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Language: Italian
GIUSEPPE GUERZONI
MILANO
E. Treves, Editore
1869
Quest’opera, di proprietà dell’editore E. Treves, è posta sotto
la salvaguardia della Legge per la proprietà letteraria.
MILANO. — Tip. Treves.
Alla prima edizione di questo libro io premetteva queste brevi parole:
AL LETTORE
«A queste pagine è fallito l’unico pregio che le poteva
rendere tollerabili: l’opportunità.
«Ci furono giorni in cui il tema che qui si svolge correva su
tutte le bocche: la stampa ne rumoreggiava, il Parlamento ne
discorreva, il paese tutto ne risentiva: e allora anche un
libercolo che vestisse delle forme più sensibili e popolari
dell’arte uno de’ tanti episodi della infantile e pietosa
odissea, non sarebbe riescito, crediamo, sgradito e superfluo.
Spiritus fiat ubi vult: l’arte fa miracoli e di questi oscuri
problemi sociali, a fronte dei quali la filosofia si smarrisce e
la politica esita, l’arte soltanto sa trovare per la via del cuore
la più felice tra le soluzioni: quella della pietà. Fate che si
pianga e la causa sarà vinta. Ma che altro è il pianto, dolore,
o gioia, se non la parola suprema della poesia?
«Oggi è tardi, almeno mi si assicura. La coscienza pubblica
è illuminata, il fatto è notorio, la lite è decisa, e il governo
stesso che è sempre l’ultimo e convincersi e ad intervenire,
sta maturando i suoi provvedimenti!
«Frattanto non resta più che il libro qual è: povero, nudo,
solo, come il mendico del Vangelo; uno di più nella folla
delle moderne mediocrità!
«È vero che la facile contentatura del nostro tempo mi
franca dalla paura di un giudizio inclemente, e non mi
occorre drappeggiarmi nel superbo motto: — Ho visto una
piaga sociale ed ho scritto un libro. —
«Tuttavia se la critica eccelsa degnasse abbassare gli occhi
sopra questa quisquilia, non dimentichi, per cortesia, il
suggerimento che io stesso le profferisco: — Una buona
intenzione può schiudere il paradiso, ma non scusare un
libro cattivo. —
«Che se una lacrima gentile cadesse sulla mesta leggenda
istoriata in queste pagine, vada tutta in testimonianza della
santità della causa, ed a beneficio delle migliaia di compagni
di Carluccio e Stefanella che, divelti da questa Italia che non
sa ancora proteggere i suoi figli, stentano e muoiono per
tutta la superficie della terra proclamata civile.»
I.
Nel cuore della Calabria citeriore, a tre ore da Cosenza e ad una dal porto di
Paola, la culla del santo taumaturgo, là dove le acque del Crati furono
deviate per scavare nel suo letto al barbaro Alarico un sarcofago che nessun
piede umano potesse calpestare, sorge un misero villaggio che
probabilmente dalle ritorte correnti del fiume piglia il nome di Ritorto. È un
mucchio di squallidi casolari gettati a caso sul dorso d’una nuda pendice,
come un fanciullo orfano gettalo in mezzo ad un deserto fra i fantasmi della
notte. Alle spalle lo incalzano le ombre delle alte quercie della Sila, classico
asilo di ribelli; di fronte gli si stende, altro infinito misterioso, il mare; ai
lati, sulla testa, all’intorno lo minacciano i giganteschi profili dell’apennino
Bruzio e le bocche aperte di qualche spento cratere. Ivi tal volta tutti gli
orrori del cielo e della terra si dànno convegno come in un sabato festivo, e
mentre la Sila manda i sibili de’ suoi abeti che la fantasia popolare crede
ancora abitati dagli spettri redivivi di Spartaco e di Rufo, il mar Tirreno
inferocito scaraventa sulla montagna i suoi cavalloni, e la montagna
risponde di sotterra col terremoto, e dalla cima con un’eruzione di briganti,
unici re di quelle solitudini e di quelle notti, l’orrido vivente di quell’orrido
inanimato.
La notte del 24 febbraio 1850 era una di queste. I briganti non erano
comparsi sulla montagna, ma in ricambio vi era caduta la neve; le viscere
della terra tacevano, ma un terribile vento di levante soffiava dalla foresta, e
passando collo scroscio d’una mitraglia attraverso le case del villaggio
andava a gettarsi sul golfo di Policastro, e vi destava tutte le collere della
tempesta. Poteva essere un’ora di notte, contando all’italiana, e il
coprifuoco era appena suonato, ma il casale era muto come un sepolcreto.
Non un fil di luce trapelava, non una voce zittiva, non un atomo si moveva.
Ogni porta era sbarrata, ogni imposta chiusa, ogni animale accovacciato: i
bambini tremavano sotto le coltri e le madri sveglie pregavano per sè e per
essi. Sola la campanella della chiesa scossa dal vento, mandava di quando
in quando un suono gemebondo, quasi assumesse ella sola di far sonare al
cielo il lamento che gli uomini non osavano.
In quell’ora, in uno degli ultimi e più miserabili abituri, isolato in
quell’isolamento come un figlio reietto, si presentava questa scena.
II.
L’uomo, malgrado i visibili guasti del tempo e della miseria, era uno dei tipi
più puri del montanaro calabrese. Poteva avere cinquant’anni, ma in quella
notte ne dimostrava venti di più. Trent’anni prima nessuno aveva portato
sull’orecchio con maggior garbo di lui il cappello appuntito coronato di
nastri di velluto, nessuno maneggiata con maggior destrezza la lunga
carabina, nessuno balzato con maggior agilità pei dirupi delle sue montagne
e snodate le gambe con maggior grazia in una paesana ancioca. Oggi la
tinta lucida e olivigna del suo volto, leggiadria de’ magno-greci antichi e
de’ palicari moderni, s’è corrotta nel color giallo degl’itterici: le sue
chiome, un dì corvine e ricciute, gli scendono da tutti i lati setolose,
arruffate e canute: l’occhio nero, una volta pieno di fòlgori, ora divenuto un
morto cristallo incavernato in due profonde occhiaie: i garretti ossei e
nerboruti d’un tempo gli tremolavano flosci e cascanti: tutte le sue vesti non
erano più che un immondo ciarpame a stento tenuto insieme dall’industria
dell’ago e del filo, e da quell’ontume addensato dal tempo che, facendo
ufficio di colla, ne cementava i brandelli.
Abbiamo detto montanaro, ma potevamo dire senz’altro brigante, perchè
tale era stato per tutta la vita il suo mestiere. Nè egli l’avrebbe lasciato, se
nell’ultima levata dei repubblicani rifugiati in Calabria dopo il colpo di
Stato del 15 maggio, la palla d’un gendarme napoletano non gli avesse
fracassato il braccio destro e postolo nella impotenza di sostenere gli stenti
della vita randagia e pugnace alla quale s’era votato.
