protettorato di Boemia e Moravia, parte integrante del Grande Reich tedesco. La
distruzione dello Stato cecoslovacco determinò una svolta nell’atteggiamento delle potenze
occidentali. Gran Bretagna e Francia diedero vita a un’offensiva diplomatica di assistenza militare
con i paesi più minacciati dall’espansionismo tedesco: il più importante fu proprio la Polonia.
Mussolini decise di accettare le pressanti richieste tedesche di trasformare il vincolo dell’Asse
Roma-Berlino in un’alleanza militare, denominata patto d’acciaio. Il patto stabiliva che se una delle
due potenze si fosse trovata impegnata in un conflitto per una causa qualsiasi, l’altra sarebbe stata
obbligata a scendere in campo al suo fianco. La principale incognita era costituita
dall’atteggiamento dell’URSS. I sovietici sospettavano che gli occidentali mirassero a indirizzare su
di loro l’aggressività della Germania; gli occidentali attribuivano ai sovietici ambizioni egemoniche
sull’Europa dell’est. Dunque i sovietici cominciarono a prestare attenzione alle offerte di intesa che
stavano giungendo da Hitler. Si giunse infatti al patto Ribbentrop-Molotov, ovvero un patto di non
aggressione fra i due paesi. L’URSS otteneva in questo modo anche un riconoscimento delle sue
aspirazioni territoriali nei confronti degli stati baltici, della Romania e della Polonia. Hitler invece
era costretto a modificare la sua strategia, rinviando lo scontro con la Russia. Il 1 settembre 1939
le truppe tedesche attaccarono la Polonia. Gran Bretagna e Francia dunque dichiararono guerra
alla Germania, mentre l’Italia proclamò la sua non belligeranza.
Le prime settimane di guerra furono sufficienti alla Germania per sbarazzarsi della Polonia. Era
considerata guerra-lampo, una strategia che si basava sull’uso congiunto dell’aviazione e delle
forze corazzate. Le armate del Reich assediavano Varsavia che capitolò dopo poco. Nel mentre
l’URSS si impadroniva delle regioni orientali del paese. Tedeschi e sovietici imposero uno spietato
regime di occupazione: in questo periodo si consumò il massacro di numerosi ufficiali polacchi fatti
prigionieri, i cui corpi, gettati in fosse comuni, sarebbero stati scoperti dai tedeschi dopo diversi
anni. La Repubblica polacca cessava di esistere, senza l’aiuto degli alleati. In seguito la guerra in
Occidente sembrava ferma, congelata, dando così modo ai tedeschi di riorganizzare l’esercito. Il
teatro di guerra intanto si spostava nell’Europa del Nord. Fu infatti l’URSS a prendete iniziativa
attaccando la Finlandia. La campagna si rivelò più difficile del previsto dato che le forze finlandesi
resistettero per tre mesi, quando in seguito cedettero conservando però l’indipendenza. In seguito
la Germania attacca la Danimarca, che si arrese senza combattere, e la Norvegia. Hitler dunque
controllava gran parte dell’Europa, potendo così passare all’Occidente.
L’attacco tedesco alla Francia ebbe inizio nel 1940 e si risolse in poche settimane con un enorme
successo. A provocare la sconfitta furono gli errori dei suoi comandi, legati ad una concezione
statica della guerra. I tedeschi dunque iniziarono l’attacco violando la neutralità dello Stato
confinante. Questa volta furono invasi l’Olanda e il Lussemburgo. Le truppe tedesche dilagarono in
pianura e puntarono verso il canale della Manica, chiudendo i reparti francesi e belgi e la
spedizione britannica. Solo un arresto dell’offensiva consentì alle forze britanniche un reimbarco
nel porto di Dunkerque. Per i britannici la ritirata significava continuare la lotta, per i tedeschi la
sconfitta. I tedeschi entrano comunque a Parigi. Al governo c’era Petain che aprì le trattative per
un armistizio. Il generale lanciò da Londra un appello ai francesi per incitarli a continuare a
combattere al fianco degli alleati. L’armistizio fu firmato nel giugno del 1940 e stabilì la sua sede
cittadina a Vichy, ma comunque la Francia e Parigi restarono sotto l’occupazione tedesca. Il crollo
della Francia segna la fine della Terza Repubblica. Petain attribuiva le responsabilità della sconfitta
alla classe dirigente repubblicana. La rivoluzione nazionale da lui promossa si risolse in un ritorno
alle tradizioni dell’ancien regime. Il regime di Vichy vide restringersi i margini di autonomia e si
ridusse al rango dello Stato-satellite della Germania. La Gran Bretagna era rimasta sola a
combattere la Germania. Hitler ea disponibile a trattare, ma il presidente Churchill non era
favorevole. Sin d subito annunciava il suo programma fondato su tanti sacrifici. Hitler dunque dava
avvio all’operazione Leone marino per l’invasione della Gran Bretagna. Quella della Germania era
dunque la prima battaglia aerea. Per circa tre mesi l’aviazione tedesca effettuò incursioni in
territorio britannico. Gli attacchi però furono contrastati dalla Royal Air Force che si avvaleva di un
sistema di informazioni e di avvisamento radar. La battaglia d’Inghilterra aveva dato dimostrazione
delle potenzialità distruttive del mezzo aereo. La resistenza britannica aveva ottenuto un successo
determinante imponendo alla Germania la prima battuta d’arresto dall’inizio del conflitto.
L’inadempienza agli impegni del patto d’acciaio da parte dell’Italia era giustificata con
l’impreparazione per una guerra così lunga. Di fronte al crollo della Francia però, Mussolini
pensava che le sorti della guerra fossero già segnate. Dunque con il suo discorso il 10 giugno 1940
da Palazzo Venezia annuncia l’ingresso in guerra contro Francia e Gran Bretagna. L’offensiva
contro la Francia, però, si risolse con una sconfitta. Ma le cose non andarono diversamente in
Africa. Mussolini era convinto che l’Italia dovesse combattere una sua guerra, parallela, rifiutando
l’aiuto della Germania. L’esercito italiana attaccava la Grecia. Questa offensiva si scontrò con una
resistenza inattesa e alla fine i greci passarono al contrattacco. L’esito fallimentare provocò un
terremoto nei vertici militari e suscitò nel paese una sfiducia. I britannici intanto passarono al
contrattacco sul fronte libico e in poche settimane occuparono la Cirenaica infliggendo agli italiani
morti e feriti. Mussolini dunque chiese l’aiuto ai tedeschi che, meglio equipaggiati, riuscirono a
riconquistare il territorio perso. L’Africa orientale italiana, intanto, stava entrando nelle mani della
Gran Bretagna: questo fu un colpo durissimo per il prestigio italiano, rinunciando dunque al sogno
di una guerra parallela. Anche nei Balcani il fallimento delle iniziative italiane finì con l’aprire la
strada all’intervento delle forze tedesche. La Jugoslavia e la Grecia furono travolte, mentre i
britannici erano costretti a ritirarsi. L’Italia fu costretta a svolgere il ruolo di potenza occupante dei
Balcani, vedendosi assegnate parte della Slovenia, Croazia, Dalmazia e del territorio greco. Hitler
da questo momento puntava all’URSS.
Quando nel 1941 l’offensiva tedesca scattò su un fronte dal Baltico al Mar Nero, i sovietici furono
colti impreparati. In due settimane, le forze del Reich penetrarono in territorio sovietico.
L’offensiva continuò, ma l’attacco decisivo verso Mosca fu sferrato tardi, bloccato dal
sopraggiungere del maltempo. I sovietici dunque lanciavano la loro prima controffensiva,
allontanando la minaccia da Mosca. Hitler, nonostante aveva occupato territori importanti, era
costretto a tenere il suo esercito nelle pianure russe, alle prese con un inverno fin troppo freddo
per i tedeschi. Guidata da Stalin la guerra difensiva dei sovietici risultò più efficace del previsto. La
Germani dunque perse il suo vantaggio iniziale. Gli Stati Uniti, inoltre, avevano ribadito
inizialmente il non intervento negli affari europei, ma con Roosevelt si impegnarono a una politica
di sostegno economico alla Gran Bretagna. Fu approvata la legge degli affari e prestiti, che
consentiva la fornitura di materiale bellico a condizioni favorevoli a quegli Stati la cui difesa era
ritenuta importante per l’economia degli Stati Uniti stessi. Questa politica ebbe il suo suggello
ufficiale nell’incontro tra Roosevelt e Churchill avvenuto su una nave da guerra al largo dell’isola di
Terranova. Frutto dell’incontro fu la Carta atlantica: un documento in otto punti in cui si ribadiva la
condanna dei regimi fascisti e fissavano le linee di un nuovo ordine democratico da costruire a fine
guerra. A trascinare gli Stati Uniti nel conflitto fu l’aggressione improvvisa subita dal Giappone nel
Pacifico. Il Giappone aveva profittato del conflitto europeo per allargare le sue aspirazioni
espansionistiche a tutti i territori del Sud-est asiatico. L’aviazione giapponese attaccò la flotta degli
Stati Uniti ancorata a Pearl Harbor e le distrusse in buona parte. I giapponesi dunque raggiunsero
tutti gli obiettivi che si erano prefissati: controllarono le Filippine, la Malesia, la Birmania e
l’Indonesia olandese. Anche Germania e Italia dichiararono guerra agli Stati Uniti. Gli anglo-
americani e i sovietici si posero il problema di elaborare una strategia comune per battere le
potenze fasciste. Lo fecero nella conferenza che si tenne a Washington nella quale tutte le 26
nazioni in guerra contro Germania, Italia e Giappone sottoscrissero il patto delle Nazioni Unite: gli
alleati si impegnavano a tener fede ai principi della carta atlantica e a non stipulare con esse paci
separate.
Nel 1942 le potenze dell’Asse Roma-Berlino-Tokyo raggiunsero la loro massima espansione
territoriale. Il cuore pulsante del sistema era la Germania, la cui macchina bellica lavorava a pieno
ritmo, grazie anche al lavoro obbligatorio dei prigionieri di guerra e degli operai. Il Giappone si
appoggiò ai movimenti indipendentistici dei paesi soggetti al dominio coloniale e fece propria la
causa della lotta contro l’imperialismo europeo. I progetti di Hitler prevedevano solo la
subordinazione e lo sterminio. Un trattamento duro e inumano fu riservato ai popoli slavi,
considerati razzi inferiore e destinati a una condizione di semischiavitù. Il sistema di sfruttamento,
di terrore e di sterminio costruito dai tedeschi: una riserva di forza-lavoro gratuita, un flusso
continuo di materie prime e un prelievo di ricchezze. Episodi di resistenza all’occupazione nazista
si manifestarono già nella prima fase della guerra in tutti i paesi invasi dai tedeschi. Le file di
resistenza si ingrossarono dopo l’attacco tedesco all’URSS, che portò i comunisti a impegnarsi nella
lotta armata contro il nazismo. La collaborazione si rivelò impossibile nei paesi dell’Europa
orientale e balcanica dove più fondato era il timore che i partiti comunisti fungessero da
strumento per i piani egemonici dell’URSS. La resistenza al nazismo rappresentò una faccia della
realtà europea. Le forze di occupazione tedesche trovarono alleati nella lotta contro la Resistenza,
volontari pronti ad arruolarsi nelle loro file.
Ancora prima della guerra, Hitler aveva ribadito la necessità di liberare la Germania dalla presenza
degli ebrei. Prima i massacri indiscriminati nelle comunità ebraiche in Polonia rinchiusi nei ghetti
istituiti dai nazisti. Cominciò a essere praticata l’eliminazione fisica dei deportati. Cominciò infatti
l’operazione di sterminio e genocidio che sarebbe stata definita Shoah. Inizialmente furono reperti
speciali di SS a eseguire le fucilazioni di massa. Ma questa procedura richiedeva tempi lunghi.
Pertanto nel 1941 in Polonia erano state impiegate camera a gas mobili su autocarri. Intanto
stavano costruendo i primi campi di sterminio. Deportare milioni di ebrei costituiva un problema
organizzativo che si provò a risolvere in una riunione dei responsabili della politica antiebraica.
Sarebbero stati evacuati rastrellamenti in tutta Europa. Ad Auschwitz cominciarono a giungere i
deportati provenienti da tutta Europa: all’arrivo veniva fatta una selezione tra chi era abile per i
lavori e chi era più debole, che venivano subito portati nelle camere a gas e i corpi bruciati nei
forni crematori o seppelliti in fosse comuni. Qui le vittime furono circa 1,5 milioni. Alle vittime
ebree (in tutto meno di 6 milioni), si aggiungono anche gli zingari, rom, prigionieri. Questa
operazione di sterminio sottrasse truppe e risorse ai tedeschi. La condanna di questi orrori sarebbe
diventata un principio basilare della coscienza occidentale e avrebbe dato impulso allo sviluppo di
una giustizia pensale intenzionale incaricata di colpire i responsabili dei crimini contro l’umanità.
L’avanzata delle potenze dell’Asse si arrestò e la guerra subì una svolta decisiva su tutti i fronti. I
primi segni di un’inversione di tendenza si ebbero nel Pacifico, dove la spinta offensiva dei
giapponesi fu fermata dagli americani nelle due battaglie del Mar dei Coralli e delle Isole Midway:
le prime battaglie navali in cui le flotte si affrontarono senza vedersi bombardandosi con gli
apparecchi che decollavano dalle grandi navi portaerei. I giapponesi rinunciarono alle azioni
offensive. Gli Stati Uniti, dunque, iniziarono una riconquista delle posizioni perdute nel Pacifico. A
segnare la svolta furono le battaglie in Egitto e in Russia. Le truppe italo-tedesche erano arrivate
nei pressi di Alessandria, minacciando la presenza britannica in Egitto. Nei pressi della cittadina di
El Alamein, i due eserciti si affrontarono in una serie di scontri. Il generale britannico poteva
mandare la controffensiva disponendo di una superiorità: gli italo-tedeschi dunque furono
costretti alla ritirata. Ancora più decisivo fu lo scontro fra tedeschi e sovietici che ebbe per centro
la città industriale di Stalingrado. Le armate tedesche misero sotto assedio la città che avrebbe
aperto agli invasori la strada del bacino del Don e del Caucaso. Dopo mesi di combattimento i
sovietici contrattaccarono sui fianchi dello schieramento nemico e chiusero i tedeschi in una
morsa. Hitler ordinò la resistenza a oltranza, sacrificando l’armata che fu costretta ad arrendersi.
Stalingrado divenne un simbolo di riscossa. La controffensiva sovietica travolse anche il corpo di
spedizione italiano: le truppe italiane furono costrette a una tragica ritirata nell’inverno russo,
durante la metà dei loro uomini perse la vita. Frattanto un contingente anglo-americano era
sbarcato in Algeria e in Marocco, accerchiando le forze dell’Asse. Prevalse il punto di vista
britannico. Nella conferenza di Casablanca si decise che per prima sarebbe stata attaccata l’Italia e
inoltre gli anglo-americani si accordarono sul principio della resa incondizionata da imporre agli
avversari: la guerra sarebbe continuata fino alla vittoria totale.
La campagna militare contro l’Italia ebbe inizio nel 1943 con la conquista dell’isola di Pantelleria.
Poco dopo i primi contingenti anglo-americani sbarcavano in Sicilia e in poche settimane si
impadronirono dell’isola. La più grande battaglia di carri armati si ricollega all’Armata rossa che
iniziò un’inarrestabile avanzata. Queste vittorie consentirono all’Unione Sovietica di accrescere il
suo peso in seno alla grande alleanza antinazista. Il nuovo ruolo dell’URSS emerse nella conferenza
di Teheran: Stalin ottenne dagli anglo-americani l’impegno per uno sbarco in forze sulle coste
francesi. Si trattava di un’operazione rischiosa. Per attuare lo sbarco in Normandia furono
necessari un lungo periodo di preparazione. L’operazione Overlord scattò nel 1944, preparata da
una serie di massicci bombardamenti e da un lancio di paracadutisti. Gli attaccanti riuscirono a far
sbarcare in territorio francese oltre un milione e mezzo di uomini. Gli alleati, dopo mesi di
combattimento, sfondarono le difese tedesche e dilagarono nel Nord della Francia, riuscendo ad
entrare a Parigi già liberata dai partigiani.
Lo sbarco anglo-americano in Sicilia rappresentò il colpo di grazia per il regime fascista. In
generale, il fascismo aveva già subito una crisi, dovuta anche a delle proteste di operai. A
determinare la caduta di Mussolini fu la congiura che faceva capo al re e vedeva tutte le
componenti moderate del regime unite ad alcuni esponenti del mondo politico prefascista. Il
pretesto formale per l’intervento del re fu offerto da una riunione del Gran Consiglio del fascismo,
conclusasi con l’approvazione a larga maggioranza di un ordine del giorno presentato da Grandi.
Nel documento si invitava il sovrano a riassumere le sue funzioni di comandante supremo delle
forze armate. Mussolini fu convocato dal re, invitato a rassegnare le sue dimissioni e arrestato dai
carabinieri. Capo del governo fu nominato Badoglio. L’annuncio della caduta di Mussolini fu
accolto con esultanza. L’entusiasmo popolare era dovuto alla diffusa speranza di una prossima fine
della guerra. I tedeschi, intanto si affrettarono a rafforzare la loro presenza militare nella penisola
per prevenire la defezione dell’alleato. Il governo Badoglio intanto allacciò trattative segrete con
gli alleati per giungere a una pace separata. L’Italia firmò un armistizio, un atto di resa. L’annuncio
fu proclamato da Badoglio con un messaggio radiofonico. I tedeschi, dunque, cercarono di
occupare l’Italia. Ci fu uno scontro a Roma, dove militari e civili si scontrarono con i tedeschi, ma
alla fine molti furono fatti prigionieri e deportati in Germania. I tedeschi, invece, riuscirono a
bloccare l’offensiva alleata. Nel 1944 un contingente anglo-americano riuscì a sbarcare ad Anzio,
ma fu bloccato sulla costa della reazione tedesca. Protagonisti dell’azione decisiva furono i reparti
nordafricani che si resero responsabili di violenze d’ogni genere sulla popolazione civile.
L’Italia era sostanzialmente divisa in due: nelle regioni meridionali il vecchio Stato monarchico
sopravviveva col suo governo, esercitando la sovranità sotto il controllo degli alleati; nell’Italia
settentrionale il fascismo rinasceva sotto gli occupanti nazisti. Roma fu dichiarata città aperta,
dunque zona non di guerra, ma questo non impedì bombardamenti. I tedeschi liberarono
Mussolini dalla prigione e lo condussero in Germania. Il duce annunciò la nascita di un nuovo Stato
fascista, che avrebbe preso il nome di Repubblica sociale, con un nuovo partito fascista. Lo scopo
principale era punire i monarchici. Il nuove regime cercò di guadagnare consensi con un
programma di socializzazione delle imprese industriali, ma non decollò. Il governo di Salò e le sue
forze armate erano impegnate a combattere il movimento di Resistenza contro i tedeschi. Il
Centro-Nord fu teatro di una guerra civile italiana. Le formazioni armate erano composte da nuclei
di militanti antifascisti, ma anche lavoratori, studenti e donne. I partigiani, questo il nome che
presero, agivano lontano dai centri abitati, con attacchi improvvisi e con azioni di sabotaggio. Gli
occupanti risposero con rappresaglie: feroce quella a Roma quando furono fucilate alle Fosse
Ardeatine 335 detenuti ebrei, antifascisti e militari badogliani. Le bande partigiane si
organizzarono in base all’orientamento politico. Dunque sarà in questo periodo che si
riformeranno vecchi e nuovi partiti politici. Si andò a formare il Comitato di liberazione nazionale
(CLN), presieduti da Badoglio, che godeva ancora della fiducia degli alleati. Tra il CLN e il governo
del Sud si aprì un contrasto sulla sorte del re e dello stesso istituto monarchico. Anche il CLN era
diviso in due schieramenti e questo contrasto fu risolto da Togliatti, che propose di accantonare
ogni pregiudizio contro il re o contro Badoglio e di formare un governo di unità nazionale
puntando sulla lotta contro il nazifascismo. La svolta di Salerno, dunque, in armonia con la linea
tenuta dall’URSS. Questa sua proposta consentì di formare il primo governo di unità nazionale,
presieduto da Badoglio. Vittorio Emanuele III si dovette fare da parte per fare spazio al figlio
Umberto. Badoglio decise di dimettersi e dunque prese potere Bonomi. Intanto riprendeva
l’avanzata alleata nelle regioni centrali. Le azioni militari dei partigiani divennero ampie e
frequenti: la più terribile fu quella di Marzabotto dove furono uccisi 770 civili. La Resistenza però
visse il suo periodo più difficile, quando il generale inglese Alexander invitava i partigiani a
sospendere le operazioni su vasta scala in attesa della spallata prevista per l’anno successivo. Ma si
aggiunsero anche contrasti fra le diverse componenti politiche che sfociarono in conflitto: un
esempio è quello successo a Porzus che riuniva antifascisti di orientamento cattolico e furono
catturati e fucilati da partigiani comunisti. Nel 1945 la Resistenza sarebbe stata comunque pronta
a promuovere l’insurrezione generale contro gli occupanti in ritirata.
Nel 1944 la Germania poteva considerarsi sconfitta. L’offensiva tedesca aveva lo scopo anche di
demoralizzare il popolo tedesco. Molte città della Germania furono ridotte a cumoli di macerie.
Hitler si illuse fino all’ultimo momento di poter rovesciare la situazione grazie all’impiego di nuove
armi segrete. Le tre grandi potenze - USA, URSS e Gran Bretagna – si riunirono a Yalta, in Crimea.
In questa occasione fu stabilito che la Germania sarebbe stata divisa in quattro zone di
occupazione – francese, britannica, statunitense e sovietica – e sottoposta a misure di
denazificazione. Nel mentre, gli anglo-americani riprendevano l’iniziativa sul fronte occidentale:
penetrano nel territorio tedesco incontrando una scarsa resistenza. Sempre in questo periodo
crollava il fronte italiano. Il 25 aprile il CLN lanciava l’ordine dell’insurrezione generale contro il
nemico in ritirata e i tedeschi abbandonavano Milano. Tentò di fuggire anche Mussolini, che però
fu arrestato e poi ucciso. Il 30 aprile, Hitler si tolse la vita e il 7 maggio 1945 fu firmato l’atto di
capitolazione delle forze armate tedesche. Ma la guerra ancora non si concluse sul fronte del
Pacifico. Nell’estate del 1945 gli americani attaccarono il Giappone, ancora deciso a combattere
ricorrendo all’uso dei kamikaze. Il nuovo presidente americano Truman, per evitare che la guerra
si allungasse ancora e per mostrare la forza degli Stati Uniti, decide di utilizzare la bomba atomica:
il 6 agosto 1945 viene sganciata la prima bomba atomica su Hiroshima e il 9 agosto su Nagasaki.
Dunque il Giappone si arrese e si firmò l’armistizio il 2 settembre 1945 che pose fine al conflitto.

CAPITOLO 18
ETA’ DEL FORDISMO: dal 1945 al 1973 possiamo fare riferimento all’età del fordismo. Fordismo
indica una serie di pratiche industriali associate alle innovazioni introdotte nella fabbricazione di
automobili americane da Ford dall'ultimo decennio dell'Ottocento fino al secondo decennio del
Novecento.
La seconda guerra mondiale si concludeva con un bilancio disastroso. Ma il risultato più
importante a guerra finita era la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Fondata in
una conferenza a San Francisco durante il conflitto, l’Onu si presentava come un prolungamento
del patto delle Nazioni Unite che aveva legato gli Stati in lotta contro le potenze dell’Asse.
L’obiettivo era quello di dare vita a un’organizzazione a carattere universale. Lo statuto dell’Onu
porta l’impronta di due diverse concezioni: da un lato l’utopia democratica che era stata di Wilson;
dall’altro l’approccio realistico di Roosevelt, convinto della necessità di un direttorio. I principi
dell’universalità dell’organizzazione e dell’uguaglianza fra le nazioni si realizzano nell’Assemblea
generale degli Stati membri. Il meccanismo del direttorio è retto dal Consiglio di sicurezza,
composto da 15 membri, tra cui le 5 potenze vincitrice. Al fianco di questi organi, operano altri
enti come Unesco e Unicef. Comunque l’Onu non ha sempre eseguito il suo compito, ma spesso è
stata necessaria per negoziazioni e consultazioni. Gli alleati costruirono a guerra conclusa tribunali
militari per giudicare i colpevoli di crimine. I processi che ne seguirono, quello di Norimberga
contro i capi nazisti e quello di Tokyo contro i dirigenti giapponesi, si conclusero con diverse
condanne a morte. La rifondazione dei rapporti internazionali si estese anche in campo
economico. L’opera di riforma fu improntata alla filosofia economica e agli interessi del
capitalismo americano, che tendevano a creare un mercato mondiale in regime di libera
concorrenza. Con gli accordi di Bretton Woods fu creato il Fondo monetario internazionale, con lo
scopo di costruire un adeguato ammontare di riserve valutarie mondiali, cui gli Stati membri
potessero attingere in caso di necessità e di assicurare la stabilità dei cambi fra le monete,
ancorandoli al dollaro. Si consolidò il primato della moneta americana come valuta internazionale
per gli scambi ma anche nelle banche centrali di tutto il mondo. Al Fondo monetario fu affiancata
la Banca mondiale col compito di concedere prestiti a medio e lungo termine ai singoli stati per
favorirne la ricostruzione e lo sviluppo. Gli Stati Uniti rafforzarono dunque il loro controllo sulle
economie usando la loro influenza per stimolare la ripresa e al tempo stesso per integrarle nei
propri interessi.
La guerra segnò anche un mutamento irreversibile degli equilibri internazionali. Le antiche grandi
potenze dovettero rendersi conto di non poter più mantenere le proprie posizioni di dominio. A un
ruolo egemonico potevano aspirare due stati, due superpotenze continentali e multietniche: gli
Stati Uniti, che vantavano una superiorità economica e una netta supremazia militare, esaltata dal
possesso dell’arma atomica; l’Unione Sovietica che disponeva di un imponente apparato
industriale e militare e occupava con le sue truppe la metà orientale del continente europeo. USA
e URSS avevano combattuto assieme contro le potenze fasciste. Ma nell’ultima fase erano emerse
tra i vincitori divergenze profonde sul futuro del mondo dell’Europa. Gli Stati Uniti puntavano a
una ricostruzione nel segno dell’economia di mercato e della libertà degli scambi internazionali,
come contesto ideale per far valere la loro egemonia. L’Unione Sovietica pretendeva la punizione
degli Stati aggressori, adeguate riparazioni economiche e garanzie territoriali contro ogni possibile
attacco. Gli alleati occidentali erano disposti ad accogliere queste richieste. Si trattava di creare un
ordine europeo in cui anche l’URSS avrebbe avuto un ruolo importante, presentandosi come forza
d’ordine in un’aerea turbolenta. Dopo Roosevelt negli USA, il presidente diviene Truman che non
era tanto aperto alle istanze di Stalin. I contrasti emersero nella conferenza che si tenne nei pressi
di Berlino. Churchill pronunciò poco dopo un discorso che ebbe un’enorme risonanza, in cui
denunciava il comportamento dei sovietici in Europa orientale. Stalin, pertanto, replicò
paragonandolo a Hitler. I lavori della conferenza di pace infatti non giunsero mai alla fine. Furono
però fissati i nuovi confini fra URSS, Polonia e Germania. La conferenza di Parigi fu l’ultimo atto
della cooperazione postbellica fra URSS e potenze occidentali. Gli Stati Uniti si dichiararono pronti
a intervenire militarmente a sostegno di quei paesi che si sentissero minacciati da nuove mire
espansionistiche dell’URSS o da tentativi rivoluzionari. La dottrina Truman mirava a impedire che
l’URSS modificasse a proprio vantaggio gli assetti raggiunti a fine guerra. L’equilibrio USA-URSS
prodotto dal conflitto mondiale prodotto dal conflitto mondiale si trasformava in un rapporto
conflittuale tra le due superpotenze, che avrebbe dato origine a un nuovo sistema bipolare
imperniato su due blocchi contrapposti: un blocco occidentale, che riconosceva l’egemonia politica
e culturale degli USA e si ispirava agli ideali della democrazia rappresentativa, del libero scambio e
dell’iniziativa individuale; e uno orientale guidato dall’URSS e organizzato secondo i principi del
comunismo e dell’economia pianificata, in base a un’etica anti-individualista della disciplina e del
sacrificio. Cominciava quella che viene definita guerra fredda: una guerra combattuta con le armi
dell’ideologia e della propaganda fra due blocchi portatori di interessi divergenti e di strategie
contrapposte, ma anche due tipi di governi distinti. Le due superpotenze non si combatterono mai
direttamente anche perché l’URSS si dotò dell’arma nucleare: questo aveva causato la
preoccupazione generale. La contrapposizione globale fra USA e URSS ebbe effetti di lungo
periodo sulla vita dei singoli Stati: soprattutto in Europa, dove la linea divisoria tra socialisti e
capitalista rispecchiava le posizioni raggiunte alla fine delle ostilità dei due eserciti occupanti. Il
vincolo di politica estera divenne prioritario e strutturale. In Europa occidentale i partiti legati
all’URSS venivano esclusi dalla coalizione di governo ed erano costretti ad accantonare i progetti
rivoluzionari. Unica eccezione fu la Grecia dove si combatté una guerra civile.
L’imitazione dei modelli di vita d’oltreoceano diede corpo a un rapporto complesso e ambivalente
fra le due sponde dell’Atlantico, il mito americano parve incarnare le aspettative di benessere di
molti europei. Gli Stati Uniti si impegnarono per rilanciare le economie dei paesi europei. Nel 1947
fu lanciato un programma di aiuti economici all’Europa che venne definito Piano Marshall, che
riversò sulle economie dell’Europa occidentale 13 miliardi di dollari fra prestiti a condizioni di
favore e aiuti materiali di ogni genere. Il processo di ricostruzione si accompagnò a una forte
spinta verso le riforme sociali e a un diffuso ricorso all’intervento statale che riprendeva pratiche
già sperimentate. Il presidente Truman rimase fedele al New Deal e incrementò i programmi di
assistenza. Ma il suo programma sociale si realizzò solo in parte, a causa delle resistenze del
Congresso e dei democratici del Sud. L’abolizione dei controlli sulle attività industriali e il forte
deficit del bilancio statale provocarono un sensibile aumento del costo della vita. Questo provocò
delle agitazioni operaie, cui il Congresso rispose approvando il Taft-Hartley Act, una legge di
impronta conservatrice e antisindacale che limitava la libertà di sciopero nelle industrie di
interesse nazionale. In Francia nazionalizzazioni e politiche sociali furono varate dal governo
provvisorio che si basava sull’accordo fra i partiti di massa. Fu varato anche un piano quadriennale
che contemperava un’ispirazione liberista di fondo con aspetti di carattere riformatore e
dirigistico. Il caso più problematico fu quello della Gran Bretagna dove Churchill fu battuto dai
laburisti. Il novo governo nazionalizzò le industrie elettriche e carbonifere, ma anche i trasporti.
Introdusse anche il salario minimo e il Servizio sanitario nazionale. Furono dunque poste le basi di
uno stato sociale o welfare state, stato di benessere. Queste riforme erano state già proposte da
Beveridge, che avrebbe costituito un modello per molti paesi industrializzati.
Il lancio del piano Marshall ebbe l’effetto immediato di irrigidire le contrapposizioni della guerra
fredda. Nella sua formulazione originaria, il piano aveva come destinatari tutti i paesi europei. Ma i
sovietici respinsero il progetto. Anche i comunisti in occidente lo respinsero, provocando in Francia
e in Italia la rottura delle coalizioni di governo. Stalin dunque decise la formazione del Cominform,
una sorta di Terza Internazionale. Intanto procedeva l’imposizione del modello politico ed
economico sovietico. L’operazione fu realizzata tramite una serie di crescenti forzature delle
istituzioni democratiche. Gli altri partiti furono emarginati, perseguitati e sciolti. Le stesse elezioni
furono manipolate. Un caso a parte fu quello della Cecoslovacchia. Il governo formatosi a seguito
delle elezioni era guidato da Gottwald e si fondava sull’alleanza fra i partiti di sinistra. L coalizione
si ruppe quando si trattò di decidere sull’accettazione degli aiuti de piano Marshall. I comunisti
dunque lanciarono una violenta campagna contro le altre forze politiche, costringendo il
presidente della Repubblica ad affidare il potere a un nuovo governo controllato da loro. Un caso
diverso era anche in Jugoslavia: qui i comunisti si imposero da soli al potere con uso della violenza.
La rottura si consumò quando si manifestarono le ambizioni jugoslave di svolgere un ruolo-guida
fra i paesi balcanici e di perseguire una via autonoma allo sviluppo industriale: verranno accusati
da Stalin di deviazionismo, tanto da essere espulsi dal Cominform. La dirigenza jugoslava resistette
alle pressioni sovietiche e cominciò a sperimentare una linea autonoma in politica estera.
L’esperienza jugoslava interessava all’Occidente in quanto rappresentava una ribellione riuscita al
dominio sovietico. La Germania, invece, era ancora divisa in quattro pezzi, mentre la capitale
Berlino era a sua volta divisa in quattro zone. Stati Uniti e Gran Bretagna avviarono l’integrazione
delle loro zone, introducendo una nuova moneta, liberando l’economia e rivitalizzandola. In
risposta, i sovietici chiusero gli accessi alla città impedendone il rifornimento. L’Europa sembrava
vicina ad un nuovo conflitto, ma la crisi si risolse senza l’uso di armi. Gli americani organizzarono
un ponte aereo per rifornire la città finché i sovietici si risolsero a togliere il blocco. Furono anche
unificate tutte e tre le zone occidentali della Germania e fu proclamata la Repubblica federale
tedesca, con capitale Bonn. La risposta sovietica fu la creazione di una Repubblica democratica
tedesca. Nel frattempo fu firmato a Washington il Patto atlantico, un’alleanza difensiva fra i Paesi
dell’Europa occidentale, gli Stati Uniti e il Canada. Il patto prevedeva un dispositivo miliare
integrato composto da contingenti dei singoli paesi membri: la NATO. In seguito aderirono anche
Turchia, Grecia e Germania federale. L’URSS rispose con il Patto di Varsavia. Furono nazionalizzate
le miniere, le industrie meccaniche, le banche e l’intero settore commerciale. Questo sviluppo fu
condizionato dalla subordinazione delle economie dei paesi satelliti a quello dello Stato-guida, con
obiettivi di produzioni complementari all’URSS. Le caratteristiche del modello di sviluppo imposto
ai paesi dell’Europa dell’Est comportavano una forte compressione dei consumi e del tenore di vita
della popolazione. Per tenere unito l’impero, l’URSS dovette esercitare un controllo molto forte sui
partiti comunisti dei paesi satelliti. Furono attuate massicce purghe nei confronti dei dirigenti
comunisti dell’Est europeo sospettati di velleità autonomistiche. I processi di quegli anni
prevedevano pene durissimi come la pena capitale.
Dopo la sconfitta del Giappone e la fine del conflitto mondiale, la Repubblica cinese era diventata
una potenza vincitrice. Era però sempre più lacerata dallo scontro fra i nazionalisti e i comunisti. I
nazionalisti, dunque, lanciarono una violenta offensiva militare, contando sul sostegno degli USA. I
comunisti riuscirono a contrattaccare, puntando sull’appoggio delle masse contadine. Il fronte
nazionalista si andò sfaldando di fronte alla guerriglia condotta dalle forze maoiste. I comunisti
entrarono a Pechino, dopo fu poi proclamata la nascita della Repubblica popolare cinese. La nuova
repubblica a guida dei comunisti procedette a misure radicali: le banche e le grandi e medie
industrie furono nazionalizzate, ma anche il commercio con l’estero. La dirigenza sovietica guardò
con qualche preoccupazione all’emergere di una nuova potenza capace di contestare all’URSS il
suo ruolo di Stato-guida e di proporsi come modello di società comunista, destinato ad esercitare
un’attrazione sui paesi ex coloniali. La prova più drammatica si ebbe nel 1950 in Corea. La Corea,
infatti, era stata divisa in due zone, delineate al 38esimo parallelo. La Corea del Nord era
governata da un regime comunista, mentre la Corea del Sud si era insediato un governo
nazionalista appoggiato dagli Stati Uniti. Le forze nordcoreane invasero il Sud. Gli Stati Uniti
dunque reagirono inviando in Corea un contingente. I nordcoreani furono respinti. Fu poi la Cina a
intervenire in difesa dei comunisti, con un invio di falsi volontari che fecero indietreggiare gli
statunitensi che stavano invadendo la Corea del Nord. Nel 1951 Truman accettò di aprire trattative
con il Nord, che si conclusero solo nel 1953.