Ma il ferito aveva saputo nascondere il fatto tenendosi rimpiattato per due
mesi in uno dei burroni della Sila, sicchè quando ricomparve alla luce,
aiutato anche dalla fida clientela dei manutengoli, potè dar ad intendere
perfino alla polizia borbonica di essersi frantumato quel suo braccio
cadendo da una balza nell’inseguire alla caccia un caprone selvatico. E
della avventura serbava nel braccio appeso costantemente al collo la visibile
ricordanza, e nel soprannome di Storpiato, impostogli da tutta la vallata, la
popolare testimonianza.
Lo Storpiato però, chiamiamolo subito noi pure così, era stato brigante per
fame, per tradizione, per amor della vita libera e selvaggia, ma avea
combattuto sempre per i carbonari e la rivoluzione. Perocchè non bisogna
dimenticarselo mai, il brigantaggio non ha altra bandiera politica, quando
ne ha, che la ribellione al governo che impera, e in Calabria fu repubblicano
contro Manhnes, reazionario col cardinal Rufo, carbonaro contro re Bomba,
borbonico e reazionario adesso, salvo a riprincipiare il suo ciclo appena il
potere, contro il quale soltanto combatte, muti nome ed insegna.
La perdita di quel braccio era stata per lo Storpiato il segnale della sua
rovina. Egli non aveva saputo in vita sua far altro che il bandito, ed ora si
trovava da un anno come il navigatore che abbia un buco nella chiglia, e
che più s’avanza più s’avvicina al naufragio. Quindi, dopo aver consumati
nei primi mesi i pochi risparmi, era arrivato di gradino in gradino fino
all’orlo della miseria.
L’ultima sua risorsa erano quei due animali che convivevano con lui: ma
non erano nemmen essi cosa sua. Gli erano stati dati per carità nell’epoca
della sua disgrazia da un barone carbonaro e manutengolo, ma l’annata era
stata scarsissima di ghiande e la coppia mal nutrita non aveva fecondato.
Ora gli restava l’estremo partito di venderla alla prima fiera, ma poi?...
impotente a lavorare, impotente a pirateggiare, con madre, moglie e due
figlioli da sostenere, il vecchio brigante era alla disperazione.
La moglie, fida sua compagna da oltre quindici anni, era stata una bellezza
e ne faceva ancora testimonianza un ampio fascio di capelli biondi, pregio
invidiatissimo fra le brune calabresi, e l’avorio ancora immacolato de’ suoi
denti, ultima reliquia di quel decadimento, e in cambio dei quali ogni più
avara matrona napoletana avrebbe date le più candide perle del suo scrigno.
Ma sebbene avesse appena sorpassato i trent’anni, essa era già una rovina, e
chi la osservava provava lo stesso senso che si prova alla vista d’un avanzo
di statua greca. Si presente, si indovina la classica fattura, ma si sente che
intera non la si rivedrà mai più. Essa pure non aveva che ciarpe dintorno
alle membra, e di tutto quel grazioso costume calabrese, dal busto azzurro e
dalla gonnella cremisina, il più pittoresco di quanti ne abbia il pittoresco
Mezzogiorno, non restava altro che uno squallido cenciume.
Ella si serrava in grembo i suoi due piccini credendo forse, pietosamente
illusa, di riscaldarli; ma non faceva che intirizzirli del suo freddo. La
bambina era ben fatta, e aveva i capegli biondi e la tinta bruna della madre;
il fanciullo era una riproduzione del padre a dieci anni. La bimba per veste
aveva un pezzo di tela turchina cinta intorno alla vita; il bimbo vestiva
ancora più semplice: era nudo come l’aveva fatto la mamma.
La vecchia rinuncieremo a dipingerla. Bisognerebbe mettere insieme tutte
le laidezze delle Eumenidi, delle streghe del Valpurga e della foresta di
Birmano per formarne la tavolozza. Era una donna dei climi meridionali a
ottant’anni, ecco tutto. Chi sa quanto sia rapida e profonda la
trasformazione del bello nell’orrido sotto quel cielo, e come sia breve la
giovinezza e disastrosa la vecchiaia; chi ha incontrato qualche volta una
vecchia siciliana, greca o spagnuola; chi ha sognato bambino la morte che si
muove, chi può immaginare una mummia colla vita potrà averne un’idea.
Però la nostra vecchia aveva ancora due prerogative tutte sue: per respirare
rantolava e per parlare fischiava.
Lo Storpiato stava a testa bassa attizzando con un moncone di ferro le
ceneri e parlava. Sua moglie guardava tra le travi del soffitto cercandovi il
cielo, i ragazzi sbadigliavano: la vecchia seduta sul suo giaciglio, tratteneva
il rantolo ed il fischio, ed era tutta orecchi ad ascoltare.
IV.
Che cos’era quel carico di carne umana che salpava in piena luce del giorno
da un porto d’Italia? Che cosa era quel traffico a cui i poteri ecclesiastici
accordavano la benedizione, e i poteri civili apponevano il bollo? Dove
andava quel bastimento-serraglio protetto dalla bandiera francese?
Il lettore lo avrà in parte compreso, ma è nostro debito spiegarci meglio.
Ognuno avrà sentito parlare, seppure non li ha veduti coi propri occhi, di
quei fanciulli per lo più oriundi della Basilicata e delle Calabrie, noti in
commercio col nome di petits-italiens, che solcano in tutti i sensi i villaggi
della Francia e dell’Inghilterra, ed ora s’incontrano perfino nelle contrade di
Nuova York e di Washington, cantando canzoni incomprensibili e ballando
strane danze al suono di una zampogna o di una chitarra e mendicando di
chiasso in chiasso, di taverna in taverna, di porta in porta il soldo della
carità importunata od impietosita, e facendo in una parola
dell’accattonaggio un mestiere, della musica un pretesto, dell’infanzia un
lenocinio, e del loro dialetto abruzzese o calabrese, ignoto e melodioso, una
seduzione.
Però, ciò che è forse ignorato dalla maggior parte, si è che questi piccoli
avventurieri non esercitano già, come potrebbe parere, la loro industria per
conto proprio, ma sono gli strumenti ciechi di un’associazione invisibile, la
quale vive, traffica ed arricchisce sull’obolo accattato giorno per giorno da
quella miseria infantile organizzata ai suoi servizi.
Una volta nato il concetto di questo traffico, una volta che la coscienza
umana potè proporlo a programma di un’industria, e la coscienza sociale
tollerarlo, i modi per farla fruttare erano evidenti. La buona economia,
insegnava anzitutto d’andar a cercare la merce greggia sul luogo stesso
della produzione, e trasportarla sul luogo di lavorazione, quindi primo
punto una tratta. Poi la stessa scienza, considerato che la merce era umana,
rivelava che, fra i molti metodi economici e sicuri per custodire molti
uomini insieme, la caserma, il convento, il falansterio, il Workhouse, il
caravanserraglio, la galera, nessuno rispondeva per sè solo esattamente al
caso, ma che pigliando il meglio da tutti si poteva arrivare a qualche cosa di
perfetto. Ed allora, togliendo alla caserma la disciplina, al convento il
digiuno, al falansterio la promiscuità, alla Workhouse il lavoro, al
caravanserraglio l’economia, alla galera la corruzione, rifiutando su tutti i
punti il necessario come un lusso, e applicando in tutti i casi la massima che
l’interesse dell’industria si riduceva ad un dolore accumulato, riescirono a
formare uno stabilimento modello.