Nel frattempo la nuova Costituzione che era stata varata in Giappone trasformava l’autocrazia
imperiale in una monarchia imperiale. Il Giappone divenne base logistica e fornitore dell’esercito
americano. Il sistema delle imprese si rivelò adatto a cogliere le occasioni di sviluppo. Merito della
classe imprenditoriale fu quello di puntare sui settori in crescita e sulle tecnologie d’avanguardia. Il
Giappone trovava nell’alleanza con l’ex nemico la base per un rilancio che gli avrebbe consentito di
ottenere con mezzi pacifici gli obiettivi egemonici perseguitati tramite la guerra.
In URSS Stalin rispose alla necessità della ricostruzione e alle sfide poste dal confronto con
l’Occidente accentuando i connotati autocratici e repressivi del suo regime. Negli Stati Uniti si
scatenò una campagna anticomunista che prese la forma della caccia alle streghe e che ebbe il suo
ispiratore nel senatore McCarthy. Il Congresso adottò la legge per la sicurezza interna che costituì
lo strumento giuridico per emarginare o epurare quanti fossero sospettati di filocomunismo. Il
senatore fu poi censurato e uscì dalla scena politica. Nelle elezioni presidenziali del 1952, prese il
potere Eisenhower. Nel 1953 muore Stalin, ma l’uscita di scena sua e di Truman non mutò la
situazione. Si maturò un atteggiamento di accettazione che costituiva la premessa per una
coesistenza pacifica. USA e URSS rinunciarono ad agire militarmente fuori delle rispettive aree di
influenza. Addirittura arrivarono a collaborare per il mantenimento dello status quo: accadde la
crisi di Suez, quando le due potenze si trovarono d’accordo per bloccare l’azione anglo-francese in
Egitto. Il successore di Stalin, Kruscev, si impose come leader dell’Unione Sovietica. Si fece
promotore di alcune aperture sia in politica estera sia in quella interna. Vanno ricordati il trattato
di Vienna e l’incontro con i capi occidentali a Ginevra per discutere il problema tedesco. In politica
interna la svolta di Kruscev segnò la fine della grandi purghe, un rilancio dell’agricoltura e una
maggiore attenzione alle condizioni di vita dei contadini. Kruscev demolì la figura di Stalin
attraverso una sistematica denuncia dei crimini commessi in Unione Sovietica durante il suo
impero. La denuncia ebbe effetti traumatizzanti. I partiti comunisti si allinearono al nuovo corso
con alcuni imbarazzi. Ma le ripercussioni si ebbero soprattutto nell’Europa dell’Est. In Polonia i
sovietici favorirono il ritorno al potere del leader Gomulka, che promosse una politica di
liberalizzazione e di riconciliazione con la Chiesa. In Ungheria vi furono agitazioni e proteste
animate da intellettuali e studenti. Le proteste sfociarono in insurrezioni con la partecipazione dei
lavoratori. Le truppe sovietiche si ritirarono e il regime di piena libertà aprì larghi spazi alle forze
antisovietiche e i comunisti persero il controllo della situazione. L’Ungheria decise di uscire dal
Patto di Varsavia e questo causò diversi problemi. L’intervento sovietico causò sdegno e proteste
in Occidente, suscitando diverse crisi tra i comunisti, ma la riorganizzazione dell’Ungheria
confermò il controllo sovietico.
La ripresa più spettacolare fu quella della Germania federale, dove i governi postbellici applicarono
un modello di economia sociale di mercato che combinava un sistema avanzato di protezione
sociale con un’ispirazione di fondo liberistica e produttivistica. Il marco, ad esempio, divenne la
moneta più forte in Europa. Diversi furono i motivi del miracolo tedesco: in primo luogo la stretta
integrazione nel blocco occidentale. Gli Stati Uniti intendevano fare della Repubblica federale
anche una sorta di vetrina del benessere capitalistico, contrapposto al modello spartano dai paesi
dell’Est. Contribuirono alla ripresa tedesca anche la stabilità politica, dovuta anche alla
Costituzione che prevedeva meccanismi atti a penalizzare i piccoli partiti a evitare le troppo
frequenti crisi parlamentari che avevano indebolito la Repubblica di Weimar. A guidare il nuovo
Stato tedesco furono le forze di cooperazione cristiana. Il partito socialdemocratico svolse il ruolo
di opposizione costituzionale, abbandonando l’antica base teorica marxista, in favore di una
piattaforma democratico-riformista. L’ideale dell’Europa unita nel segno della pace, della
democrazia e della cooperazione economica fu fatto da uomini politici di diversi paesi, soprattutto
cattolici. Favorevoli al processo di integrazione erano anche gli Stati Uniti, interessati a inserire la
Germania occidentale nel dispositivo militare del Patto atlantico. La prima tappa significativa si
ebbe nel 1951 con la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), che
aveva il compito di coordinare produzione e prezzi in quelli che erano i settori chiave della grande
industria continentale. Il progetto di una comunità europea di difesa (Ced) fallì per il voto contrario
del Parlamento francese. i sei paesi membri della CECA giunsero alla firma dei trattati di Roma, che
istituivano la Comunità europea (Cee) e davano vita all’Euratom, un ente che doveva coordinare
gli sforzi dei paesi membri per lo sfruttamento dell’energia nucleare. Lo scopo della CEE era quello
di creare un Mercato comune mediante il graduale abbassamento delle tariffe doganali e la libera
circolazione della forza-lavoro e dei capitali, ma anche attraverso il coordinamento delle politiche
industriali e agricole e l’intervento in favore delle aree depresse e dei settori in crisi. Il mercato
comune ottenne buoni risultati, dando un forte stimolo alle economie. Le democrazie europee
mantennero in questo periodo una notevole stabilità delle istituzioni. Fece eccezione la Francia. Il
sistema politico della Quarta Repubblica non si differenziava molto dalla Terza. Per questo il
generale De Gaulle ne criticò le linee ispiratrici. La Quarta Repubblica non resse alle tensioni
provocate dalla smobilitazione dell’impero coloniale francese. Nel pieno della crisi, il generale De
Gaulle fu chiamato a formare un nuovo governo di coalizione. La nuova Costituzione, che portava
alla nascita della Quinta Repubblica, si distingueva dalla precedente per il rafforzamento delle
prerogative del presidente della Repubblica. Il presidente aveva il potere di nominare il primo
ministro, di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. De Gaulle però deluse le aspettative della
destra colonialista: avviò l’affare algerino, con gli accordi di Evian, per l’indipendenza dell’ex
colonia. De Gaulle cercò di risollevare il prestigio internazionale del paese, facendosi promotore di
una politica estera che tendeva a svincolare la Francia da legami troppo stretti con gli Stati Uniti e
proporla come guida di una futura Europa indipendente. La politica che iniziò ad adottare era
velleitaria, ma suscitò vaste adesioni e contribuì a rendere più solida la base di consenso su cui
poggiava la Quinta Repubblica.
La pace armata che seguì la fase più acuta della guerra fredda coincise con una stagione di crescita
demografica, di innovazione tecnologica e di sviluppo produttivo. Le speranze e le contraddizioni
di questa stagione furono ben incarnate dalle figure dei due leader che si trovarono alla testa delle
sue superpotenze: Kruscev e il presidente degli Stati Uniti, Kennedy. Questi suscitò ampi consensi
attorno alla sua persona, riallacciandosi alla tradizione progressista e aggiornandola col
riferimento a una nuova frontiera: una frontiera spirituale, culturale e scientifica. In politica
interna la sua politica si tradusse in un incremento della spesa pubblica, assorbito dai programmi
sociali e dalle esplorazioni spaziali, ma anche dal sostegno per i diritti civili dei neri guidati da
Martin Luther King. La presidenza di Kennedy seguì una linea ambivalente. Si verificò il primo
incontro tra Kennedy e Kruscev a Vienna a proposito del problema di Berlino Ovest, che si risolse
con un fallimento. I sovietici risposero con la costruzione di un muro che separava le due parti
della città, chiudendo l’unico varco praticabile e rendendo impossibile le fughe. Il muro di Berlino
sarebbe divenuto il simbolo della divisione della Germania. Ma il confronto fra le due
superpotenze più drammatico lo abbiamo sull’isola di Cuba, dove si era affermato il regime
socialista di Fidel Castro. Kennedy tentò di soffocare il regime cubano tentando una spedizione
armata nell’isola. Lo sbarco avrebbe dovuto suscitare un’insurrezione contro Castro, ma si risolse
con un fallimento degli USA. Nella tensione che si era creata si inserì l’URSS che iniziò l’istallazione
nell’isola di alcune basi di lancio per missili nucleari. Quando le basi furono scoperte da aerei-spia
americani, Kennedy ordinò un blocco navale attorno a Cuba per impedire alle navi sovietiche di
raggiungere l’isola. Alla fine Kruscev cedette e smantellò le basi missilistiche. Lo scontro mancato
riaprì il dialogo fra le due superpotenze. Nel 1963 USA e URSS firmarono un trattato per la messa a
bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera. Entrò anche in funzione una linea diretta di
telescriventi fra la Casa Bianca e Cremlino. Kruscev fu estromesso da tutte le sue cariche. Pesò il
fallimento della sfida lanciata al mondo occidentale che era giunto a promettere il raggiungimento
di un livello di vita superiore a quello dei paesi capitalistici. Nel 1963 venne ucciso Kennedy e al
suo posto subentrò Johnson.
Gli Stati Uniti furono coinvolti in una guerra di 10 anni in Vietnam. Dopo gli accordi di Ginevra, il
Vietnam era stata diviso in due: da una parte abbiamo quella del Nord, retta dai comunisti;
dall’altra il Sud, governata da un regime semidittatoriale appoggiato dagli Stati Uniti. Contro il
governo del Sud si scontrò un movimento di guerriglia, il Vietcong, guidato dai comunisti. Gli Stati
Uniti dunque inviarono nel Vietnam del Sud un contingente di militari. Nel 1964 il presidente
Johnson ordinò il bombardamento di alcuni obiettivi militari nel Vietnam del Nord. L’esercito
statunitense entrò in una profonda crisi, originata da fattori tecnici ma anche da un disagio
morale. Negli Stati Uniti il conflitto vietnamita apparve come una guerra ingiusta, una sporca
guerra. Vi furono manifestazioni di protesta e molti giovani decisero di non indossare la divisa. I
Vietcong lanciarono contro le principali città del sud una grande offensiva. Il successore di
Johnson, Nixon, avviò negoziati ufficiali con il Vietnam del Nord e con i rappresentanti del
Vietcong, riducendo l’impegno militare americano. Solo nel 1973 americani e nordvietnamiti
firmarono a Parigi un armistizio, ma la guerra continuò fino al 1975. L’Indocina in questi anni
divenne tutta comunista. Gli Stati Uniti dovettero registrare la prima grave sconfitta di tutta la loro
storia. Nell’Urss, dopo l’uscita di Kruscev, prende potere Breznev che accentuò la repressione di
ogni forma di dissenso. Fu varata una riforma che accordava alle imprese più ampi margini di
autonomia, ma i risultati non furono brillanti. I dirigenti sovietici si dimostrarono intransigenti nei
confronti del più ampio esperimento di liberalizzazione della Cecoslovacchia, che culminò nella
primavera di Praga. Il nuovo segretario cecoslovacco varò un programma che cercava di conciliare
il mantenimento del sistema economico socialista con nuovi elementi di pluralismo economico e
politico. La Cecoslovacchia visse una stagione di radicale rinnovamento politico e di fermento
intellettuale. Nel 1968 reparti corazzati dell’URSS occuparono Praga e il resto del paese. Fu un
successo di breve durata: gli uomini della Primavera di Praga furono emarginati, costretti a
emigrare o a cercarsi un lavoro manuale. Dopo la rimozione del segretario, iniziò una fase di
normalizzazione, chiudendo lo spazio di libertà.
La Cina di Mao si proponeva come guida e modello per i movimenti rivoluzionari. Tendeva a
contrastare lo status quo internazionale, ad appoggiare la causa dei movimenti rivoluzionari di
tutto il mondo. In Cina si assisteva a una accentuazione dei tratti radicali e collettivistici del regime
nato in una tragedia umana, economica e politica. Il regime comunista aveva nazionalizzato i
settori industriali e commerciali e aveva compiuto uno sforzo per dotarsi di un’industria pesante.
Per accelerare il rilancio della produzione agricola, la dirigenza comunista varò una nuova strategia
che fu definita del grande balzo in avanti. Le cooperative furono riunite in unità più grandi, le
comuni popolari, che doveva rendere della propria autosufficienza economica. I risultati furono
fallimentari: la produzione agricola crollò costringendo la Cina a importazioni di cereali. I sovietici
criticarono questa strategia. L’URSS rifiutò di fornire qualsiasi assistenza nel campo nucleare. I
cinesi accusarono i sovietici di revisionismo. Il grande fallimento del grande balzo in avanti diede
spazio alle componenti meno ostili all’URSS. Mao ricorse a una forma di lotta inedita in un regime
comunista: avvalendosi del sostegno dell’esercito, appellandosi ai giovani, esortandoli a ribellarsi
contro i dirigenti sospetti di percorre la via capitalista. Si scatenò dunque una rivolta generazionale
orchestrata dall’alto. Coloro che si ribellarono furono sottoposti ai campi di rieducazione, a torture
fisiche e psicologiche. L’intento era quello di promuovere un radicale mutamento nella cultura e
nella mentalità collettiva e di superare gli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione del
comunismo. La rivoluzione culturale si esaurì in pochi anni. Lo stesso Mao rallentò il movimento
che aveva generato e che stava causando spaccature nella base comunista e rischiava di gettare
nel caos l’economia. Attorno al 1970 si avvia una linea di normalizzazione anche in campo
internazionale, resa necessaria dall’isolamento economico e diplomatico in cui il paese si trovava.
La nuova linea si tradusse in un’apertura verso gli Stati Uniti. Con la morte del maresciallo Lin Piao
il periodo della rivoluzione culturale si concluse.

CAPITOLO 19
Il processo di decolonizzazione, dunque lo smantellamento del sistema coloniale con l’accesso
all’indipendenza dei popoli afroasiatici, ricevette la spinta decisiva dal secondo conflitto mondiale.
Le due superpotenze trovavano un terreno di convergenza nell’opporsi alla perpetuazione del
vecchio sistema di dominio. Il principio di autodeterminazione dei popoli si impose come base di
un nuovo codice etico-politico internazionale, a cui le potenze coloniali non potevano sottrarsi. Il
processo di decolonizzazione si compì attraverso vicende alterne, che risentirono della natura dei
nazionalismo, ma anche della colonizzazione bianca. La Gran Bretagna avviò un ritiro graduale
dalle colonie: i popoli soggetti furono preparati all’indipendenza tramite la concessione di
Costituzioni e di organi rappresentativi. La Francia oppose una resistenza ai movimenti
indipendentisti e praticò una politica assimilatrice, che pretendeva di riunire la madrepatria e le
colonie in un’unica compagine politica e concedeva parità di diritti. Comunque lo sbocco obbligato
fu l’indipendenza. L’eredità coloniale lasciò tracce durevoli sul piano materiale, ma anche sulle
abitudini, sulla cultura e la lingua. La democrazia parlamentare, invece, si affermò in pochi paesi.
Le ragioni furono molteplici: ad esempio il peso di una tradizione diversa, ma anche i limiti delle
classi dirigenti locali. Il risultato fu la prevalenza di regimi autoritari.
L’emancipazione dei popoli colonizzati ha una tappa importante nel 1947, quando la Gran
Bretagna decise di privarsi del subcontinente indiano. La maggioranza degli indiani aveva
contribuito allo sforzo bellico britannico nel corso del conflitto mondiale. Al tempo stesso, il Partito
del Congresso aveva continuato a promuovere il movimento di resistenza non violenta alla
dominazione britannica, strappando la promessa di concedere all’India la concezione di dominion,
che equivaleva all’indipendenza. A guerra finita le cose andarono diversamente. La componente
musulmana reclamò la creazione di un proprio Stato. Nacquero dunque due nuovi Stati: l’Unione
Indiana e il Pakistan musulmano. La vicenda di un movimento di liberazione nazionale affermatosi
con mezzi pacifici si concluse con numerosi morti. Lo stesso Gandhi fu vittima di quel clima di
violenza e di odio religioso: fu assassinato nel 1948. Nehru prese il comando dell’India, ormai
sempre con più problemi: la povertà delle campagne, il sovraccarico demografico e le tensione fra
i diversi gruppi religiosi. Tuttavia le istituzioni democratico-parlamentari riuscirono a consolidarsi.
Travagliata era la vicenda del Pakistan, dove la vita democratica fu interrotta da dittature militari e
minacciata dalla nascita di correnti islamiche integraliste.
Nel Sud-Est asiatico il processo di emancipazione si intrecciò con lo scontro fra le forze nazionaliste
e i movimenti comunisti. Il confronto ebbe esiti diversi. In Indonesia il movimento nazionalista
guidato da Sukarno ottenne l’indipendenza dall’Olanda. A seguito di un fallito tentativo
rivoluzionario dei comunisti, Sakarno fu costretto a cedere il potere ai militari. Una netta
prevalenza dei comunisti si ebbe negli Stati sorti dalla dissoluzione dell’impero francese in
Indocina. Nel Vietnam i comunisti avevano assunto un ruolo preminente nella Lega per
l’Indipendenza. Venne proclamata l’indipendenza dalla Francia e la nascita della Repubblica
democratica del Vietnam. I Francesi non riconobbero il nuovo stato, dunque iniziò uno scontro. Gli
accordi di Ginevra sancirono il ritiro dei francesi di tutta la penisola indocinese e la divisione
provvisoria del Vietnam in due Stati: quello comunista al Nord e quello filo-occidentale al Sud.
Si era sviluppato un movimento nazionale arabo. Le vicende di questo movimento si erano
intrecciate con quelle delle potenze coloniali e col loro tentativo di subentrare nel controllo
dell’area all’Impero ottomano. Le potenze mandatarie decisero di rinunciare ai loro possessi
mediorientali appoggiandosi ai regimi monarchici e conservatori che loro stesse avevano
contribuito a insediare. La Gran Bretagna riconobbe l’indipendenza della Transgiordania e la
Francia ritirò le sue truppe dalla Siria e dal Libano. Restava da sciogliere il nodo della Palestina,
assegnata alla Gran Bretagna ma contesa tra ebrei e arabi. La pressione del movimento sionista
per la creazione di uno Stato ebraico si fece sempre più forte. La causa sionista fu sostenuta dagli
Stati Uniti, dove la comunità ebraica era numerosa e influente, ma ostacolata dalle autorità
britanniche. Le organizzazioni militari ebraiche in Palestina passavano alla lotta armata. La Gran
Bretagna dunque si ritirò. L’ONU approvò un piano di spartizione in due Stati, che venne respinto
dagli Stati arabi. Gli ebrei proclamarono la nascita dello Stato di Israele e gli Stati della Lega araba
reagirono attaccandolo. Questa prima guerra si risolse in una disfatta per gli arabi. Israele rivelò
una forza inaspettata: una forza che gli derivava non solo dalle risorse provenienti dall’esterno, ma
anche dall’intraprendenza dei suoi dirigenti e dalla forte motivazione patriottica dei suoi cittadini.
Lo Stato ebraico si ingrandì rispetto al paino di spartizione, occupando parte di Gerusalemme. Lo
Stato di Palestina nove mai luce, nonostante l’ipotesi dell’ONU. Ma sarà proprio in questi anni che
inizierà a maturarsi il dramma palestinese che provocherà il conflitto arabo-israeliano.
La disastrosa sconfitta subita nella guerra contro Israele contribuì a radicalizzare le correnti
nazionaliste e far crescere nel mondo arabo il risentimento verso l’Occidente. Confluivano dunque
due componenti: quella tradizionalista con i Fratelli musulmani, che puntava alla reislamizzazione
della società; quella laica e nazionalista, incarnata dai militari attenti alla modernizzazione. Questa
seconda tendenza si affermò trovando il suo centro e la sua guida nell’Egitto. L’Egitto era retto da
un regime monarchico legato alla Gran Bretagna, che manteneva sul paese una sorta di
protettorato e conservava il controllo della Compagnia del Canale di Suez. La monarchia fu poi
rovesciata da un colpo di Stato militare e il potere fu assunto da un Comitato di ufficiali liberi,
guidato da Neguib e da Nasser, ma sarà poi quest’ultimo a prevalere, istaurando una dittatura
personale. Nasser si propose come guida nella lotta dei paesi arabi contro Israele e si mosse per
liberare il paese da ogni condizionamento da parte delle potenze ex coloniali. Gli Stati Uniti
bloccarono il finanziamento da parte della Banca Mondiale della grande diga di Assuan necessaria
per l’elettrificazione del paese e per l’irrigazione del paese. Nasser rispose nazionalizzando la
Compagnia del Canale di Suez. Israele attaccò l’Egitto e lo sconfisse, penetrando fino al Sinai,
mentre Gran Bretagna e Francia si avvicinavano al Canale di Suez. A far fallire l’operazione fu
l’atteggiamento delle due superpotenze: gli Stati Uniti sconfessavano l’impresa; l’URSS inviò un
ultimatum a Francia, Gran Bretagna e Israele. I franco-britannici dovettero fermare la loro
offensiva e abbandonare la zona del Canale, mentre Israele si ritirava dal Sinai. Questo sancì la fine
dell’era coloniale ma anche la perdita di peso delle due potenze. Il leader egiziano, invece, acquisì
molto prestigio presso le masse popolari e la borghesia intellettuale del mondo islamico. Nasser
annunciò la fusione tra Egitto e Siria in una Repubblica araba unita, ma il progetto fallì.
Sia il Marocco che la Tunisia avevano visto nascere forti movimenti indipendentisti. I francesi si
rassegnarono a concedere dunque la piena indipedenza. Diversa era la situazione in Algeria. La
colonia algerina era a tutti gli effetti una provincia dello Stato francese. il movimento nazionalista
algerino si organizzò nel Fronte di liberazione nazionale, un’organizzazione clandestina radicata
nelle città. Cominciava dunque uno scontro che avrebbe assunto il valore di un modello per i
movimenti rivoluzionari delle ex colonie. Lo scontro culminò con la battaglia di Algeri che vide la
parte araba della città mobilitata a sostegno dei combattenti del Fronte. I francesi riuscirono a
piegare l’insurrezione con una repressione brutale, suscitando proteste in una parte dell’opinione
pubblica nazionale. Il generale De Gaulle capì che la causa dell’Algeria francese era perduta e agì
con determinazione per far uscire il paese da una guerra difficile e costosa. Si apriva così la strada
all’indipendenza algerina che fu sancita dagli accordi di Evian. L’Algerina dunque si diede un
ordinamento interno autoritario, con un’economia statalizzata e assunse una posizione di punta
nello schieramento dei paesi arabi. Di ispirazione nazionalista fu la rivoluzione che depose la
monarchia in Libia e portò al potere i militari guidati da Gheddafi. Il suo regime si sarebbe
caratterizzato per il tentativo di realizzare una sua speciale versione del socialismo islamico e per il
dinamismo della sua politica estera: una politica che lo avrebbe portato ad appoggiare i movimenti
di guerriglia antioccidentali e a inserirsi nei conflitti interni di vari paesi africani.
Nel 1967 Nasser proclamò la chiusura del Golfo di Aqaba e strinse un patto militare con la
Giordania. Gli israeliani sferrarono un attacco preventivo contro l’Egitto, Giordania e Siria. La
guerra durò appena sei giorni, ma il suo esito venne deciso fin dalle prime ore, con la distruzione
dell’aviazione egiziana. Gli arabi contarono numerosi morti, molti invece si dovettero rifugiare in
campi profughi nella Giordania. La disfatta della guerra dei sei giorni ebbe per gli arabi
conseguenze importanti: segnò infatti il declino di Nasser e della sua politica ma determinò anche
il distacco dei movimenti di resistenza palestinese, riuniti nell’Organizzazione per la liberazione
della Palestina, dalla tutela dei regimi arabi: questa pose le basi in Giordania, creandovi una sorta
di Stato nello Stato. Il re di Giordania decise di interrompere la difficile convivenza: nel 1970, nel
settembre nero, le truppe regolari giordane si scontrarono con i militanti palestinesi che furono
costretti a riparare in Libano. Da questo momento, l’Organizzazione avrebbe esteso la lotta
terroristica sul piano internazionale, con una serie di aerei e di attentati. Nel 1970 muore Nasser,
che viene succeduto da Sadat, il quale voleva recuperare il Sinai. Le truppe egiziane investirono le
linee israeliane sul Canale di Suez e dilagarono nel Sinai, mentre i siriani attaccavano nel Golan.
Israele riuscì a respingere gli attaccanti e passare all’offensiva, penetrando in territorio egiziano. La
guerra si concluse senza vincitori e vinti. Il Canale di Suez fu chiuso per due anni e il blocco
petrolifero decretato dagli Stati arabi diedero alla crisi una dimensione internazionale. L’aumento
improvviso del petrolio causò conseguenze di vasta portata sulle economie di tutto il mondo.
Turchia e Iran non avevano conosciuto la dominazione coloniale ma avevano subito l’influenza
delle potenze europee: la Turchia aveva rischiato di finire divisa in zone di influenza, ma era stata
salvata dalla rivoluzione di Ataturk. L’Iran era oggetto delle mire egemoniche di Gran Bretagna e
Russia. La Repubblica turca aderì al sistema di alleanze occidentale per sottrarsi all’influenza
dell’Unione Sovietica. Le maglie del controllo sui cittadini si allargarono e fu concessa una
maggiore tolleranza nei confronti delle tradizionali forme di culto. Protagonista di questa fase fu
Menderes. Ma il suo governo fu rovesciato nel 1960 e mandato a morte da un colpo di Stato
militare. La Turchia dunque visse una politica agitata, ma questo non impedì di progredire sulla via
dello sviluppo economico. Anche l’Iran aveva intrapreso un percorso di modernizzazione
economica e politica, con l’imperatore Pahlavi, il quale fu poi costretto ad abdicare in favore del
figlio. Il giovane imperatore seguì la politica del padre, avvicinandosi alle potenze occidentali. Un
tentativo di svolta lo si ebbe con Mossadeq, il quale decise di nazionalizzare l’industria petrolifera
provocando la reazione dell’impero britannico, che ottenne la collaborazione degli Stati Uniti,
preoccupati per una possibile penetrazione sovietica. Nel 1953 i servizi anglo-americani deposero
l’imperatore, restituendogli il potere assoluto.
La stagione dell’emancipazione africana si aprì nei territori britannici con l’indipendenza del
Ghana. Furono resi indipendenti numerosi stati. Il cammino verso l’indipendenza fu più duro dove
erano presenti coloni bianchi, come avviene nel Kenya dove vi furono anche alcuni conflitti. Ultima
roccaforte del potere bianco rimaneva l’Unione Sudafricana le cui truppe avevano combattuto a
fianco degli alleati nel conflitto mondiale. Qui il dominio della forte minoranza bianca si reggeva su
regime di segregazione raziale, l’apartheid. Il tentativo di concentrare una parte della popolazione
nera in piccoli stati semi-indipendenti non servì ad attenuare le tensioni. Solo nell’ultimo decennio
del secolo ci sarebbe stata una soluzione, resa problematica anche dalla consistenza della
comunità bianca. Un caso di decolonizzazione drammatica fu quella del Congo. L’indipendenza si
accompagnò a una guerra civile e al tentativo di secessione della provincia mineraria del Katanga.
Il capo del governo fu fatto prigioniero e ucciso, mentre l’unità del paese fu ristabilita dalle Nazioni
Unite. Il conflitto del Congo fu emblematico delle contraddizioni e dei contrasti che attraversavano
l’Africa. Ma furono numerosi i conflitti, i quali misero in evidenza la fragilità degli Stati africani e
delle loro istituzioni. Il tentativo di imporre strutture da Stato-nazione a popolazioni eterogenee
incontrò difficoltà. Nel giro di pochi anni questi istituti lasciarono il posto a dittature
monopartitiche e a regimi militari di stampo autoritario e dispotico. Ma si aggiungeva anche una
condizione di grave debolezza economica, che rischiava di provocare una dipendenza dai paesi
industrializzati. Si fecero più forti spinte a una decolonizzazione radicale ispirata al socialismo
marxista. La scelta del modello socialista non risparmiò problemi come povertà, carestie ed
emarginazione dal mercato mondiale.
Si riunirono a Bandung, in Indonesia, con rappresentanti di Stati afroasiatici indipendenti. La
Conferenza Asia-Africa si concluse con l’approvazione di un documento che proclamava
l’eguaglianza tra tutte le nazioni e il rifiuto delle alleanze militari egemonizzate dalle superpotenze.
Dunque questi Stati appartenevano ad un Terzo mondo, diverso da quello capitalistico e da quello
comunista. Gli Stati del Terzo mondo si proponevano come protagonisti di una politica di
neutralismo attivo, destinato a erodere l’egemonia delle superpotenze. Man mano che il
movimento si allargava si accentuava la sua eterogeneità. Il non allineamento apparve come
fattore che legava tutti i componenti del Terzo mondo. Ma anche il sottosviluppo era un aspetto
comune. Erano paesi poveri, in via di sviluppo, dove era diffuso l’analfabetismo. L’allargamento
dell’orizzonte mondiale provocato dalla decolonizzazione fece sì che la povertà di massa
diventasse una smentita a quel principio di uguaglianza dei popoli. Questa problematica fu
amplificata dall’atteggiamento rivendicazionista assunto dai paesi del Terzo mondo nei confronti
dei paesi più sviluppati occidentali. Dunque si diffuse il concetto di terzomondismo che individuò
nel superamento delle disuguaglianze l’obiettivo principale.
Al movimento dei non allineati parteciparono quasi tutti i paesi dell’America Latina. In alcuni di
questi paesi avevano già avviato un processo di crescita economica. Gli Stati Uniti assunsero una
funzione di tutela sull’intero continente. Sotto il loro impulso fu creata l’Organizzazione degli Stati
americani, che doveva impedire che l’aggravarsi dell’instabilità politica e il riacutizzarsi delle
tensioni sociali aprissero spazi alla penetrazione comunista. A farsi interpreti delle spinte al
cambiamento furono i ceti medi urbani, avversi alle oligarchie tradizionali. Questa crescente
centralità dei ceti medi si concretizzò in soluzioni politiche di segno diverso, ma riconducibili al
populismo. Di stampo populista fu il regime argentino di Peron: in un primo momento la sua
politica fu sostenuta da molti, ma in seguito il suo governo venne rovesciato e lui dovette
abbandonare l’Argentina. Il paese visse anni agitati, con un susseguirsi di governi. Fu poi chiamato
nuovamente Peron, ma la sua politica fallì, i militari dunque presero il potere e la loro dittatura usò
metodi brutali, con numerosi prigionieri e morti. Una situazione simile avvenne anche in Brasile,
dove si era sperimentato il governo di Vargas, che ebbe numerose difficoltà con due governi, tanto
da togliersi la vita. Un nuovo colpo di stato, appoggiato dagli Stati Uniti, riportò il potere dei
militari, i quali imposero una politica autoritaria, basata sulla repressione dei conflitti sociali e
sull’incoraggiamento all’afflusso dei capitali stranieri: registrò buoni risultati, ma aggravò gli
equilibri. Altro discorso è quello di Cuba dove ci fu il movimento rivoluzionario di Fidel Castro.
Questi avviò una riforma agraria che colpiva il monopolio esercitato da una compagnia sulla
coltivazione della canna da zucchero. Gli Stati Uniti assunsero un atteggiamento ostile e iniziarono
un boicottaggio economico. Dunque l’URSS si impegnò ad acquistare lo zucchero cubano a prezzi
superiori e rifornirono l’isola di petrolio e macchinari. Il regime cubano dunque si orientò verso il
regime comunista. Si stava affermando un regime marxista e filosovietico che mirava a esportare il
suo modello rivoluzionario nel Terzo Mondo. La sfida rivoluzionaria ebbe l’effetto di inasprire le
tensioni interne nei paesi latino-americano e di fornire novi pretesti per gli interventi repressivi dei
militari. Questi assunsero il potere anche in paesi di tradizione democratica. Fu il caso dell’Uruguay
dove il regime liberale fu rovesciato. Ma la vicenda più emblematica fu quella del Cile, dove il
socialista Allende aveva assunto la presidenza e tentò di realizzare un programma di
nazionalizzazioni e di radicali riforme sociali, ma dovette scontrarsi con una situazione economica
ai limiti del dissesto, con l’opposizione della borghesia e con l’aperta ostilità degli Stati Uniti.
Allande fu rovesciato da un colpo di stato militare e venne ucciso. Il potere dunque fu assunto da
Pinochet, che schiacciò con la violenza ogni possibile opposizione, dando vita a un regime dai tratti
autoritari.

CAPITOLO 20
L’Italia aveva recuperato libertà e unità territoriale. La sua situazione era quella di un paese
devastato. La produzione industriale era scesa notevolmente. L’inflazione era aumentata. Il
sistema dei trasporti era disarticolato. La fame, la mancanza di alloggi e la disoccupazione
contribuivano a peggiorare la situazione. La minaccia più grave veniva dalla malavita comune,
legata al contrabbando e alla borsa nera, dunque il commercio clandestino. In Sicilia si assisteva al
fenomeno mafioso, favorito anche dalle autorità americane che se ne servivano per stabilire
contatti con la popolazione. Si era sviluppato in Sicilia un movimento indipendentista legato agli
agrari e alla vecchia classe dirigente condizionata da una forte presenza mafiosa. Le vicende
seguite all’armistizio avevano appannato l’immagine del potere statale e avevano scavato nella
compagine nazionale una frattura tra Nord e Sud. Da una parte il Sud aveva subito l’occupazione
alleata e la tenuta dei vecchi equilibri sociali; dall’altra il Centro-Nord aveva subito l’occupazione
tedesca e un’insurrezione popolare in cui la lotta di liberazione nazionale si legava alle istanze
rivoluzionarie. Il ritorno alla democrazia si era accompagnato a una crescita della partecipazione
politica, che favoriva la forze organizzate di massa, ovvero quelle che erano preparate a
inquadrare grandi numeri aderenti nelle loro strutture territoriali. Apprezzati i partiti di sinistra: il
partito socialista e il partito comunista. L’unico che competeva con le sinistre sul piano
dell’organizzazione di massa era la Democrazia cristiana, che si richiamava al partito di don Luigi
Sturzo. La democrazia cristiana godeva dell’appoggio della Chiesa. Il partito liberale poteva contare
su una serie di adesioni illustri e su quella dei proprietari terrieri. Il partito repubblicano si
distingueva per l’intransigenza sulla questione istituzionale. Era presente anche il partito d’azione,
che si faceva promotore di ampie riforme sociali, ma faceva fatica a trovare una sua identità, tanto
da sciogliersi. Per quanto riguarda la destra, gli elettori si raccolsero in una parte sotto le bandiere
monarchiche e contribuirono all’affermazione di un nuovo movimento, quello dell’Uomo
qualunque. I qualunquisti si limitavano ad assumere le difese del cittadino medio, oppresso dalle
tasse. Inizialmente il movimento ottenne successo, ma poi entrò in crisi. Importante era la
Confederazione generale del lavoro, composta da socialisti, cattolici e comunisti. La loro
convivenza non fu facile, ma si riuscì a far sì che si attuassero delle riforme durevoli, come un
maggiore egualitarismo retributivo fra i lavoratori di diverse categorie. La democrazia cristiana
riuscì a imporre la candidatura di De Gasperi: si inaugurava un governo di segno moderato.
Il governo fissò per il 2 giugno 1946 la data per le elezioni dell’Assemblea costituente, che sarebbe
stata incaricata di scrivere la nuova Costituzione italiana. Per la prima volta, grazie al governo
Bonomi nel 1944, anche le donne poterono votare. Si doveva decidere se l’Italia avrebbe
continuato a vivere in una monarchia o se sarebbe passati ad un’Italia repubblicana. Nelle
votazioni del 2 giugno quasi il 90% degli elettori andò a votare e, con uno scarto di circa 2 milioni di
voti, vinse la Repubblica. Nelle elezioni si contraddistinse la Democrazia cristiana. La sinistra inoltre
risultava rafforzata. Democristiani, socialisti e comunisti continuarono a governare insieme,
scegliendo il primo presidente della Repubblica ovvero De Nicola. In tutto ciò nel 1947 De Gasperi
diede le sue dimissioni formando un nuovo governo di soli democristiani, rafforzato dall’apporto
dei tecnici di area liberal-democratica. Dunque con i cattolici al potere, si concluse la
collaborazione fra i tre partiti di massa.