Istituito l’ospizio, restava a distribuire e regolare il lavoro in guisa che
potesse dare colla minor spesa e la maggior sicurezza il massimo prodotto;
in altre parole restava a trovare un modo di sguinzagliare alla preda tutti
quei rapaci infantili senza che nessuno la smarrisse o si smarrisse, o ne
trafugasse una parte, o la divorasse per sè. E qui l’arte venatoria venne in
soccorso. Tanti quartieri, tanti parchi, tante mute: ad ogni muta due o tre
bracchieri con segnali per riconoscere ed essere riconosciuti. Una volta al
giorno, alto della caccia in uno dei bugigattoli più bui del quartiere, o nel
mezzo di qualche piazza deserta, giacchè il vasto nasconde come l’oscuro;
ed ivi resa di conti parziale. Alla notte poi, resa di conti totale nello
stabilimento. Ad ogni negligenza sospettata, pena atroce di scudiscio e di
fame; ad ogni frode denunziata, pena raddoppiata, chè l’istituzione è morale
ed ha in grande orrore l’infingardaggine ed il furto!
Infine, amministrazione minuta, disciplina ferrea, sorveglianza assidua,
gerarchia russa, segretezza giurata e massonica.
La società in Europa ha due grandi centri, Parigi e Londra, in lega fraterna
fra loro; perocchè per simili cause i confini scompaiono e John Bull può
obbliare Crecy, e Jacques Bonhomme, Waterloo.
Alla testa d’ogni centro sta un presidente, un Comitato esecutivo, ed un
Consiglio di amministrazione con facoltà ed uffici ordinatissimi, e autorità
rispettatissime.
Oltre a ciò, in continua e diretta comunicazione colla sede centrale in quasi
tutti i dipartimenti e contee, sedi secondarie o succursali, le quali, benchè
privilegiate di molta autonomia, sono però obbligate ad esercitare la polizia
dei fuggiaschi, ed a pagare una specie di ghinea alla sede principale. Nelle
città marittime l’affigliazione conta molti capitani armatori di bastimenti, i
quali assumono la tratta per mare a conto della società.
Il più delle volte però i contratti di trasporto sono regolati a un tanto per
testa, salva ai capitani, come affigliati, la parte spettante di utili sui
dividendi dell’associazione. Una serie d’articoli dello statuto determina
minutamente l’entità e le proporzioni dei dividendi: tutti hanno diritto ad un
interesse anche minimo per conseguire che tutti sieno zelanti del controllo e
della sorveglianza, onde nulla si perda.
Tuttavia la distribuzione non la fa che il Consiglio d’amministrazione per
mezzo del Comitato esecutivo. Il presidente è invisibile come un
Grand’Oriente massonico, e nelle stesse adunanze del Consiglio
d’amministrazione compare di rado. I suoi rapporti esteriori non vanno oltre
il Comitato esecutivo ed anche con esso si circonda di una certa nube. Egli
non dura in carica che un anno ed è piuttosto un dignitario che un podestà, e
per questo lo si vuole scelto tra le persone più distinte dell’associazione o
fra quelle principalmente che si trovano in contatto, o possono trovarvisi,
coll’autorità pubblica.
Il primo presidente fu un secondino destituito del bagno di Tolone; il
secondo il portinaio dell’ambasciata inglese. Con ciò si credeva di poter far
la polizia alla polizia e tenere sempre una mano nei segreti dello Stato dei
quali poteva diventar utile all’intera associazione il possesso.
Nel 1850, nell’anno di cui narriamo, il presidente era qualcosa di più alto
ancora: un commissario di polizia dimesso dalla rivoluzione per intrighi
legittimisti. Ma dopo le giornate di giugno egli aveva cambiato nome e
s’era dato a’ servigi della polizia segreta del principe presidente.
Per questa trafila entrato in rapporti coll’associazione dei Petits italiens,
avea potuto far valere tutti i suoi meriti presenti e futuri e, candidato alla
presidenza, era riescito a raccogliere sul suo nome la quasi unanimità dei
suffragi.
Un’altra parola ci sembra necessaria. Il contingente di questa associazione
non poteva venire che dai bassi fondi sociali; ma qui importa intendersi
bene ne’ termini.
La sentina pubblica ha confini illimitati. In essa si perde lo straccio come la
decorazione. Tutto ciò che porta maschera le appartiene. Tutti coloro che
agognano apparire più di quello che sono, a consumare senza produrre, a
conquistare con un colpo di Borsa o di Stato una fortuna od un trono, sono
il suo popolo. Catilina, lo zingaro dei repubblicani, vi è cittadino come
Giovanni Senzaterra, lo zingaro dei principi; il bettoliere Thenardier che
aspira a diventar milionario, vi s’incontra con Cesare che aspira a diventar
imperatore. Però gli è dalla notte di quest’abisso che monta il vero miasma
sociale.
Finchè il male è pubblico, visibile, diurno, e la legge lo può conoscere,
correggere, colpire, il rimedio è noto e la guarigione certa. Ma quando il
male è segreto, notturno, invisibile e porta la larva del bene, o almeno
l’insegna del legittimo, allora la società versa in grave pericolo, e qualche
grande crisi l’attende. Quando non si sa più distinguere se la miseria in
cenci sia più dolorosa della miseria dorata, quando il vizio può uscire dal
postribolo come dall’officina, dalla bisca come dalla sagrestia, andare a
braccetto di una dama foderata di cortigiana, o di una cortigiana vestita da
dama, prendere per insegna, per tornare al nostro esempio, il Senatus
populusque romanus di Cesare o il sergente di Waterloo di Thenardier,
allora il dominio della città oscura può dirsi incominciato e quelle grandi
epoche di consunzione, nelle quali la morale è ridotta a un galateo, e la
legge a una tolleranza, compaiono nella storia.
Però da molti anni le cose erano notevolmente mutate. Il governo francese
s’avvide alla fine del nefando delitto che si commetteva impunemente
all’ombra delle sue leggi, e prese a combatterlo. Se non che egli seguì la
stessa strada degli abolizionisti verso i neri. Cominciò dall’abolire la tratta e
si fermò. Oggi è ancora a quel punto, e non ha fatto un passo di più.
Impedisce lo sbarco dei petits italiens ne’ porti francesi, ma li lascia
spensieratamente strascinare la loro catena di miseria e di abbiezione per le
strade di Parigi. Ciò non ostante l’abolizione della tratta, rendendo
necessario un altro modo di trasporto, diede un gran crollo all’associazione
e finì col distruggerla.