L’Assemblea incaricata di dare al paese una nuova Costituzione, dopo lo Statuto albertino, iniziò i
lavori proprio nel 46, ma verrà poi approvata nel dicembre del 47 ed entrerà in vigore il 1 gennaio
1948. La costituzione repubblica si ispirava ai modelli democratici per la parte riguardante le
istituzioni e i diritti politici: si dava vita a un sistema parlamentare, col governo di fronte alle due
camere. Era previsto un consiglio superiore della magistratura che assicurasse il potere giudiziario.
Era soprattutto sancito il diritto al lavoro. Nel complesso i costituenti sentirono l’esigenza di
garantire spazi di rappresentanza a tutte le forze politiche. I partiti erano considerati come il
tramite più efficace fra i cittadini e le istituzioni. Essi offrivano un canale di partecipazione alla
politica che contribuì al difficile processo di formazione di una cittadinanza repubblicana. La
costituzione rappresentò un compromesso fra le istanze delle diverse forze che avevano
contribuito a realizzarla. Uno scontro si realizzò attorno ad un articolo, quello 7, in cui si stabiliva
che i rapporti fra Stato e Chiesa e regime fascista. La proposta sembrava essere destinata a essere
respinta, ma grazie al voto favorevole del partito comunista, venne approvata. L’Italia si impegnò a
pagare riparazione agli Stati che avevano attaccato, ma in questo periodo ci furono delle difficoltà
territoriali con la Jugoslavia. L’esercito jugoslavo aveva occupato l’Istria e rivendicava Trieste.
L’occupazione aveva riacceso il conflitto tra italiani e slavi. Migliaia di italiani erano stati ucci o
deportati, gettati nelle foibe. Venne attuata una sistemazione provvisoria, che lasciava alla
Jugoslavia l’Istria, mentre Trieste e Capodistria erano del Territorio libero di Trieste, a sua volta
diviso in territorio A, che poi venne assegnato ufficialmente alla Jugoslavia, e in territorio B, che
comprendeva anche Trieste, che venne poi assegnato all’Italia.
In questi anni ci furono numerose campagne elettorali. Nella campagna elettorale del partito di De
Gasperi poté giovarsi dell’aiuto della Chiesa con Pio XII, ma anche il sostegno degli Stati Uniti.
Giovarono ai democristiani anche le prospettive di sviluppo e di benessere associate al legame con
gli Stati Uniti. Le elezioni de 48 si risolsero in un successo del partito cattolico. Cadevano dunque le
speranze della sinistra di guidare la trasformazione del paese, mentre si rafforzava l’egemonia del
partito cattolico. L’insofferenza dei militanti di sinistra esplose dopo le elezioni, quando Togliatti fu
ferito. In tutte le città i militanti di sinistra scesero nelle piazze, scontrandosi con le forze
dell’ordine. L’agitazione si esaurì comunque in pochi giorni. Gli elettori italiani si espressero in
favore di un sistema economico e di una collocazione internazionale. Comunisti e socialisti si
limitarono a un’azione di difesa dei salari e dell’occupazione. Anche questa linea di resistenza
cadde con l’estromissione delle sinistre dal governo e la formazione di De Gasperi, prevedeva
l’economista liberale Einaudi. Questi attuò una manovra economica che aveva come scopi
principali la fine dell’inflazione, il ritorno alla stabilità monetaria e il risanamento del bilancio
statale. La manovra si basava su tre punti: inasprimenti fiscali e tariffari; svalutazione della lira;
restrizione del credito che limitò la circolazione della moneta. Nel complesso la linea Einaudi
ottenne i risultati che si era prefissata. I fondi del piano Marshall furono usati per finanziare le
importazioni di derrate alimentari e materie prime. L’adozione di un modello di sviluppo fondato
sull’iniziativa privata era anche il risultato di una crescente integrazione con le economie
dell’Occidente capitalistico e contribuì a definire la collocazione internazionale del paese. Dunque
l’Italia decide di aderire al Patto atlantico, approvata dal Parlamento nel 1949. La scelta sarebbe
stata accettata anche da molte delle forze che l’avevano contestata e sarebbe rimasta un punto
fermo ella politica estera italiana.
I democristiani mantennero l’alleanza con i partiti laici minori, appoggiando anche la candidatura
alla presidenza della Repubblica del liberale Einaudi. La formula del centrismo era basata su
liberali, rivoluzionari e socialisti. L’iniziativa più importante fu la riforma agraria del 1950, che
prevedeva il frazionamento di parte delle grandi proprietà terriere nel Mezzogiorno. Gli obiettivi
erano l’incremento della piccola impresa agricola e il rafforzamento del ceto dei contadini
indipendenti: questi obiettivi, però, si sarebbero sveltati illusori. La riforma, infatti, non servì a
limitare la migrazione dalle campagne. Fu varata anche un’altra legge, quella che istituiva la Cassa
del Mezzogiorno, un ente pubblico che aveva lo scopo di promuovere lo sviluppo economico e
civile delle regioni meridionali attraverso il finanziamento statale per le infrastrutture e il credito
agevolato alle industrie localizzate nelle aree depresse. I primi interventi della Cassa del
Mezzogiorno miravano al miglioramento dell’agricoltura e alla costruzione di infrastrutture atte a
favorire l’industrializzazione. La politica della Cassa fu orientata verso il sostegno diretto,
attraverso la concessione di crediti agevolati alle industrie che si fosse impiantate in aree prescelte
dallo Stato, ovvero i poli di sviluppo. Le riforme varate dai governi centristi furono avversate dalla
destra. La disoccupazione si mantenne su livelli elevati e i salari restarono bassi. La politica
economica del governo continuava a basarsi sull’austerità finanziaria e sul contenimento dei
consumi privati. Comunisti e socialisti vennero schedati e discriminati negli impieghi pubblici. Il
ministro Scelba divenne il simbolo di una politica illiberale e repressiva. De Gasperi e i suoi alleati
tentarono di rendere inattaccabile la coalizione centrista attraverso una modifica dei meccanismi
elettorali. Il sistema scelto fu quello di assegnare la maggioranza dei seggi alla Camera a quel
gruppo di partiti apparentati, dunque uniti da una dichiarazione di alleanza: né sinistra né destra
potevano aspirare a raggiungere questo risultato. Da qui le violente polemiche che
accompagnarono la discussione in Parlamento della riforma elettorale, ribattezzata dalle sinistre
legge truffa, ma la legge non ebbe vita lunga. Uscito di scena De Gasperi, i successivi governi a
guida democristiana continuarono ad appoggiarsi sulla maggioranza centrista, rafforzata
dall’apporto di voti monarchici e neofascisti. Fu stabilito il piano Vanoni che indicava fra gli
obiettivi della politica economica l’assorbimento della disoccupazione e la cancellazione del divario
tra Nord e Sud. Nella democrazia cristiana emerge una nuova generazione, con esponente Fanfani,
che cercò di collegare il partito alle imprese di stato, soprattutto con l’ENI di Mattei. Frattanto
cominciarono a delinearsi mutamenti negli scenari politici nazionali. Si iniziarono a creare le
premesse politiche per un’apertura a sinistra.
Dal 1950 l’Italia conosce una crescita economica importante. Gli anni del miracolo economico, dal
1958 al 1963, in cui l’Italia ridusse il divario che la separava dalla maggior parte dei paesi
industrializzati. La crescita industriale fu alimentata dallo sviluppo delle esportazioni, soprattutto
nei settori degli elettrodomestici e dell’abbigliamento. Dunque la diffusione dei prodotti italiani, la
solidità della lira, la stabilità dei prezzi contribuirono a rafforzare l’immagine di un’Italia avviata
verso un percorso di benessere. La comprensione salariale era il risultato di una larga disponibilità
di manodopera a basso costo, dovuta al flusso migratorio dalle zone depresse a quelle più
progredite. L’Italia in questo periodo divenne dunque industriale. La crescita economica si
accompagnò a un netto miglioramento delle condizioni dei lavoratori. Ci fu un aumento della
capacità contrattuale dei sindacati che misero in moto un processo inflazionistico. Dunque il
miracolo italiano conobbe una battuta d’arresto. Col miracolo economica l’Italia si lasciò alle spalle
le strutture e i valori della società contadina ed entrò nella civiltà dei consumi. Inoltre in questo
periodo moltissimi andarono via dal Sud, spostandosi verso il Nord e molti si trasferirono nelle
città. Il difficile inserimento degli immigrati meridionali nelle città mise in evidenza il divario fra il
Nord e il Sud del paese. Ebbe però al via un processo di integrazione legato alle comuni esperienze
lavorative, favorito anche dalla scolarizzazione e dalla diffusione di alcuni consumi di massa. La
televisione e l’automobile iniziavano ad essere sempre più alla portata di tutti e comuni.
Il miracolo italiano si accompagnava con l’apertura alla sinistra, anche se fu osteggiata dalla destra
economica e da una parte della Democrazia cristiana. Il presidente del consiglio Tambroni formò
un governo monocolore, composto da democristiani con l’appoggio dei socialisti. La tensione
esplose quando i socialisti autorizzarono a tenere il suo congresso nazionale a Genova. La
decisione suscitò una rivolta popolare: per tre giorni operai e militanti dei partiti di sinistra si
scontrarono con la polizia che cercava di garantire lo svolgimento del congresso. Alla fine il
governo cedette e il congresso fu rinviato. Tambroni fu sconfessato dai democristiani e costretto a
dimettersi. Fu formato un nuovo governo monocolore presieduto da Fanfani, che ottenne
l’astensione dei socialisti nel voto di fiducia in Parlamento, aprendo la stagione politica del centro-
sinistra. La nuova alleanza fu sancita dal congresso dei democristiani che si tenne grazie ad Aldo
Moro. Il programma di governo centro-sinistra, messo in atto grazie a Fanfani, prevedeva la
realizzazione della scuola media unificata, ma anche la nazionalizzazione dell’industria elettrica. Si
cercava a introdurre dei correttivi nella struttura del capitalismo italiano e si inquadrava nel
tentativo di dare avvio a una programmazione economica cercando di ridurre gli squilibri tra Nord
e Sud. La nazionalizzazione delle industrie elettriche fu portata a compimento con la creazione
dell’Enel. Quanto alla politica di programmazione, non riuscì mai a tradursi in pratica e rimase
un’utopia riformatrice del primo centro-sinistra. I contrasti nella maggioranza furono esasperati
dall’esito delle elezioni del 63. Il successo dei liberali e il rafforzamento dei comunisti
accentuarono le resistenze moderate in seno ai democristiani. Un governo di centro-sinistra
organico si formò sotto la presidenza di Aldo Moro. Il processo riformatore fu bloccato. Si faceva
sentire il peso delle forze ostili al centro-sinistra, che annoveravano tra le loro file anche le alte
gerarchie militari e lo stesso presidente della Repubblica Segni. Nell’atteggiamento dei
democristiani agivano la visione solidaristica della politica e il rifiuto ideologico di scelte radicali
che erano tipici del mondo di operare di un leader come Moro, incline a risolvere i contrasti. Il
partito socialista pagò la partecipazione al governo con una nuova scissione, dando vita al partito
socialista di unità proletaria. All’indebolimento dei socialisti faceva riscontro la crescita del partito
dei comunisti. La formula di centro-sinistra sarebbe durata per un decennio, con i governi
presieduti da Moro, da Rumor e da Colombo. Questo governo però si sarebbe rivelato inadeguato
a fronteggiare i problemi di una società articolata e percorsa da una conflittualità politica e
sindacale.

CAPITOLO 21
A partite dal 1950 in tutto il mondo si verifica un aumento della popolazione straordinario, con un
aumento di circa un miliardo di persone. La cause si devono sicuramente ricollegare ad un
benessere generale che i viveva in questo periodo. La crescita della popolazione non si era
verificata in maniera omogenea, accentuando le tendenze demografiche tra paesi industrializzati e
quelli in via di sviluppo. Nei paesi industrializzati, la fase di slancio demografico si protrasse per
tutto il decennio successivo: il periodo del baby boom. Questo fenomeno si accompagnò ai
processi di modernizzazione, collegandosi alla mentalità e ai modi di vita delle società
industrializzate. La tendenza alla pianificazione familiare fu favorita dalla diffusione delle nuove
pratiche anticoncezionali. L’uso generalizzato delle pratiche anticoncezionali significò la possibilità
di un controllo totale sulla fertilità ed ebbe conseguenze rivoluzionarie anche sulla mentalità e sul
costume.
Viene definita età dell’oro: questa metafora da un’idea dei risultati conseguiti dalle maggiori
economie del mondo. L’espansione postbellica differì da quella di altre fasi analoghe anche per la
durata e la continuità. Lo sviluppo dei paesi industrializzati a economia di mercato era sempre
stato discontinuo. La crescita americana trainò quella dell’Europa e del Giappone. Gli equilibri tra i
paesi a capitalismo avanzato mutarono e gli Stati Uniti videro ridursi le distanze dai propri alleati.
L’espansione si basò sull’industria che raggiunsero in questi anni una diffusione di massa.
L’agricoltura ebbe un processo di modernizzazione lento. Lo sviluppo di questi anni si deve alla
crescita della popolazione, che determinò nuovi giovani nei processi di forza-lavoro; la
disponibilità di scoperte scientifiche e tecnologiche; ma anche i notevoli risparmi dei cittadini che
dunque potevano incrementare i loro consumi con un elevato livello di investimenti. Il volume
degli scambi aumentò grazie ai nuovi mezzi e delle tecniche di trasporto delle merci, all’opera di
organismi internazionali o di accordi che garantivano cambi stabili tra le monete. Il boom non
rimase circoscritto all’area del capitalismo, ma investì gran parte del mondo industrializzato.
L’incremento della ricchezza si andò a distribuire su una popolazione in forte aumento: il reddito
medio variò in misura molto limitata e il divario con le nazioni più ricche aumentò.
Si parlava di società del benessere, di civiltà di consumo e dunque di consumismo. La crescita dei
consumi fu uno dei tratti distintivi di questa fase. Era il risultato della maggiore disponibilità di
reddito e della riduzione dei prezzi conseguente agli aumenti di produttività dell’industria, ma
anche dall’ampliamento della rete commercial e dei messaggi pubblicitari. Aumentò il consumo
dell’abbigliamento, delle case e dei beni non essenziali e durevoli. Il risultato fu l’accentuarsi del
processo di omologazione delle preferenze, ovvero la standardizzazione dei modelli di consumo. In
questo periodo si affermò il Welfare state, un sistema organico di politiche sociali e assistenziali
volte a migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Aumentarono gli investimenti pubblici per la
scuola, l’università, le cure mediche e il sostegno per gli invalidi. Il maggior impegno per le
politiche sociali comportò un incremento della spesa pubblica. Ogni Stato costruì un proprio
sistema di Welfare. La principale differenza era quella tra il sistema universalistico e il sistema
occupazionale. Il Welfare State divenne un tratto distintivo del mondo capitalistico
industrializzato.
Altro elemento fondamentale per lo sviluppo del periodo era legato alle innovazioni e scoperte
scientifiche e tecnologiche. Il mondo sviluppato fu sommerso da un’ondata di nuovi materiali e di
prodotti di ogni genere. Cambiò anche il ruolo dei governi e degli apparati statali, che destinarono
quote crescenti del reddito nazionale alla ricerca. Nel settore chimico, le maggiori novità furono
legate allo sviluppo di scoperte, come quello dei primi materiali sintetici, ovvero prodotti in
laboratorio. Altre novità si ricollegano ai medicinali: si sviluppano gli antibiotici, che servivano per
difendersi dai batteri; ma vennero anche sviluppati gli ormoni, l’insulina e il cortisone, ma anche
psicofarmaci e anticoncezionali. Sviluppi importanti anche nel campo della chirurgia, dove vennero
effettuati i primi interventi a cuore aperto e i trapianti di organi. Inoltre viene a svilupparsi nella
microchirurgia il laser, che consentiva interventi non invasivi su parti ristrette del corpo.
Nel 1960 Kennedy faceva riferimento a nuove frontiere. Faceva sicuramente riferimento anche
alle imprese spaziali. I problemi da risolvere erano molteplici: respirare in assenza di ossigeno,
muoversi in assenza di gravità. Ma il primo problema era disporre di vettori abbastanza potenti da
permettere a una navicella attrezzata per le ricerche di superare i confini dell’atmosfera. Il vettore
fu individuato nei missili. L’Unione Sovietica fu la prima a ottenere successo mandando in orbita
nel 1957 il primo satellite artificiale, lo Sputnik. Dopo pochi mesi anche gli Stati Uniti lanciarono il
loro Explorer nel 1958, ma furono sempre i sovietici nel 61 a inviare il primo astronauta nello
spazio. Gli Stati Uniti, che intanto avevano fondato la NASA, replicarono puntando allo sbarco di
uomini sulla Luna, come avvenne nel 1969 quando alcuni astronauti sbarcarono sulla Luna grazie
all’Apollo 11, evento trasmesso in diretta nel mondo.
L’automobile divenne un mezzo per spostarsi velocemente, ma anche il bene di consumo più
ambito in questi anni. Ma al tempo stesso, la diffusione dell’auto, portava problemi come
l’inquinamento e il traffico. Altra novità nel campo dei trasporti riguardava l’aviazione civile. Il
trasporto aereo, infatti, ricevette una nuova spinta col passaggio dalla propulsione a elica a quella
in reazione. Gli aerei aumentarono la loro velocità e la loro capienza. Questo provocò una
diminuzione dell’uso del treno come mezzo di trasporto per tratte lunghe in quanto si svilupperà
più tardi la linea ad alta velocità. Si parlava di villaggio globale come diceva McLuhan che
descriveva un pianeta diventato piccolo, mentre contenuti e forme della comunicazione si
uniformarono a modelli comuni. Fondamentali delle trasformazioni furono i mezzi di
comunicazione di mass, con radio e televisione. Gli anni 70 infatti ospitano l’avvento delle tv
private. Prima solo lo stato, che si serviva alla Rai, azienda concessionaria, che trasmetteva le
informazioni. La televisione in Italia compare tra anni 50-70 appare come monopolio gestito
soprattutto dalla democrazia cristiana, ovvero il partito più forte in quel periodo. Questa
televisione era definita pedagogica: aveva lo scopo di educare le masse. Aveva una parentela
stretta con la radio e il cinema. La televisione eredita dunque questo scopo, educare le masse alla
modernità, ovvero quella fordista. Le masse stavano attraversando la transizione dalle campagne
alle città, da una vita contadina ad una vita consumistica. Questi contadini naturalmente parlavano
in dialetto, dunque l’alfabetizzazione era il primo scopo della televisione: un esempio è “Non è mai
troppo tardi”, dove si prendevano persone analfabete per educarle. Altro elemento è il Carosello,
una trasmissione che conteneva una carrellata di pubblicità, la quale ognuna era accompagnata da
storie, favole con una morale, che serviva a insegnare, a spiegare al pubblico come comportarsi
con il consumo, che doveva essere consapevole. Dunque era una televisione adatta per una
società in transizione. Questa televisione pedagogica, cade negli anni 70. Si verifica la libertà
d’antenna: questo significa che non deve essere solo lo stato a detenere il monopolio della tv, ma
deve essere uno strumento a disposizione delle masse, dei cittadini, che si organizzano per farsi la
propria emittente, la propria tv, la propria radio. Gli anni 70 dunque proponeva più soggetti che
possono essere legittimati a trasmettere. Si parla di artisti, circoli culturali, movimenti. Si cerca
dunque di portare maggiore libertà nella sfera della comunicazione. Dunque a metà anni 70, si
iniziano ad affermare le prime emittenti private, alcune delle quali iniziarono a trasmettere in
maniera pirata. Sarà la corte costituzionale a sancire la libertà d’antenna. Avviene dunque la
liberalizzazione della. Radio e della televisione. Ma dietro a questa libertà, ci sono subito persone
che cercano di trarne profitto. Era molto più complesso fare la televisione, dato che servivano
molti soldi. Infatti cade subito nelle mani dei grandi imprenditori o dei partiti che investono sulle
emittenti televisive. Berlusconi, che poi troveremo in politica, fonderà TeleMilano, che poi diverrà
Fininvest. I privati, per la corte costituzionale, non poteva trasmettere in ambito nazionale, ma
solo locale. Ma se tutte le emittenti locali, si mettono d’accordo affinché si registri un programma
e si trasmetta alla stessa ora simultaneamente, sembra che sia un programma nazionale. Questo
implica la pubblicità, dunque i soldi e gli investitori. Negli anni 80, Berlusconi riesce a trovare la
fiducia degli investitori pubblicitari, comprando poi Italia1 e Rete4. Dunque si passa dal principio di
libertà, ad un principio di dominio. Pertanto alla fine degli anni 80, Berlusconi è il principale
competitor della Rai. Quando cadrà il sistema dei artisti della prima repubblica, il posto della
democrazia cristiana, verrà preso da un altro partito, ovvero forza Italia. Dietro Forza Italia c’era
Fininvest. Gran parte delle forme di consenso passarono tramite le televisioni. Avverrà una cosa
simile più avanti: il consenso del Movimento 5 stelle si ottiene tramite i social network. Altro
elemento fondamentale per questo universo culturale era la musica. L’ulteriore boom
commerciale degli anni postbellici si spiega con la diffusione della musica americana durante e
dopo il conflitto mondiale. I progressi della tecnologia elettronica si sovrapposero all’egemonia
commerciale e culturale dei paesi anglo-sassoni: l’inglese divenne la lingua della musica pop,
dunque la musica popolare. Questo contribuì a creare un linguaggio comune ai giovami del
mondo.
Le trasformazioni della società e del consumo favorivano l’affermazione delle scienze sociali, come
la sociologia e la psicologia. Queste discipline erano viste come gli strumenti più adatti per capire
la nuova realtà. Ma al tempo stesso si diffuse un atteggiamento di rifiuto ideologico nei confronti
della civiltà dei consumi, accusata di sostituire allo sfruttamento economico una forma più subdola
e raffinata di dominio realizzata tramite pubblicità e mass media. La denuncia al consumismo si
andava ad unire ai fenomeni di terzomondismo nel fornire una base teorica a quei fenomeni di
contestazione giovanile che si diffusero con rapidità. Diventarono oggetto di critica le stesse
istituzioni della democrazia borghese, incapace di mantenere le sue promesse. La contestazione
ebbe inizio negli Stati Uniti e trovò eco fra i figli del baby boom. La protesta si espresse nella forma
del rifiuto delle convenzioni, della fuga dalla società industrializzata e dunque nella creazione di
una cultura alternativa, come religioni o nella musica. La rivolta giovanile assunse forme più
politicizzate e trovò i propulsori nelle universalità, dove la scolarizzazione di massa aveva
concentrato un ceto studentesco numeroso. Nel frattempo la mobilitazione dei neri esplose fra il
1965-67 in una serie di rivolte dei ghetti neri. Le rivolte erano ispirate all’ideologia rivoluzionaria
del Black Power, che univa la protesta sociale alla rivendicazione da parte dei neri di una propria
identità culturale separata dalla maggioranza bianca. L’apice si raggiunge nel 1968, anche detto
come l’anno degli studenti, la rivolta giovanile si estese ai maggiori paesi europei. In Francia la
mobilitazione dei diversi movimenti di estrema sinistra diede luogo all’episodio più clamoroso: il
quartiere latino di Parigi fu teatro di una guerriglia urbana che vide contrapposti studenti e forze di
polizia e parve evocare l’immagine delle insurrezioni cittadine ottocentesche. Anche per questo il
68 assunse un significato simbolico che andava oltre ai risultati ottenuti dal movimento. In alcuni
casi furono le forze moderate ad avvantaggiarsi dell’allarme suscitato dalla contestazione
giovanile. Le lotte del 68 lasciarono un segno profondo nella società occidentale: rilanciarono il
mito di una trasformazione rivoluzionaria; diedero vita a un patrimonio di memorie e tradizioni in
cui molti giovani avrebbero continuato a riconoscersi negli anni successivi.
Si riaffermò anche la questione femminile. I primi movimenti femministi avevano lottato per
l’emancipazione politica delle donne e per la parità giuridica fra i sessi. Molte di queste battaglie,
in questi anni, erano state vinte. Alle lotte tese al miglioramento della condizione delle donne
attraverso misure legislative andava affiancata una battaglia culturale volta a sconfiggere e a
capovolgere vecchi e nuovi stereotipi. Questa problematica fu al centro della nuova corrente
femminista che ebbe origine negli Stati Uniti con alcune scrittrici. Ora si contestavano i modelli
culturali legati al maschilismo e la valorizzazione dei caratteri femminili.
Il nuovo corso del mondo cattolici ebbe inizio con papa Giovanni XXIII. Diversamente dal suo
predecessore, il nuovo papa cercò di rilanciare il ruolo ecumenico della Chiesa e di instaurare un
dialogo con le realtà esterne al mondo cattolico. La svolta di Giovanni XXIII fu sancita in due
encicliche: la Mater et Magistra, in cui il papa condannava l’egoismo dei ceti privilegiati e dei paesi
ricchi per incoraggiare il riformismo politico ed economico; la Pacem in Terris, dedicata ai rapporti
internazionali e conteneva anche una proposta di dialogo con le religioni non cattoliche.
Importante anche il Concilio ecumenico, il Vaticano II che aveva segnato il momento di chiusura e
isolamento della Chiesa di Roma. Il Concilio si prolungò anche con papa Paolo VI. Dal Concilio la
chiesa uscì rinnovata: l’innovazione più importante fu l’introduzione della messa nelle lingue
nazionali anziché in latino. Non tutti accettarono queste novità, tanto da riunirsi in movimenti
tradizionalisti, che provocarono uno scisma, ufficializzato nel 1988, raccogliendo adesioni di esigue
minoranze.

CAPITOLO 22
A partire dal 1970 iniziano a verificarsi altri eventi che segnarono decisamente l’economia
mondiale. Il primo evento fu la scelta nel 1971 degli Stati Uniti di sospendere la convertibilità del
dollaro in oro. Questa decisione era il segno più evidente delle difficoltà dell’economia americana
che non era in grado di garantire il cambio di una grande massa di dollari circolante nel mondo. Più
drammatica fu la scelta del 1973 che consisteva nel quadruplicare il prezzo della materia prima, col
pezzo del petrolio dieci volte più alto nel 1979. Lo shock petrolifero colpì tutti i paesi
industrializzati e questo fu il fattore scatenante di una crisi economica seria e profonda. La
produzione industriale fece registrare un brusco calo, per poi riprendere a crescere lentamente nel
76. Questo fece aumentare comunque l’inflazione. Sul piano sociale la conseguenza più grave della
crisi fu la crescita della disoccupazione che si mantenne elevato per tutto il decennio anche se il
problema era meno drammatico della presenza di numerosi ammortizzatori sociali come i sussidi
di disoccupazione. Ma a subire gli effetti della crisi fu il Welfare state. La crescita della spesa
pubblica costrinse i governi a portare a livelli elevati la pressione fiscale suscitando un crescendo di
critiche contro lo Stato assistenziale. La crisi petrolifera costituì un trauma sul piano psicologico,
rivelando una fragilità dei paesi industrializzati.
Il degrado dell’ambiente aveva radici lontane, ma in questo periodo si erano aggravate. La
principale responsabile dell’inquinamento dell’aria era ancora la combustione del carbone nelle
industrie e nelle abitazioni, ma anche il traffico automobilistico. I governi da un alto adottarono
politiche di risparmio energetico, cercando di limitare la circolazione dei mezzi di trasporto privati
e di contenere i consumi di elettricità, ma dall’altro promossero la ricerca e l’uso di nuove fonti di
energia. Si riscoprì però anche il carbone e si avviò lo sfruttamento dell’energia solare e di quella
eolica: energie pulite e inesauribili. Sembrava che la crisi si stava ridimensionando, anche grazie a
nuovi giacimenti petroliferi che erano stati scoperti. Si ricercava comunque uno sviluppo
sostenibile che restò al centro dei dibattici delle organizzazioni internazionali. Nel 1992 oltre 140
paesi si impegnarono a limitare l’inquinamento atmosferico e a perseguire uno sviluppo
economico rispetto dell’ambiente. Ma nel 1997 un nuovo vertice internazionale sull’ambiente
elaborò il Protocollo di Tokyo che aveva lo scopo di obbligare gli Stati a ridurre le emissioni di
anidride carbonica entro un quindicennio. Questo programma però non fu accettato da Stati Uniti,
ma anche Cina e India.
Si parlava di grande riflusso, invece, per indicare la caduta degli ambiziosi progetti di
trasformazione politica e sociale. La caduta della tensione politica finì col lasciare isolate le
componenti estremiste e violente dei movimenti di contestazione giovanile. Si assisté a una
drammatica esplosione di terrorismo politico: le Brigate rosse in Italia, la RAF in Germania. Queste
formazioni agivano sulla base di parole d’ordine ispirate a una versione estremizzata del
marxismo-leninismo e colpivano personaggi e istituzioni che si identificavano, ai loro occhi, col
sistema da abbattere. I gruppi terroristici italiani e tedeschi furono sconfitti politicamente, ma
anche con azioni repressive come l’arresto. Ma il terrorismo internazionale non scomparve. Grave
fu l’azione che coinvolse papa Giovanni Paolo II, gravemente ferito in piazza San Pietro da un
terrorista turco.
Gli Stati Uniti attraversarono una fase difficile. Nixon venne rieletto, ma nel 1974 fu travolto da
uno scandalo legato alla campagna elettorale: il caso Watergate, chiamato così per il nome
dell’albergo dove alcuni dei collaboratori del presidente avevano condotto un’operazione di
spionaggio ai danni del Partito democratico. Nixon dovette dunque dimettersi. Il democratico
Carter cercò di promuovere una politica fondata sul riconoscimento del diritto di
autodeterminazione e sulla difesa dei diritti umani. Questa linea fu portata avanti in modo incerto.
Carter fu poi sconfitto da Reagan, che si presentò come un programma liberista, basato sulla
riduzione delle tasse e della spesa pubblica. Il successo della sua presidenza si dovette anche al
buon andamento dell’economia che riprese a marciare a pieno ritmo grazie allo sviluppo dei
settori di punta. Le disuguaglianze sociali si accentuarono in seguito al taglio delle spese per
l’assistenza e per le pensioni. Il dollaro tornò ad essere la moneta forte dell’economia mondiale.
Gli Stati Uniti intensificarono la fornitura di armi e materiali ai gruppi armati che combattevano
contro i regimi filocomunisti.
L’Unione Sovietica vide accentuarsi il declino economico e politico. L’URSS partecipò alla
conferenza di Helsinki sulla sicurezza e cooperazione in Europa e ne sottoscrisse accordi finali che
garantivano il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà politiche fondamentali. In questi anni
l’URSS ne approfitta della debolezza degli USA per avvantaggiarsi nella corsa agli armamenti. Col
risultato di riacutizzare le tensioni internazionali, in quella che fu definita seconda guerra fredda e
che culminò nella decisione sovietica di installare nuovi missili puntata verso l’Europa. Un
intervento militare pagato a caro prezzo fu quello attuato dall’URSS in Afghanistan. I sovietici
inviarono un forte contingente di truppe che si dovette scontrare contro la resistenza dei gruppi
guerriglieri islamici. La svolta arrivò inaspettata. La segreteria del partito comunista fu assunta da
Gorbacev, che si mostrò deciso a introdurre una serie di radicali novità nella politica sovietica. In
politica economica il nuovo segretario legò il suo nome alla parola riforma. Si fece promotore di
una Costituzione che lasciava spazio a un limitato pluralismo. Le elezioni del Congresso dei soviet
inaugurarono un sistema di candidature plurime e consentirono l’ingresso nel massimo organo
rappresentativo di alcuni esponenti del dissenso. Le riforme economiche e la liberalizzazione
interna giovarono all’immagine dell’URSS e del suo nuovo leader. I tentativi di riforma economica,
però, finirono col suscitare malcontenti.
La disponibilità di Gorbacev al negoziato trovò un interlocutore in Reagan, che voleva costruire la
base per una nuova trattativa globale con l’URSS. Due successivi incontri fra i due segnarono la fine
di una lunga stagione di incomunicabilità, inaugurando un clima più disteso fra le due
superpotenze. Un terzo vertice portò a un accordo sulla riduzione degli armamenti missilistici in
Europa. Nel 1988 l’URSS si impegnò a ritirare le sue truppe dall’Afghanistan. Nuovi incontri al
vertice tra Gorbacev e Bush consentirono di porre le basi per accordi sulla riduzione di armamenti
strategici. Era la stessa idea di un ordine internazionale basato sul condominio fra USA e URSS a
entrare in crisi per l’improvviso collasso di uno dei due partner, l’Unione Sovietica.
Nella Germania Ovest si inaugurò la stagione dei giovani socialdemocratico-liberali che si sarebbe
prolungata per un quindicennio e si caratterizzò per una nuova linea di politica estera, volta alla
normalizzazione dei rapporti con i paesi di blocco comunista, soprattutto con la Germania Est. In
Gran Bretagna salirono al potere i conservatori: il nuovo primo ministro Thatcher inaugurò una
politica economica liberista intransigente, mettendo in discussione i fondamenti e la stessa
filosofia del Welfare state, privatizzando i settori importanti dell’industria pubblica. In Francia,
l’Unione delle Sinistre si impose nelle nuove elezioni, che portarono alla presidenza Mitterrand.
Portogallo, Spagna e Grecia furono protagonisti di rapidi e simultanei processi di fuoriuscita da
regimi autoritari. In Portogallo un colpo di Stato portò al potere un gruppo di ufficiali di sinistra che
istituirono un regime parlamentare e pluripartitico. In Grecia la dittatura dei colonnelli fu travolta
dall’insuccesso militare contro la Turchia a Cipro: fu ristabilita la dialettica partitica, mentre un
referendum popolare sanciva la fine della monarchia. In Spagna fu re Carlos di Borbone a guidare il
paese, approvando una Costituzione democratica.
In America Latina la caduta delle dittature diede di nuovo spazio alle democrazie. In Argentina la
dittatura dei generali cadde dopo l’occupazione argentina delle isole Malvine. Anche in Brasile,
Perù e Uruguay si ebbero libere consultazioni. Ovunque il consolidamento della democrazia trovò
gravi ostacoli economici.
La Cambogia fu invasa dal Vietnam che vi istallò un governo amico nell’intento di estendere il
proprio controllo sull’Indocina. Le forze vietnamite iniziarono a ritirarsi grazie all’intervento
dell’ONU.
In Cina ci fu un contrasto fra modernizzazione economica e struttura burocratica-autoritaria del
potere che fu all’origine di un movimento di contestazioni animati dagli studenti dell’Università di
Pechino e represse militarmente con il massacro di piazza Tienanmen del 1989.
Il Giappone subì gli effetti della crisi petrolifera che causò una caduta della produzione. Ma il tasso
di sviluppo era tornato a crescere in poco tempo, affermandosi come seconda potenza industriale
al mondo. La ridotta spesa militare imposta nel dopoguerra dagli USA non permetteva al Giappone
di assumere un ruolo in campo internazionale adeguato alla sua forza economica.
CAPITOLO 23
L’equilibrio internazionale basato sul bipolarismo USA-URSS si ruppe. L’impegno politico-militare
della leadership sovietica si rivelava come la manifestazione di un imperialismo. Ma quello che
rese irreversibile la crisi fu l’impossibilità di riformare un sistema che si era tenuto in piedi grazie al
suo carattere chiuso. Nel momento in cui il riformismo di Gorbacev cercava di introdurre dosi
controllate di pluralismo e rinunciando all’uso di forza nei confronti dei paesi satelliti, la
costruzione crollò. Ne approfittò la Polonia. Era nato e si era e sviluppato un sindacato
indipendente di ispirazione cattolica, chiamato solidarietà. La Polonia era sempre stata refrattaria
all’imposizione del modello comunista, e il clero aveva svolto un’attività di salvaguardia
dell’identità nazionale. Questa funzione risultò rafforzata con l’ascesa al pontificio di Karol Wojyla
col nome di Giovanni Paolo II. Un generale assunse la guida del governo e del partito operaio
polacco, che allenterà le misure repressive e cercò di riallacciare il dialogo con la Chiesa e con il
sindacato indipendente. Il dialogo si intensificò fino all’apertura di un negoziato. Ne uscì un
accordo su una riforma costituzionale, che prevedeva lo svolgimento di libere elezioni, che si
tennero nel 1989 e videro la vittoria del sindacato solidarietà. Il generale restò alla presidenza
della Repubblica, da cui si dimise dopo un anno. L’Ungheria seguì il modello polacco. I nuovi
dirigenti comunisti legalizzarono i partiti, ma la decisione più importante fu la rimozione dei
controlli polizieschi e delle barriere di filo spinato ai confini dell’Austria.