Invece di un carico di cinquanta o cento fanciulli per mare fatto con
risparmio di tempo e di denaro, fu mestieri far venire la merce a piccole
tappe ed a piccole squadre per la via di terra affidandone la scorta ai parenti
od ai custodi che bisognava pagare e sorvegliare, e che spesso a mezza via
fuggivano come i fanciulli che dovevano accompagnare.
Giunte alle Alpi, le guide si rifiutavano proseguire, e ci volevano altri
uomini per ricevere i ragazzi e scortarli fino a Parigi.
Però la spesa diveniva doppia, le peripezie della spedizione incalcolabili: le
operazioni complicate e la grande industria fu colpita a morte; ma rimase la
piccola. All’associazione subentrarono gli speculatori privati: all’unica e
grande impresa i piccoli impresarii e subappaltatori. Ciascuno che volesse
prendeva cinque o sei ragazzi e viveva su quelli. Il guadagno era minore pei
padroni, ma i patimenti per i piccoli schiavi erano sempre gli stessi: anzi il
traffico minuto diminuendo il lavoro aumentava la sordidezza dei
trafficanti, e pesava con maggiore durezza sul capo dei trafficati.
Oggi siamo ancora a tale, e la sorte dei petits italiens non è punto mutata.
Però meritano essere lette sopra questo doloroso soggetto le parole
dell’ultima relazione della società italiana di beneficenza in Parigi:
«Vedendo questi cenci umani circolare le contrade di Parigi, si è costretti a
domandarsi quali motivi mai facciano tollerare, se non anche proteggere,
questa vergognosa speculazione. In questa città nella quale anche il più
piccolo merciaio ambulante paga la patente, dove il commissario delle
strade deve avere un distintivo, dove nulla si fa senza permesso, i soli
industrianti di fanciulli sembrano essere fuori delle leggi. Perchè questo
favore? Perchè in un paese che è alla testa della civiltà, in un paese nel
quale il lavoro è in così grande onore, si ammette che questo genere di
mendicità formi una vera corporazione?
«Sono forse le leggi che manchino in simile materia? Bisognerebbe crearne.
Ma esse non mancano. Una sola basta.
«Il disposto del prefetto di polizia in data 28 febbraio 1863 dice all’articolo
10:
«È espressamente proibito ai saltimbanchi, ai suonatori d’organo, musici e
cantori ambulanti di farsi accompagnare da fanciulli di età minore di 16
anni.
«Questo articolo dice tutto, ci pare, e noi non comprendiamo come si dia
ancora a Parigi un solo fanciullo che chieda l’elemosina. Forsechè
l’amministrazione ignora i fatti di cui ci occupiamo? No. Perchè essa ha un
servizio speciale di polizia che si occupa di questa industria, e i nomi dei
principali trafficanti le sono perfettamente noti. I motivi della tolleranza
dell’amministrazione francese sfuggono dunque compiutamente alla nostra
perspicacia».
VII.
È manifesto che questi fanciulli diventando adulti non servono più allo
scopo per il quale erano stati levati alle loro famiglie e che anch’essi come i
cavalli di corsa, giunti ad una certa età, ed esaurito lo sforzo della loro
giovanile bravura, siano destinati a mutare di nome, di mestiere e di
padrone. Però quando i petits italiens non sono più piccoli, ecco qual è la
sorte che li attende.
I padroni naturalmente non vogliono gettare questo capitale che ha loro
fruttato talvolta il 200 per 100 senza cavarne l’ultimo sangue. Quando il
piccolo accattone è ingrandito e non par più in grado di muovere la pietà o
il sorriso degli avventori è rivenduto ad altri per un altro mestiere.
Delle fanciulle, in una società in cui la legge stessa consacra la pubblica
immoralità, ognuno ne presentirà facilmente la fine. Esse non sono ancora
deste al mistero della pubertà che già un covo infame, dove non si esce che
per la via del camposanto o dell’ospedale, le ha inghiottite.
Per il maschio si sta a vedere. Se l’educazione ha fruttato, se promette bene,
se mendicando s’è addestrato nel mestiere fratello del rubare, c’è sempre
un’altra associazione parente di tagliaborse o di strangolatori pronta a
riceverlo. Ma poichè il più delle volte gl’industrianti dei piccoli italiani
sono anche capi banda o borsaioli essi stessi, così il baratto si fa in famiglia
e il fanciullo cambia di mestiere senza cambiar di padrone.
Gli altri, i restii a questa nuova arte, sono gettati, proprio come si getta una
ciabatta che non serve più, sulla pubblica via, e che s’ingegnino da sè.
Allora i più passano dalla mendicità incolpevole alla mendicità turpe, dal
furto per fame al furto per abitudine, dalla servitù involontaria alla
volontaria, e per una via un po’ più lunga allo stesso fine: al disonore, al
carcere ed alla morte disperata. I pochi invece, rari veramente, corrotti
d’animo e di corpo, pieni di fiele e di malattie, di odii e di dolori,
riguadagnano il loro villaggio natio, e se non cadono estenuati alle sue
porte, afferrano la carabina del loro padre e si fanno masnadieri.
VIII.
L’arte rudimentale però, l’arte comune a cui nessuno poteva sottrarsi era di
indovinare a colpo d’occhio l’indole delle persone alle quali il piccolo
italiano doveva dirigersi. Perocchè uno sbaglio in questa prima parte del
mestiere ne cagionava mille e comprometteva l’associazione. Però grande
era la cura dei maestri e custodi perchè i piccoli industrianti si penetrassero
bene delle regole fondamentali della scienza di Lavater applicata
all’accattonaggio. Lezioni speciali erano date sovente nello stabilimento su
questo tema chè i professori erano per solito i più anziani e provetti della
corporazione. Allora non era raro il caso di vedere qualche sera, dopo la
ritirata, uno di questi piccoli dottori in scienza fisionomica, montare sopra
una panca apparecchiata in mezzo alla camerata, innanzi alla turba attenta
dei neofiti e dei principianti, e schiccherare questo discorso:
«Il genere preferibile è il provinciale, e, regola sicura, ogni persona, uomo o
donna, che sia ferma a guardare nelle bacheche delle botteghe, o a
contemplare, la colonna di Luglio o la giraffa del giardino delle Piante, è un
provinciale.
«Intorno ad ogni monumento ne troverete uno sciame e non bisogna
abbandonarli, finchè non abbiano vomitato il loro dazio d’entrata. Con
questi tutti i ferri del mestiere sono buoni meno le canzoni grasse e i
calembours troppo astrusi.
«Vien subito dopo il genere stranieri da distinguersi bene dai provinciali
per il modo di trattamento. Con essi bisogna essere servizievoli a oltranza,
insegnar loro la strada anche quando la sanno, andare a pigliare la carrozza
anche quando non la vogliono, offrire loro di portare il paletot anche
quando piove. Con loro non c’è che un programma: essere importuni.
Bisogna però badare a non urtare contro la flemma inglese; sarebbe tempo
perduto contro uno scoglio insormontabile. Cogli inglesi però c’è un altro
mezzo: cantare un’aria turca qualsiasi e dire che è italiana. Guardarsi bene
invece dal parigino che ha fretta. Un uomo che corre per le strade è un
uomo d’affari e non guarda ai petits italiens se non quando li getta per terra.
Tenete d’occhio gli studenti e i soldati, i primi al principio del mese, i
secondi al giorno di paga e specialmente quando portano al braccio le loro
metà, le sartine o le cuoche. Allora essi amano mostrarsi generosi
specialmente se voi saprete adattare una buona musica al proverbio tutto
francese. «L’amour ne loge point sous le toit de l’avarice.»
«Non perdete un minuto solo colla gente che esce dalla Borsa o dalla
chiesa: la prima ha dato tutto il suo cuore al diavolo e la seconda a Dio e
non ne avrà per voi. Se trovate per istrada una signora sola che vada diritta
senza voltarsi indietro corretele appresso e non lasciatela mai. Essa va per
qualche contrabbando ed avrà bisogno di liberarsi di voi. Ma per ultimo
consiglio guardatevi dalla gente che va in mezzo alla strada col capo nelle
nubi: si chiamano poeti e sono un genere traditore. Essi si fermeranno a
contemplarvi, vi offriranno una eloquente compassione, scriveranno per voi
qualche ode, ma non vi daranno un soldo.»
Eruditi a questo modo dalle parole e dall’esempio, i due nostri calabresi
divennero in brevi giorni i più esperti e fortunati della società.
Carluccio agile, snello come un camoscio non avea rivali nelle capriole.
Stefanella, dotata d’una voce esile e gentile come il pianto d’un rosignolo,
arrestava la folla dei più indifferenti coi suoi rispetti calabresi pieni di
semplicità e di melodia. Inoltre Carluccio avea un pregio che nessun altro
prima di lui avea mai posseduto: una fierezza d’accento, di posa e di
sguardi che quando chiedeva la carità pareva dicesse: «Datemi un regno.»
In quel momento coi suoi occhi neri scintillanti, col suo sorriso beffardo,
colla mano tesa in atto più di minaccia che di preghiera, il corpo eretto, la
fronte alta, era così bello che tutti, innamorati di quel piccolo miserabile col
cipiglio principesco, si fermavano a guardarlo, e lo colmavano di doni.
Accadde anzi più tardi che uno statuario, trovato il calabresello per la
strada, lo volle nel suo studio e lo ritrasse al vivo nel suo nativo costume in
un bozzetto di creta al quale pose nome: Amore brigante.
Stefanella al contrario era tutta grazia, umiltà, pudore. I suoi occhi non si
alzavano mai sul passeggiero che per la preghiera, la sua voce era restia alle
note gagliarde ed ogni parola dura ed invereconda moriva sulle sue labbra
senza poterne uscire. Per questo, per quanti sforzi fossero fatti dai maestri e
dalle compagne più arrendevoli, essa non potè mai imparare una canzone
oscena quantunque non ne intendesse il significato. Per fargliela entrare in
testa, per fargliela pronunciare fu minacciata, percossa e, cosa inaudita in
quella corporazione dove ogni tenerezza era morta, blandita, e persino
regalata. Tutto vano; la natura si ribellava; tutte le seduzioni della zingarella
svanivano, quando la si costringeva a fare la baccante!...
I due fratelli erano stati destinati dapprima ai quartieri della barriera Saint-
Denis, ma i padroni non tardarono ad avvedersi che non erano personaggi
per quella scena troppo volgare e che il pubblico era inadeguato alla
rappresentazione e il guadagno al capitale. Quei due aristocratici del
vagabondaggio erano fatti per l’aristocrazia, però decisero cambiar loro
quartieri e clienti, e furono arruolati nella squadra che doveva agire ai
Champs Elisées e sul boulevard des Italiens.
In pochi giorni i due calabresi diventarono famosi anche in questa nuova
scena e non c’era frequentatore di quel mondo, zerbino o magistrato, gran
dama o crestaia, che non volesse aver udito cantare almeno una volta
Stefanella e veduto saltar Carluccio come si fosse trattato dei trilli della
Pasta o dei salti del signor Léotard. Nei caffè signorili dei boulevards, gli
artisti ambulanti non possono entrare, o vi sono messi bruscamente alla
porta. Ora, per intercessione d’una società d’allegri avventori, Stefanella e
Carluccio avevano ottenuto privilegio d’ingresso al caffè Tortoni e in breve
tempo per imitazione in tutti gli altri caffè dei dintorni.
Era là specialmente che Carluccio era fatto chiaccherare e Stefanella
passata in più minuta rassegna.
Talvolta, mentre un pittore, uno scultore, un poeta qualsiasi prendeva da un
tavolino remoto delle note e faceva de’ segni sul suo taccuino, la brigata dei
giovinastri eleganti si serrava addosso alla zingarella incalzandola con
domande, con motti, con occhiate, spesso con gesti tutti d’un tema facile ad
indovinare che la facevano diventar rossa e bianca ad un tempo senza che
nemmeno potesse dirne il perchè, intantochè il fratelluccio costretto a
giuocare in un altro angolo della sala, vedendo la pena della sorella si
mordeva le labbra e squadrava le fiche agli osceni motteggiatori. Ma, se
talvolta la mano di qualche più audace si allungava per un’impudica
carezza, allora si sarebbe veduto il giovinetto saltare, col lancio d’un
tigrotto irritato, tavoli e panche, e piantarsi davanti alla sorella contro
all’insultatore sfidandolo collo stesso piglio con cui un cavaliere della
Tavola Rotonda sarebbe corso all’elsa in difesa della dama di cui portava i
colori. Ed all’atto fiero del piccolo Baiardo era per tutto il caffè un fracasso
di risate e di battimani, e spesso una pioggia copiosissima di soldi, di dolci,
di franchi persino, che certamente nè la fame, nè la pietà avrebbe strappati a
quegli sfaccendati in cerca d’emozioni nuove e di curiosità eteroclite.
La colletta de’ due fratelli, giunti a sera, stava ordinariamente fra i sei
franchi al giorno; ma spesso saliva fino a 10 e qualche volta aveva toccata
la somma inaudita e favolosa per tutta la corporazione di 20 franchi. Ma è
noto che di tutto questo danaro ai fanciulli non restava un centesimo e che
tutto andava versato nelle casse della società.
Però, quando la questua era abbondante, i questuanti non ne risentivano
alcun vantaggio; quando invece era scarsa, una parte del danno andava a
cascare sulle loro povere spalle sotto forma di frustate. Quindi
indirettamente ognuno era interessato a far buona presa, non tanto per il
lucro cessante, quanto per il danno emergente.