A partire dal 1989, migliaia di cittadini della Germania comunista abbandonarono il loro paese per
raggiungere la Repubblica federale attraverso Ungheria e Austria. La fuga in massa mise in crisi il
regime comunista. I nuovi dirigenti avviarono un processo di riforme interne e liberalizzarono la
concessione dei vista d’uscita del paese e dei permessi di espatrio. La sera del 9 novembre 1989,
dopo che un portavoce del governo tedesco-orientale aveva annunciato il ripristino della libera
circolazione tra le due metà di Berlino, un numero crescente di berlinesi si riversò nei varchi aperti,
li oltrepassò e cominciò a smantellare il muro. Il crollo del muro rappresentò la fine della guerra
fredda e della divisione in due l’Europa. Nel 1990 si tennero le elezioni e la vittoria andò ai
cristiano-democratici che accelerarono i tempi per la liquidazione di un’entità statale privata di
ogni legittimità e vuotata di funzione storica. Si inserì alla guida del governo Kohl che riuscì a
realizzare il sogno della Germania unita. Nel 1990 entrò in vigore il trattato di unificazione politica.
Non fu varata una nuova costituzione: ai tedeschi orientali fu consentito di convertire la loro
valuta in marchi, decisione costosa per la Repubblica federale. Ma comunque la Germania era
finalmente unita.
La caduta dei regimi comunisti dell’Europa orientale avvenne nella maggior parte dei casi in forma
pacifica, con l’eccezione della Romania, dove il dittatore tentò di reprimere l’insurrezione
popolare, ma fu catturato e giustiziato. Un caso diverso si verificò in Jugoslavia, dove si era aperta
una grave crisi economica e istituzionale che si innestava nei contrasti etnici. Nelle ex democrazie
popolari, la riconversione dell’apparto produttivo in funzione del mercato e il ritorno alla
democrazia non furono facili ma non furono messe in discussione.
Nel 1990 la stessa Repubblica russa rivendicò la propria autonomia dal potere federale ed elesse
alla presidenza il riformista Eltsin. La crisi dell’URSS si acutizzò quando si aggravò l’economia.
Questo equilibrio si ruppe nel 1991 quando un gruppo di esponenti della dirigenza sovietica tentò
la carta del colpo di Stato per bloccare il processo di rinnovamento. I congiurati sequestrarono
Gorbacev, ma i calcoli si rivelarono errati e il colpo fallì. A Mosca, una grande folla si raccolse a
presidio delle libere istituzioni conquistate, ponendo i golpisti di fronte alla scelta fra una
repressione o una ritirata. Decisivo fu Eltsin che si propose come il vero detentore del potere. Il
fallimento valse a spezzare via quanto restava del potere comunista, ma accelerò anche la crisi
dell’autorità centrale. I primi a rivendicare la propria indipendenza erano state le Repubbliche
baltiche, ma poi anche le Repubbliche caucasiche. Lo stesso fecero Ucraina e Bielorussia. Gorbacev
tentò di bloccare questo processo, ma la sua iniziativa fu scavalcata da quella dei presidenti delle
tre Repubbliche slave che si accordarono sull’ipotesi di una comunità di Stati sovrani ottenendo il
consenso delle altre Repubbliche ex sovietiche. Nel 1991 ad Alma Ata diedero vita a una Comunità
degli Stati Indipendenti e sancirono la scomparsa dell’Unione sovietica. Dunque la bandiera
sovietica fu ammainata dal Cremlino di Mosca e sostituita da quella russa.
Mentre in Cecoslovacchia si crearono due Repubbliche distinte, una ceca e una slovacca, il
processo di disgregazione della Jugoslavia fu drammatico e cruento. Slovenia, Croazia e Macedonia
proclamarono la loro indipendenza. Il governo federale reagì alla secessione della Croazia. Ne
nacque una guerra che dal 1992 si spostò in Bosnia, anch’essa ormai dichiarata indipendente. La
guerra si risolse in una serie di massacri, fino all’intervento della NATO del 1995, che costrinse la
Serbia a riconoscere l’indipedenza della Bosnia. Esplose la crisi del Kosovo, dove la repressione
attuata dai serbi nei confronti della popolazione albanese venne bloccata dalla NATO. Nel 2008
anche l’indipendenza del Kosovo venne riconosciuta. Nella Repubblica croata, inoltre, fu
sistematica la pulizia etnica, dunque persecuzioni e violenze rivolte contro le minoranze per
costringerle ad abbandonare le aree contese. Nel 1997 si assisté in Albania al collasso delle
strutture statali che si accompagnò a un imponente flusso migratorio. Fu dunque avviato un
percorso di ripresa economica e di stabilizzazione che consentì il consolidamento dello Stato e
l’avvicendamento al potere di forze moderate e progressiste.
La Repubblica russa era minacciata da movimenti separatisti e stentava a trovare un equilibrio
istituzionale. Il fronte degli avversari delle riforme trovò un luogo di aggregazione nel Congresso
del popolo. Il conflitto esplose nel 1993 quando Eltsin sciolse l’assemblea elettiva e indisse nuove
elezioni. Il Parlamento rispose destituendo il presidente, che reagì decretando lo stato di
emergenza. Ristabilito l’ordine, Eltsin varò una nuova Costituzione che rafforzava i poteri del
presidente. Decise poi un intervento militare in Cecenia, ma contrastata dalla resistenza degli
indipendentisti, l’operazione fallì. Il tentativo di Eltsin di accelerare il processo di transizione verso
il capitalismo e l’economia di mercato. Il passaggio ai privati di grandi concentrazioni industriali e
finanziarie finirono coll’avvantaggiare solo gruppi ristretti, mentre le condizioni di vita della
popolazione peggioravano. La crisi giunse nel 1998, travolgendo il rublo e costringendo il governo
a una dichiarazione di insolvenza sul debito della Russia con l’estero. Nel 1999 Eltsin scelse come
primo ministro Putin e lo indicò come suo successore, guadagnando popolarità. Eltsin si dimise e
nelle elezioni del 2000 vinse Putin. La sua presidenza si sarebbe caratterizzata per il tentativo di
restituire efficienza alla macchina dello Stato e di ridare slancio all’economia che cominciò a
manifestare segni di stabilizzazione finanziaria e di ripresa produttiva. Ma faceva anche riscontro
un crescente autoritarismo con arresti di oppositori e giornalisti che spesso sparivano senza avere
più notizie. Il regime di Putin godeva nel paese di una crescente popolarità. Sul fronte della politica
estera abbiamo due direzioni: da una parte il tentativo di presentarsi come interlocutore
affidabile; dall’altro, l’ambizione di raccogliere l’eredità dell’URSS in quanto unica potenza capace
di controbilanciare e limitare l’egemonia degli Stati Uniti. A preoccupare i dirigenti russi era
l’ingresso nella NATO degli ex satelliti dell’URSS, che dunque si estendeva sempre più verso l’Est.
Gli Stati Uniti erano rimasti l’unica superpotenza. La presidenza di Bush, intanto, subiva un calo di
popolarità, dovuto ai problemi economico-sociali: crebbe anche la disoccupazione e accresceva il
divario tra poveri e ricchi. Nelle elezioni del 1992, infatti, Bush fu sconfitto da Clinton. Il nuovo
presidente cercò di imprimere un segno progressista e di rilanciare l’immagine degli Stati Uniti
anche come difensori della democrazia. Il suo primo mandato poteva comunque vantare un netto
miglioramento dell’economia, con una diminuzione della disoccupazione e del deficit di bilancio.
Poco dopo, però, emergevano accuse relative alla sua vita privata, che rischiarono di incrinare
l’immagine pubblica e il prestigio internazionale di Clinton, ma non scalfirono quella interna. Nel
2000, scaduto anche il secondo mandato, nelle nuove elezioni, vinse per pochissimi voti di
differenza Bush junior. La sua era una politica che seguiva una linea conservatrice nella politica
interna, e in politica estera orientata a una tutela degli interessi nazionali.

CAPITOLO 24
Si affermò in Europa una prospettiva, quella federalista, fondata su una federazione politica che
portasse agli Stati Uniti d’Europa. Prevalse un approccio funzionalista e che privilegiava la messa in
comune di funzioni e compiti specifici trasferendone la gestione dalle autorità nazionali a quelle
comunitarie. Le due logiche, quella funzionalista e quella federalista, era molto diverse e il
passaggio dalla prima alla seconda si sarebbe rivelato complicato.
La Comunità economica europea allargò i suoi confini e raddoppiò il numero dei suoi membri, da
sei a dodici. Si decise che i capi di governo dei paesi membri si sarebbero incontrati a scadenze
regolari, dando vita al Consiglio europeo, che avrebbe avuto la responsabilità di tracciare le linee-
guida del processo di integrazione. Inoltre la sede del Parlamento è a Bruxelles. Le prime elezioni
del Parlamento europeo si tennero nel 1979, anno in cui entrò in funzione il Sistema monetario
europeo: un sistema di cambi fissi fra le monete dei paesi membri.
Un passo importante fu la firma degli accordi di Schengen che impegnava gli Stati membri ad
abolire i controlli alle frontiere sul transito delle persone. Si stabiliva, inoltre, che entro il 1992
sarebbero state rimosse le barriere alla circolazione delle merci e dei capitali e si introduceva il
voto a maggioranza nel Consiglio europeo dei ministri. Un nuovo trattato fu quello di Maastricht,
che sanciva la completa unificazione dei mercati e allargava l’area di competenza delle istruzioni
europee a campi nuovi. La decisione più significativa fu l’impegno di realizzare il progetto di una
moneta comune e di una Banca centrale europea. Ma si stabiliva anche tassi di inflazione
contenuti.
Fu molto difficile realizzare questo progetto, tanto che le politiche restrittive aggravarono la crisi
dei sistemi del welfare e rendevano difficile l’uso della spesa pubblica per creare nuovi posti di
lavoro. I parametri europei ebbero effetti salutari sulle politiche economiche di quei paesi che
sembravano lontane dagli obiettivi fissati. Nel 1998 venne inaugurata l’Unione monetaria europea
con la partecipazione di undici stati. Venne istituita anche la Banca centrale europea che assorbiva
alcune delle funzioni prima spettanti alle banche centrali dei singoli stati membri, come
l’emissione di moneta e il controllo sul tasso di interesse. Inoltre si fissò per il 1 gennaio 1999
l’entrata in vigore negli scambi finanziari della moneta unica, destinata tre anni dopo a sostituire le
monete nazionali.
Conservatori e progressisti continuarono ad alternarsi alla guida dei governi europei. In Germania,
ad esempio, nel 2005 l’equilibrio tra i due partiti principali portò a un accordo sulle misure
necessarie per il rilancio dell’economia e alla nascita di un governo di grande coalizione presieduto
da Angela Merkel. In Gran Bretagna si concluse il governo di Blair che diede le sue dimissioni e
lasciò la carica a Brown.
Si accelerava il processo di allargamento che avrebbe portato l’Unione a coincidere con l’Europa
geografica. Nel 2013, con l’ammissione della Croazia, il numero degli stati membri sale a 28.
Questo allargamento riaccese il dibattito sul ruolo delle istituzioni comunitarie e sulla loro capacità
di offrire all’Europa una guida forte. La Convezione si riunì a Nizza nel 2001 presentò un progetto
di Costituzione che sarebbe stato approvato nel 2003. L’approvazione di questa costituzione
europea avrebbe dovuto rappresentare il primo passo verso un’integrazione politica del
continente. Il traguardo appariva lontano. Ci vorrà il 2007 per rilanciare il processo di integrazione.
In questo vertice i capi di Stato e di governo dei paesi membri si accordarono sul testo di un nuovo
trattato di riforma, che correggeva la Convenzione di Nizza, ma allargava le competenze delle
autorità europee in materia di energia e sviluppo, di immigrazione e di lotta contro la criminalità.
Ma proprio a partire dal 2007, l’Europa conosce una crisi economica mai vista prima, che contribuì
a rallentare il cammino verso l’unità europea. Le difficoltà finanziarie misero in allarme le più forti
economie dei paesi del Nord. Si cominciò a parlare di una possibile uscita dall’UE dei membri
inadempienti, come Grecia e Italia, gravati di un pesante debito pubblico. Ma nel 2016, sarà
proprio la Gran Bretagna, che da sempre soffriva dei limiti imposti dalle regole dell’Unione sulle
scelte economiche e di politica estera, a tirarsi indietro con la Brexit: questo faceva subire alla
costruzione europea la sua prima defezione.

CAPITOLO 25
I principali focolai di tensione del sistema internazionale si manifestarono in Medio Oriente. Uno
dei fattori importanti fu la rinascita del fondamentalismo islamico: quella corrente che, sulla base
di una interpretazione rigida delle norme del Corano, mirava a una reislamizzazione della società e
chiamava i musulmani alla guerra santa contro gli infedeli e gli eretici. I motivi nazionalisti si erano
imposti sull’onda delle lotte contro il dominio europeo e avevano represso l’attività dei gruppi
religiosi tradizionalisti. Furono gli insuccessi dei regimi laici ad aprire spazi ai movimenti radicali. Il
rilancio dell’islam fondamentalista si accompagnò al riacutizzarsi delle antiche divisioni religiose
interne al mondo musulmano, a cominciare dalla distinzione tra sunniti e sciiti.
Sadat si convinse della necessità di far uscire il suo paese da uno stato di guerra e di trovare una
soluzione pacifica al conflitto con Israele. La premessa della svolta fu il riavvicinamento agli Stati
Uniti: Sadat attuò un rovesciamento di alleanze, congelando i rapporti con l’URSS. Il presidente
egiziano si recò in visita a Gerusalemme e formulò la sua offerta di pace. Il governo israeliano
accolse la proposta e dunque si aprirono i negoziati diretti tra le due parti. I due ministri si
incontrarono a Camp David e sottoscrissero un accordo che prevedeva un trattato di pace fra i due
paesi che sarebbe stato firmato alla Casa Bianca. Le cose andarono diversamente: la scelta di
Sadat fu condannata dagli Stati arabi e il presidente egiziano fu ucciso al Cairo.
In Iran una rivoluzione rovesciò la monarchia e istaurò una repubblica di stampo teocratico e
fondamentalista guidata da Khomeini. Il nuovo regime entrò in contrasto con gli Stati Uniti e tenne
sequestrato per più di un anno il personale dell’ambasciata americana a Teheran. L’Iran, che stava
subendo una crisi economica, fu attaccato dall’Iraq che, con l’appoggio degli USA, cercò di
impadronirsi di alcuni territori da tempo contesi fra i due paesi: una guerra che durò otto anni er
risolversi in un’inutile carneficina, causando numerose vittime.
L’invasione di Kuwait nel 1990 da parte dell’Iraq di Saddan Hussein provocò la condanna
immediata della NATO e l’intervento militare di una coalizione guidata dagli Stati Uniti, che agiva
sotto la bandiera dell’ONU. La campagna fu rapida e vittoriosa, ma il regime di Saddan fu in grado
di resistere.
La tensione tra gli Stati arabi e l’OLP accrebbe la tensione quando i palestinesi dei territori occupati
diedero vita a una lunga rivolta, detta intifada, contro gli occupanti, che reagirono con una dura
repressione. I riflessi dell’irrisolto nodo palestinese si erano fatti sentire anche in Libano, un
piccolo stato pluriconfessionale e plurietnico. Il Libano entrava in uno stato di cronica guerra civile,
in cui tutte le fazioni si fronteggiavano con le loro milizie armate e si combattevano a copi di
attentati e di massacri ai danni della popolazione civile. La situazione si aggravò quando l’esercito
israeliano invase il paese spingendosi fino a Beirut per cacciarne le basi dell’Olp. Il Libano rimase
da allora lacerato da lotte intestine, che avrebbero fornito alla vicina Siria il pretesto per
intervenire militarmente nel paese e imporvi un protettorato. Fu convocata a Madrid la prima
sessione di una conferenza di pace sul Medio Oriente. Una spinta al processo di pace venne dalla
vittoria del Partito laburista nelle elezioni politiche israeliane dopo quasi un ventennio di egemonia
de Fronte nazionalista. Il primo ministro bloccò i nuovi insediamenti ebraici nei territori occupati e
si mostrò propenso dei suoi predecessori a concessioni territoriali in cambio della pace. Un’altra
svolta si profilò nel 1993 quando il primo ministro e il ministro degli Esteri presero la decisione di
rimuovere il principale ostacolo che si opponeva al progresso dei negoziati e di trattare
direttamente con l’OLP. Venne poi anche firmato un accordo segreto e prevedeva un graduale
autogoverno palestinese nei territori occupati. L’accordo fu sottoscritto Washington sotto
l’auspicio di Clinton. L’attività terroristica di questi gruppi si intensificò col ricorso ad attentati
suicidi che fecero numerose vittime tra le forze armate e la popolazione civile di Israele. I continui
attacchi suscitarono nella crescita di gruppi estremistici a sfondo nazionalistico e religioso. Il
partito laburista, dopo la morte del ministro, subì uno scossone, perdendo nelle elezioni politiche,
vinte dal partito di Netanyahu. Firmarono agli Stati Uniti un nuovo accordo che fissava i tempi del
ritiro israeliano dei territori occupati in cambio di un impegno da parte delle autorità palestinese
nella repressione del terrorismo. L’accordo per una pace globale e definitiva fu ancora una volta
mancato, anche per i contrasti relativi alla sovranità sui luoghi santi di Gerusalemme e al destino
dei profughi palestinesi che chiedevano di poter tornare nelle terre abbandonate. A innescare lo
scontro fu una visita compiuta dal generale israeliano alla spinata delle Moschee di Gerusalemme.
La seconda intifada fu più cruenta. Il conflitto divenne cronico e ripresero attentati condotti contro
i civili da organizzazioni estremistiche come Hamas: un movimento islamista che si era radicato
negli starti più poveri della società.