Ai fanciulli dell’associazione, l’abbiamo già detto, non restava per
mangiare che quello che era loro regalato in natura dai clienti; in altre
parole la crosta di pane stantìo, l’osso, la ciottola d’acqua e di minestra, il
dolce, il bicchier di vino, ristoro rarissimo che la carità aggiungeva o
sostituiva al soldo, erano lasciati dall’amministrazione ai questuanti in
cambio della mercede o del pasto quotidiano che avrebbero loro dovuto
somministrare. Così l’amministrazione aveva ridotto i suoi operai alla
maggior semplificazione di regime immaginabile: allo stato d’una macchina
che non mangia e non beve e produce tanto per giri e per ora.
Frattanto, finchè i nomi di Carluccio e di Stefanella furono una novità, il
favor pubblico fu generoso tanto per la loro borsa che pei loro stomachi e la
messe dei pani emulò quella dei soldi. Ma in Parigi, centro della mutabilità
umana, nulla resiste all’aridezza di questa sentenza: «È giù di moda.» Un
regno ha vissuto 18 anni? È vecchio, se ne vada: una rivoluzione si
prolunga oltre un carnevale? È vecchia, chiuda bottega. Un predicatore è
alla seconda predica del suo quaresimale; un cantante alla sua seconda
stagione; un poeta al suo secondo dramma; Nadar alla sua seconda ascesa;
gli ambasciatori del Taicun alla loro seconda comparsa?... ebbene, sono
vecchi, vecchi come il cappellino, come la foggia, come l’acqua d’odore
che si usa da una settimana. Non c’è merito, non c’è virtù, non c’è scoperta,
non c’è idea, non c’è bizzarria, non c’è utopia, non c’è nemmeno delitto,
quando esso sia scolpito dal suggello della novità, al quale il vento della
moda non gonfi almeno per un giorno la vela ed a cui quel gigantesco
Arcangelo della civiltà rifiuti di prestare le sette trombe della sua fama; ma
non c’è moda, non c’è fama, che in quello smisurato oceano resista al soffio
d’un’altra moda che sorge, d’un’altra fama che incalza, e gli aquiloni della
sera che portano le tempeste sono salutati colla stessa gioia con cui lo
furono le brezze del mattino che aveano fatta parer bella la calma.
Babilonia, Atene, Roma, Parigi, Londra, forse, chi sa? domani New-York o
Pietroburgo sono le grandi fornaci del progresso: esse tutto ingoiano, tutto
divorano e tutto trasformano, e non lasciano al frammento che vi cade altra
gloria che quella di avere contribuito a formare la immensa statua della
civiltà.
X.
Torniamo ai bimbi... Anche per essi dopo un anno, e avevano durato anche
troppo, era cominciata la vice fatale del tempo. Quei due bimbi erano
trovati già vecchi; il sorriso infantile di Stefanella cominciava a parere
stereotipo, la posa di quel grano d’eroe a sentire il rancido. Il pubblico si
diede a sbadigliare, a non guardare più, a infastidirsi, ad allontanarsi, a dar
meno, a dare pochissimo.
A ciò si aggiunga che ci fu un’epoca torbida per la Francia. Eravamo poco
lontani dall’elezione del presidente e dal colpo di Stato: la Francia era
preoccupata ed inquieta e gli stranieri non erano sedotti a visitarla. Quindi
molti pensieri nelle teste dei Parigini e pochi forestieri per le strade di
Parigi, e dappertutto e in tutti quella trepida aspettazione d’una crisi, che
tronca i nervi al lavoro, gela le ispirazioni all’arte, consiglia il capitale ad
espatriare, il lusso a nascondersi e la società intera a sopprimere il
superfluo, a ridurre il suo bilancio al puro necessario, a rinchiudersi
insomma nella vita vegetale del giorno ed a non far più alcun conto
dell’incerto avvenire.
Di questo torbo ed inquietante orizzonte, se ne dovevano risentire l’Opéra
come i cantastorie da trivio, e l’associazione de’ Petits italiens doveva
soffrirne quanto e più d’una società di strade di ferro o di miniere.
Infatti verso i principii di novembre il Consiglio esecutivo della piazza
Maubert notò una grande diminuzione di introiti e ordinò esso pure
un’inchiesta. E l’inchiesta disse che le partite di Stefanella e di Carluccio
erano quelle che avevano ribassato più rapidamente. I sei franchi giornalieri
erano scesi a tre: nientemeno che il 50% di perdita. Il fatto era grave sopra
tutto e meritava uno studio singolare. Non si tralasciò di ordinare una più
rigorosa vigilanza dei due fratelli; molto meno si dimenticò di chiamarli al
redde rationem e di rammentar loro i doveri sociali con la consueta
perorazione dello scudiscio e delle pedate. Carluccio col suo solito piglio
rispondeva che «non aveva colpa se in Parigi non ci erano più nè soldi nè
minestre». Stefanella invece non rispondeva nulla e piangeva in silenzio
dietro di lui....
— Ci sono pochi soldi perchè ci sono troppe minestre — strillò dal crocchio
degli ascoltatori una voce di femmina.
— Cosa vuoi dire tu Tredici?... — chiese il direttore dello stabilimento che
avremmo voglia di chiamare il capo aguzzino, volgendosi con un sorriso di
iena innamorata alla interlocutrice.
— Gracchia più chiaro, Pica scordata — replicò Carluccio apostrofandola
col soprannome che tutto il collegio le aveva imposto per la grande
rassomiglianza di voce e di muso che aveva con quell’animale.
— Parlerò a tempo e luogo.... e con chi si deve — ribattè la Pica.
— Parlerai con me, non è vero? — e voi altri zitti... o guai! — disse il capo
aguzzino facendo chioccare la frusta dalla parte di Carluccio.
Ora è mestieri dire che la fortuna rapida e insolita dei due calabresi aveva
destato nella maggioranza del collegio di piazza Maubert tutti i vermi
dell’invidia fanciullesca, la quale, sebbene piccina e innocente di forme, è
qualche volta non meno temibile dell’invidia degli adulti. Ora, fra coloro
che avevan preso più forte a odiare i due fratelli, la più arrabbiata e maligna
era la Pica scordata.
Costei, ributtante impasto di giallo e di cenere, brutta proprio come
l’invidia, avendo già oltrepassati i quattordici anni, contava fra le più
anziane dell’istituto, ed ormai la si poteva dire tramontata per
quell’industria che consisteva tutta «nel mettere in mostra l’infanzia che
soffre». Tuttavia ella avea una abilità tutta sua; imitava a perfezione il mal
caduco, e con quest’arte, resa più interessante dalla sua laidezza, ella era
sempre riuscita a razzolare più quattrini che non le sue compagne colle loro
grazie di canti, di suoni o di bellezza che ella, certa di non le poter mai
uguagliare, ferocemente abborriva.
Ma la Pica, non contenta di avere la sua parte di guadagni e di favori,
agognò entrare nelle grazie dell’amministrazione. Impregnata d’odio,
gelosa di tutti i meriti altrui e specialmente di quelli delle sue compagne,
fatta per assorbire e respirare a pieni polmoni i miasmi pestilenti
dell’ambiente in cui viveva, essa aveva sentito il bisogno di fare il male per
il male, e dopo averne per molto tempo cercato il modo più sicuro e
lucroso, si pose ai servigi della polizia segreta dell’associazione. Perocchè,
giova dirlo subito, anche quella società di piccoli miserabili sentiva il
bisogno d’una sbirraglia e di uno spionaggio. Ed ecco una fanciulla a 14
anni spia dell’innocenza e della miseria. In verità il genio del male non
aveva mai trionfato più completamente in un’anima umana.
Naturalmente ella aveva veduto con ira la gloria dei due calabresi e giurò
vendicarsene. Aveva notato che nei primi mesi Carluccio e Stefanella, oltre
che di soldi, erano colmati di doni e che qualche generoso, oltre al pane ed
alla minestra, era persino arrivato al desinare ed ai confetti. Quei due
fanciulli adunque, invece di patire come era loro dovere, minacciavano
ingrassare, e l’associazione era frodata. Quale capo d’accusa per l’invidia in
agguato!
Però, quando il direttore chiamò in segreto la Pica a dargli spiegazione delle
sue parole del giorno prima, ecco quel che essa rispose:
— Stefanella e Carluccio, invece di chieder soldi per la società, chiedono
pane per sè. E siccome molti dànno più volentieri un pane che un soldo,
ecco perchè da un mese essi non portano nella cassa più nulla. Sono egoisti
che pensano soltanto a sè; essi impinguano e la società patisce.
La delazione bugiarda della Pica era materia più che sufficiente per un
processo. Il direttore credette o finse credere, e ordinò il processo il quale
non potea essere che sommario come là si costumava. Laonde, aspettati a
casa i due accusati, e annunziata la sua presenza con una fischiata di
scudiscio, il direttore incominciò così:
— Quant’è l’introito d’oggi?...
— Quattro franchi, fece Carluccio; pioveva a secchi e per le strade c’era
nessuno.
— D’ora innanzi pioveranno di queste — urlò l’aguzzino facendo strisciare
il frustino sulle guancie di Carluccio che ne illividì.
— So perchè l’introito scema; perchè, invece di cercare denaro, cercate da
pranzo... Silenzio... ghiottoni... io lo so e basta. D’ora innanzi decreto: tutte
le volte che vi offriranno da mangiare.... ricuserete. Tutte le volte che
porterete a casa meno di sei franchi doppia razione di frusta e digiuno
assoluto.... Quando porterete sei franchi, vi lascerò tre soldi per desinare... e
ce ne sarà d’avanzo. Avete capito?... a letto, scoiattoli.
Il lettore comprende che per eseguire alla lettera quest’ordine Carluccio e
Stefanella rischiavano restare senza pranzo tutte le volte che la busca era
minore di sei franchi; e che anche quando li raggiungeva o li superava
dovevano aspettare fino a sera a pranzare... con tre soldi! In verità la
legislazione della fame non era mai stata più sapiente.
XI.
Quattro anni trascorsero così senza mutazione o vicenda alcuna per i nostri
due orfanelli: sempre la stessa pena, sempre la stessa fatica, sempre la
stessa servitù. Non c’è come la miseria per essere monotona. Chi ha
incontrato qualche volta un mendicante cieco seduto da vent’anni su quel
sasso a quel medesimo luogo, a quella medesima ora, colla stessa preghiera
sulla bocca, col cappello sempre teso a quel modo, ha veduto il simbolo
della miseria; essa è una tenebra immutabile. La sola differenza che
potremo notare fu nel decreto che condannava alla fame quei due infelici.
La colletta era tornata abbondante, la Pica s’era maritata all’aguzzino e il
loro odio s’era calmato nella luna di miele, ed a Carluccio e Stefanella era
stato restituito il diritto di mangiare il pane che ricevevano in carità.
Però noi saltiamo a piè pari fino al 1854, anno in cui Stefanella compiva i
14 anni, Carluccio 15. Entrambi erano passati dall’infanzia alla puerizia,
entrambi cominciarono a divenir disadatti alla servitù a cui erano stati
condannati, e un’altra vita era preparata per essi. Stefanella avea già sentito
agitarsi nel suo seno i misteriosi annunzi della pubertà e, fanciulla ancora,
colla precoce rapidità di sviluppo che caratterizza le meridionali, era già
donna. Poichè fame, busse, insulti, miserie d’ogni sorta non l’avevano
uccisa, essa fioriva. Tutti quei germi di bellezza, di grazia, di poesia, che
avea portati dal suo cielo, poichè non erano avvizziti in quella notte,
sbucciavano con tutto il rigoglio d’un albero in fiore, in quell’aprile della
sua vita.
Belle come Stefanella a quindici anni se ne potevano forse trovare, ma
nessuna figlia d’Eva, se la bellezza scultoria è regolarità di linee, era mai
stata più seducente di quella montanina calabrese ornata di soli cenci e di
primavera.
Bambina, Parigi l’aveva vezzeggiata; vergine, tutta Parigi l’ammirava, e pur
troppo l’agognava.
Uno dei primi e più ardui problemi presentatisi all’amministrazione fu
quello di sapere che cosa avrebbe fatto di quei due fratelli ingranditi.
Il comune trattamento di questi sciagurati, una volta che l’età gli aveva resi
incapaci all’arte primitiva in cui erano stati educati, era, o l’abbandono
assoluto in mezzo alla via, quando erano giudicati più buoni a nulla, od una
rivendita o sub-affitto a qualche altra industria, sovente più infame, quando
davano speranza di poterla esercitare con frutto.
Però i due calabreselli cadevano, a parere dell’amministrazione, in questa
seconda privilegiata categoria, ed essi avevano in sè un capitale che,
usufruito poteva essere fonte ricchissima di guadagno. Ma non era facile
trovarne l’impiego conveniente. Carluccio era cresciuto in robustezza
quanto la sorella in grazia e leggiadria; il buon sangue nativo e quella
continua ginnastica di salti e di capriole avea dato al suo corpo ancora in
fiore tutto lo sviluppo della maturanza, e più volte, acrobati e saltatori di
Circhi, sorpresi dal nerbo e dall’elasticità di quei suoi muscoli, avevano
regalato il giovane atleta d’un mondo di lieti presagi sui suoi trionfi
avvenire.