Aumentò la diffusione delle correnti fondamentaliste nell’intero mondo islamico. Questa tendenza
ebbe un nuovo impulso in occasione dell’intervento occidentale contro l’Iraq. Le tendenze
fondamentalistiche trovarono una base in Afghanistan sotto il regime dei talebani che
approfittarono della situazione di anarchia creatasi dopo il ritiro dei sovietici per assumere il
controllo del paese e imporvi un regime oscurantista. In Algeria la reazione dei gruppi
fondamentalisti all’annullamento delle elezioni del 1992 provocò una serie di massacri. In Turchia
nel 2002 si affermò il partito di ispirazione islamico-moderata guidato da Erdogan. Il suo governo
fu caratterizzato da politiche autoritarie e repressive nei confronti delle minoranze. La diffusione
del radicalismo islamista suscitò molte preoccupazioni tanto che fu evocata la prospettiva di uno
scontro di civiltà.

CAPITOLO 26
La fine degli anni 60 fu caratterizzata in Italia da una radicalizzazione dello scontro sociale che
ebbe come protagonisti prima gli studenti, poi la classe operaia. La mobilitazione degli studenti
universitari portò all’occupazione di numerose facoltà universitarie, a grandi manifestazioni di
piazza e frequenti scontri con le forze dell’ordine. Il movimento studentesco assunse una posizione
ostile nei confronti del sistema capitalistico e della cultura borghese. Il movimento studentesco
individuò il suo maggiore interlocutore nella classe operaia. La ricerca di un collegamento col
proletariato derivava dall’influenza di gruppi intellettuali schierati su posizioni operaiste.
L’operaismo fu il tratto distintivo di alcuni nuovi gruppi politici che nacquero in questi anni
sull’onda del movimento studentesco e che furono chiamati extraparlamentari. La riscoperta della
centralità operaia da parte del movimento degli studenti coincise con una stagione di lotte dei
lavoratori dell’industria e culminata nel cosiddetto autunno caldo. Le lotte ebbero come
protagonista principale la figura dell’operaio di massa. Le tre maggiori organizzazioni sindacali
riuscirono a prendere in mano la direzione delle lotte e a pilotarle verso la firma di una serie di
contratti nazionali che assicurarono ai lavoratori dell’industria cospicui vantaggi salariati.
L’impegno comune nelle lotte dell’autunno caldo servì a riavvicinare le tre confederazioni sindacali
che avviarono un processo di unificazione. Cominciò una fase in cui i sindacati assunsero un peso
crescente nella vita del paese trattando direttamente col governo. Il nuovo peso delle
organizzazioni sindacali fu favorito dall’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, che garantiva
anche le libertà sindacali. Comunque le lotte degli studenti e degli operai trovarono pochi sbocchi
politici. Le elezioni del 1968 non modificarono i rapporti di forza tra i partiti e la classe dirigente si
mosse con molte incertezze. Nel campo dell’istruzione importante fu la liberalizzazione degli
accessi alle facoltà universitarie. Inoltre fu approvata la legge Fortuna-Baslini che introduceva
l’istituto del divorzio.
Nel dicembre del 1969 una bomba esplosa a Milano, in piazza Fontana provocò morti e feriti. Un
evento che aprì per l’Italia una lunga stagione di violenze e di attentati. Si parlò di una strategia
della tensione messa in atto dalla destra eversiva per incrinare le basi dello Stato democratico e
favorire soluzioni autoritarie. La conferma di una minaccia alle istituzione venne nel 1970 dalla
rivolta di Reggio Calabria: una violenta sommossa popolare che traeva spunto dalla mancata
designazione della città come capoluogo. Dopo le elezioni del 1972 si tentò il ritorno a una formula
centrista con il governo guidato da Andreotti, ma l’esperimento ebbe breve durata. Si aggiungeva
anche un disagio provocato da una serie di scandali in cui furono coinvolti imprenditori ed
esponenti delle forze di governo. Si accentuava anche l’impegno dei cittadini sul terreno dei diritti
civili. Quando la nuova legge del divorzio fu sottoposta al referendum, ebbe un enorme successo.
Questi mutamenti trovarono riscontro in due leggi: la riforma del diritto di famiglia, che sanciva la
parità giuridica fra i coniugi; l’abbassamento della maggiore età da ventuno a diciotto anni. A
cogliere i frutti politici di questa stagione fu il partito comunista che prese le distanze dall’URSS.
Nel 1973 il segretario Berlinguer sostenne la necessità di giungere ad un compromesso storico,
ossia a un accordo di lungo periodo tra le forze comuniste, socialiste e cattoliche, come unica via
per scongiurare i rischi di soluzioni autoritarie e per allargare le basi dell’azione riformatrice. In
seguito i comunisti stabilirono contatti con quelli francesi e spagnoli per avviare una politica
comune in Europa occidentale: si parlò di eurocomunismo. Il carattere moderato della proposta di
Berlinguer fece del partito comunista i principale luogo di incontro delle istanze di trasformazione
della società italiana. Tramite le elezioni del 1976 il centro-sinistra perde la maggioranza.
Si giunse alla costituzione di un governo monocolore democristiano guidato da Andreotti, che
ottenne l’astensione in Parlamento di tutti gli altri partiti. Cominciava la breve stagione ei governi
di solidarietà nazionale, basati su maggioranze allargate anche al partito comunista. I due
terrorismi, quello nero (di destra) e quello rosso (di sinistra), erano diversi anche nel modo di
operare. Il tratta distintivo del terrorismo di destra fu il ricorso ad attentati dinamitardi in luoghi
pubblici. La convinzione di larga parte dell’opinione pubblica, che attribuì le stragi a esponenti
della destra, non sempre trovò conferma nelle sentenze della magistratura. L’immagine di uno
stato debole e minato dalla corruzione politica, la presenza di un terrorismo di destra e la psicosi di
un colpo di stato furono tra i fattori che contribuirono alla nascita del terrorismo di sinistra. Per i
terroristi l’azione armata si presentava come un atto esemplare, come un messaggio destinato alla
classe operaia. Ai primi isolatati attentati incendiari contro fabbriche o sedi di partito, seguirono
sequestri di dirigenti industriali e di magistrati. Con l’uccisione del procuratore Francesco Coco, si
giunse all’omicidio programmato. Gli autori di queste azioni appartenevano alle Brigate rosse. Il
governo si confrontò con la crisi economica. L’inflazione era dovuta all’aumento del prezzo del
petrolio. I suoi effetti furono amplificati dal nuovo meccanismo di scala mobile introdotto nel 1975
grazie a un accordo fra i sindacati e Confindustria. Il problema più drammatico era però la
disoccupazione, soprattutto giovanile. Un nuovo movimenti di studenti universitari, nel 1977,
diede luogo a occupazioni di università e a scontri di piazza, che videro per la prima volta l’uso di
armi da fuoco dai dimostranti. Bersaglio principale della contestazione fu la sinistra tradizionale,
soprattutto comunisti e sindacati, considerati troppo moderati. Nel 1978 le Brigate rosse misero in
atto il loro progetto più ambizioso. Il 16 marzo un commando brigatista rapì Aldo Moro, presidente
della democrazia e artefice della solidarietà nazionale, uccidendo cinque uomini della sua scorta. A
quella giornata seguirono 55 giorni di attese e di polemiche di fronte alla sofferta decisione
appoggiata dal partito comunista e dalla maggioranza della democrazia cristiana, m contesta dal
partito socialista e dal mondo cattolico. Il 9 maggio Moro fu ucciso e il suo cadavere abbandonato
nel bagagliaio di un’auto in una strada del centro di Roma. Il governo cercò di avviare il
risanamento dell’economia e da una moderazione delle richieste sindacali. La situazione
finanziaria diede segni di miglioramento, ma la difficoltà di conciliare tutti gli interessi
rappresentati nella coalizione portò a risultati discutibili. La politica di solidarietà nazionale non
produsse risultati adeguati all’ampiezza delle forze impegnate. In questi anni continuarono a
verificarsi episodi di cattiva gestione o di corruzione politica. Gli scandali giunsero a toccare la
presidenza della Repubblica, costringendo alle dimissioni Leone. Al suo posto fu eletto Sandro
Pertini. Il nuovo corso impresso da Craxi alla politica socialista creava le condizioni per una ripresa
dell’alleanza fra il partito socialista e i partiti del centro. Il partito comunista abbandonò la
maggioranza.
Chiusa la parentesi della solidarietà nazionale, l’unica strada praticabile fu il ritorno alla coalizione
di centro-sinistra (Dc, Psi, Partito repubblicano italiano, Psdi), con l’aggiunta del partito liberale:
dando vita al governo pentapartito. Prese il potere Craxi. Fu stabilito un nuovo concordato con la
Santa Sede, che ritoccava gli accordi del 1929 lasciandone cadere le clausole anacronistiche. Il
governo di Craxi si sarebbe caratterizzato per il tentativo di potenziare il ruolo del Presidente del
Consiglio e di affermare la presenza dell’Italia nella politica internazionale. Si registrò un
mutamento degli assetti politico-sociali. I sindacati mutarono la loro prima grave sconfitta nella
vertenza apertasi con la Fiat sul problema della riduzione della manodopera. L’azienda torinese
riuscì a imporre le proprie scelte di razionalizzazione produttiva e l’allontanamento dei
responsabili di violenze in fabbrica, la cosiddetta marcia dei quarantamila, che sfilarono in corteo a
Torino chiedendo il ritorno dell’ordine. Da questo momento, il sindacato viene ridotto. Anche in
Italia videro svilupparsi una polemica che giungeva a mettere in discussione alcune strutture
portanti del Welfare state. Queste difficoltà vennero compensate da una ripresa dell’economia
che superò la fase recessiva grazie all’aumento delle esportazioni e al rinnovamento tecnologico.
Nel complesso il sistema economico italiano manifestò una vitalità. Il fenomeno si spiegava con la
crescita dell’economia sommersa, ossia quella di piccole imprese disseminate nella provincia
italiana e caratterizzate da alta produttività, da bassi costi e da una capacità di adattamento alle
esigenze del mercato. Il fenomeno della corruzione politica rivelò un nuovo volto degli anni 80,
con lo scandalo della Loggia P2, una specie di branca segreta della Massoneria. Lo scioglimento
della Loggia verrà decretato da Spadolini. Il dilagare delle organizzazioni criminali si configurava
come aperta sfida ai poteri dello Stato. L’episodio più drammatico fu nel 1982 con l’assassinio del
generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, inviato a Palermo come prefetto per coordinare il contrasto
alla mafia. La svolta avvenne quando alcuni terroristi arrestati decisero di abiurare la lotta armata
e di denunciare i compagni in libertà. Il numero dei pentiti, infatti, aumentava sempre di più visto
che la magistratura prevedeva riduzione della pene.
I contrasti interiori alla maggioranza portarono nel 1987 alla crisi del governo Craxi e a nuove
elezioni anticipate, che segnarono un progresso del Partito socialista italiano e un calo del partito
comunista, ma soprattutto l’emergere di nuove forze politiche: gli ambientalisti e le leghe
regionali. Dopo le elezioni, la coalizione si ricostituiva dando vita a nuovi governi a guida
democristiana. Si accentuava frattanto nell’opinione pubblica la critica alle disfunzioni del sistema
politico e l’attesa delle riforme istituzionali.
Si è soliti indicare con Seconda Repubblica l’assetto politico-istituzionale determinatosi in Italia
nella prima metà degli anni 90, con il crollo dei vecchi partiti e il rinnovamento della classe politica.
La nascita del nuovo sistema fu il risultato di una serie di passaggi imprevisti e a volte traumatici
che si consumarono nel giro di due anni. Segnali negativi venivano dall’economia. Molte imprese
italiane perdevano competitività sui mercati internazionali, anche perché penalizzate
dall’inefficienza della pubblica amministrazione. Sul piano della vita politica, la prima importante
novità fu la trasformazione del partito comunista italiana nel Partito democratico della sinistra. La
decisione avrebbe dovuto sbloccare la principale forza di opposizione e porre le premesse per una
ricomposizione della sinistra italiana nel segno del riformismo democratico. La proliferazione di
piccoli movimenti esasperava la frammentazione dello schieramento parlamentare e rendeva
difficile la governabilità. Le elezioni del 1992 vedevano la sconfitta dei democristiani e del partito
democratico della sinistra. All’indomani delle elezioni, il Parlamento elesse alla presidenza della
Repubblica, Scalfaro. Un nuovo scandalo stava coinvolgendo un numero crescente di uomini
politici accusati di aver preteso e ottenuto tangenti per la concessione di appalti pubblici.
L’inchiesta “Mani pulite” svelava un diffuso sistema di finanziamento illegale dei partiti e dei
singoli uomini politici che definita “Tangentopoli”. Il sistema delle tangenti rivelava una
penetrazione capillare che aggravava la crisi dei partiti e testimoniava della loro incapacità di
rinnovarsi. Anche Andreotti fu accusato da alcuni pentiti di collusione con mafia, accuse cadute nel
corso dei processi. Il 23 maggio 1992 un attentato al tritolo lungo l’autostrada fra l’aeroporto di
Palermo e la città uccise il magistrato Giovanni Falcone, la moglie e tre agenti della scorta. Il 19
luglio, il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti furono uccisi da un’autobomba in piena
Palermo. Falcone e Borsellino erano figure da tempo in prima fila nella notte alla mafia. La morte
dei due magistrati scosse l’opinione pubblica e stimolò un potenziamento dell’azione di
magistratura e polizia che avrebbe portato all’arresto del capo dei capi dell’organizzazione
mafiosa, Salvatore Riina. Celebre fu l’evento televisivo, nel 1993, quando Maurizio Costanzo, nel
suo Costanzo Show, bruciò in diretta televisiva una maglia sulla quale era scritto “MAFIA – MADE
IN ITALY”: questo poi portò ad un attentato in Via Fauro, a Roma in seguito alla fine della
registrazione di una puntata della trasmissione, quando una Fiat Uno imbottita di tritolo è esplosa
mentre transitava l’auto sulla quale viaggiava Maurizio Costanzo e Maria De Filippi insieme
all’autista. Il nuovo governo presieduto da Amato si trovò ad affrontare un compito complicato. Si
aggiungevano a tutti questi problemi anche la crisi produttiva e la crescita del debito pubblico. Il
governo affrontò il problema finanziario con interventi fiscali e con alcune manovre volte a
contenere le spese. Nel 1993 i cittadini approvarono a larga maggioranza il quesito che
introduceva il sistema maggioritario uninominale al Senato. Il successo del referendum suonava
come una sconfitta per il sistema dei partiti. Amato rassegnò le dimissioni. Il presidente della
Repubblica chiamò Ciampi, che formò un nuovo governo. Il nuovo esecutivo si impegnava a
favorire il varo di una riforma elettorale che recepisse il principio maggioritari indicato dal
referendum e prometteva di proseguire l’opera di risanamento delle finanze pubbliche. Si segnava
la fine della Repubblica dei partiti.
L’elemento di maggior novità nello scenario italiano fu l’ingresso in politica dell’imprenditore
televisivo Silvio Berlusconi. Proprietario delle tre maggiori reti televisive private, Fininvest, e del
Milan, nel 1994 la sua discesa in campo con il dichiarato obiettivo di arginare un successo delle
sinistre e di ricompattare uno schieramento moderato disperso. Nel giro di pochi mesi, Berlusconi
riuscì a fondare un proprio partito, Forza Italia, che si presentava con un programma di ispirazione
liberale, ma anche a mettere assieme una doppia alleanza elettorale con la Lega del Nord e
l’Alleanza nazionale. Le elezioni politiche del 1994 decretarono il successo delle forze raccolte
intorno a Berlusconi che ottennero la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera. Mentre
Berlusconi bollava i suoi avversari come eredi del comunismo, la sinistra accusava Berlusconi di
attentare ai fondamenti antifascisti della Repubblica e denuncia il conflitto di interessi del
presidente del Consiglio. Berlusconi dunque formò il nuovo governo, ma l’alleanza si formò fragile.
Era soprattutto la Lega a manifestare insofferenza nei confronti di possibili misure di austerità e a
voler riprendere la sua libertà d’azione, scontrandosi con altre componenti della nuova
maggioranza. Berlusconi fu raggiunto da un avviso di garanzia della magistratura milanese per una
vicenda di tangenti da cui poi sarebbe uscito prosciolto. Un mese dopo il governo fu costretto a
dimettersi per il ritiro della fiducia dalla Lega. Nel 1995 Dini formò un nuovo governo con
l’obiettivo di contenere la spesa pubblica e di portare il paese a nuove elezioni. Il governo Dini
divenne sempre più espressione del centro-sinistra, mentre il centro-destra passava a
un’opposizione reclamando l’immediato ritorno alle urne. Nell’imminenza delle nuove elezioni i
due schieramenti principali si riorganizzarono. La novità fu la nascita dell’Ulivo, un nuovo
contenitore politico di centro-sinistra con la guida di Prodi. Sull’altro fronte abbiamo Forza Italia e
Alleanza nazionale che erano racchiuse nel Polo delle libertà. Dunque nelle elezioni del 1996
l’Ulivo si impose ottenendo la maggioranza assoluta al Senato e quella relativa alla Camera.
Il nuovo governo dunque fu nelle mani di Prodi, a cui spettava il compito di equilibrare la
necessaria politica di rigore con la tutela dei ceti meno protetti e di rilanciare l’economia e
l’occupazione. Il primo obiettivo fu quello di ridurre il deficit del bilancio statale. Una serie di
interventi fiscali e di tagli alla spesa pubblica consentirono all’Italia di poter diffondere l’euro a
partire dal 2002. I correttivi imposti prevedevano calcolare la pensione in base ai contributi versati
nella vita lavorativa. Nel 1998 Rifondazione comunista negò la fiducia al governo Prodi, che fu
costretto a dimettersi. Si formò un nuovo governo di centro-sinistra presieduto da D’Alema, leader
del nuovo Democratici di sinistra. L’ascesa del suo governo non riuscì a spegnere le
microconflittualità interne alla maggioranza dove ogni raggruppamento cercava di far pesare il suo
contributo determinante. In politica interna il suo governo non resse alla prova delle elezioni del
2000, dunque si dimise e al suo posto fu richiamato Amato. La principale realizzazione di
quest’ultima fase della legislatura fu l’approvazione di una legge costituzionale che introduceva
alcune importanti modifiche all’ordinamento italiano in materia di poteri degli enti locali. Fra il
1996 e il 2001 il centro-sinistra aveva guidato l’Italia verso la nuova dimensione europea, ma il
paese sembrava mantenere le caratteristiche legate alle specifiche tradizionali della sua vita
pubblica e del suo ordinamento istituzionale.

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