La carriera di Carluccio era dunque fissata, e l’amministrazione si diede da
quel giorno a cercare a destra ed a sinistra in tutti i dipartimenti della
Francia un Ciniselli qualsiasi che assumesse presso di sè il calabrese. Alla
fine credette aver trovato, e un bel mattino Carluccio fu chiamato a dar
prova della sua destrezza davanti ad un elefantesco incognito che era nè più
nè meno che un saltimbanco ambulante dei circhi di provincia. E perchè il
ragazzo fu trovato pieno di belle speranze, così il giorno stesso il contratto
fu conchiuso e Carluccio venduto per 500 franchi come clown in erba
dell’Ippodromo di Nantes. Notiamo, di passata, che Carluccio era stato
comperato dall’amministrazione per 300 franchi, e che egli ne aveva resi in
cinque anni circa 8 mila netti da ogni spesa.
Confessiamo che pochi commerci hanno di questi dividendi.
Sorse per altro una difficoltà, alla quale l’amministrazione non avrebbe mai
pensato e che per la prima volta incontrava in vita sua. Carluccio al
momento della partenza dichiarò che non si sarebbe mai diviso da sua
sorella.
La sorella invece non dichiarava nulla, ma colle sue lagrime silenziose
confermava i proponimenti del fratello.
La prima misura dell’amministrazione fu naturalmente minacciare e
picchiare, ma Carluccio era tale da farsi mettere a pezzi prima di cedere. Il
saltimbanco compratore cominciava ad impazientirsi e aveva già protestato,
che se entro tre giorni egli non aveva il suo clown rompeva il contratto e se
n’andava.
Il caso era grave, e il bisogno d’un provvedimento urgente. Ad esso non
bastava più nemmeno il Comitato esecutivo e fu deciso interrogare l’alta
saggezza del presidente in persona.
E il presidente, dopo aver raccolte le sue idee, col tuono freddo e solenne
d’un oracolo diede questo responso:
— Poichè i tormenti inflitti al fratello non riescono, non c’è che un mezzo:
torturare la sorella in faccia sua finchè ceda.
Il Comitato esecutivo partì sbalordito di tanta sapienza: l’ispirazione parve
degna del genio di Torquemada e d’Arbuez, e fu deliberato di darvi
esecuzione senza ritardo.
Bisognava trovare un modo di tortura che fosse a un tempo tormentoso e
ignominioso e dopo molte ricerche fu trovato. Stefanella doveva essere
frustata nuda. Essa doveva correre intorno al cortile, e tutto il collegio,
allievi ed aguzzini mano mano che passava doveva darle la frustata sulle
ignude carni! Guai quindi se ella si arrestava: la grandine diveniva ancora
più fitta. Carluccio poi legato in un angolo del cortile doveva contemplarla
finchè la sua pietà ed il suo terrore fossero sazi.
Appena la vergine comparve, mezza morta di spavento e di vergogna sulla
soglia del cortile, Carluccio chiuse gli occhi e non volle veder di più. Quella
profanazione dell’innocenza e del pudore gli aveva già tenuto luogo di tutti
i tormenti e con un urlo angosciato gridò: «Basta». Gli fu chiesto allora se
acconsentiva a partire e rispose: «Acconsento».
Stefanella fu ricondotta, Carluccio liberato.... e la sera chiuso in un furgone
assieme alle scimmie, ai cani, ed agli altri attori della compagnia, trottava
già verso Nantes dove doveva esordire nella sua nuova carriera.
Nel congedarsi furtivamente dalla sorella, non potendo darle nulla, perchè
nulla possedeva, le lasciò come un ricordo ed una promessa queste parole:
«Ora non mi resta che tornare per vendicarti... e tornerò».
XIII.
Madame Mouchard
pension et education de jeunes demoiselles étrangères.
Madama Mouchard aveva relazione con tutti i clubs, i circoli, i saloni della
società equivoca, di quel demimonde che ormai è divenuto forse due terzi
del mondo parigino, ma fino allora non vi aveva mai condotta Stefanella per
l’unica ragione che non voleva fosse sussurrato all’orecchio della giovine il
pericoloso consiglio di «fare da sè».
Ma vedendo che l’aspettata avventura del principe indiano o del bascià
turco tardava a venire, e che il giovane che non si poteva toccare
continuava a passeggiare, decise giuocare l’ultima posta, e ricevuto l’invito
al ballo della baronessa Flaviani, una Susanna d’Ange qualunque di quella
società, lo accettò senz’altro e vi condusse Stefanella.
Il ballo era in costume e l’occasione non poteva essere più propizia per
mettere in mostra tutte le grazie native della giovinetta nel suo ricco
costume calabrese. La spesa, è vero, era grande, ma l’amministrazione
l’incoraggiò; d’altronde dovea essere l’ultima.
Il salone era pieno; tutto v’era falso, le tinte come le treccie, i nomi come le
gemme, i blasoni come i valletti; ma tutto luccicava. Però si sa che in
mezzo a quelle esposizioni di cristalli di rocca c’è sempre frammisto un
grano di diamante puro che è lo scopo e la morale della rappresentazione. E
in mezzo a quei conti senza contea, a quei banchieri senza credito, a quelle
dame senza nome, a quelle vedove che non hanno mai avuto marito, e a
quelle fanciulle che l’hanno già avuto, c’era un personaggio vero, autentico,
con un passaporto suo, un titolo suo, danari suoi: v’era un Norvegiano
legittimo figlio d’un pescatore di balene e di merluzzi, borgomastro di
Bergen, sei o sette volte milionario e mandato a fare dal padre il così detto
viaggio di istruzione, il quale di solito col pretesto che non resta nulla da
apprendere più oltre, nè di bello, nè di brutto, comincia e finisce a Parigi.
Il pescivendolo Norvegiano che doveva necessariamente chiamarsi Oscar
era dunque il diamante incastonato nel similoro; egli il così detto merlo da
spennacchiare, e ognuno era venuto coll’idea di strapparne almeno una
penna: il falso banchiere e il falso gentiluomo coll’idea di vincerne i danari
al giuoco; le false dame coll’idea di farne un amante, un marito od un
protettore. Però ognuno veniva a posare davanti a lui come al re della festa;
egli era il bersaglio di tutti i discorsi, il centro di tutte le occhiate, la molla
segreta di tutto il meccanismo.
Il Norvegiano a mezzanotte era già cotto. Tutti quei complimenti così fini,
quelle gentilezze così squisite, quei motti così arguti, quelle facezie così
amene, quegli epigrammi così salati, tutte insomma le batterie
dell’inesauribile spirito francese scaricate per lui, l’avevano ubbriacato.
Egli non sapeva più cosa rispondere a quei discendenti de’ Duguesclin e dei
Montmorency, che parlavano di Crecy e di Fontenoy dove non erano mai
stati; a quelle dame che parlavano dei loro castelli aviti, che non erano che
castelli in Ispagna, e a quelle fanciulle che sciorinavano la lunga schiera dei
loro partiti, che non s’erano mai presentati; e in faccia a tutta quella
fantasmagoria scintillante di ciarle, di dorature, di grazie e di nobiltà, falsa o
vera che fosse, si sentiva abbagliato, stordito, vinto.
Era a questo punto quando al fianco di madama Mouchard, vestita di un
velluto nero, un po’ spelato di giorno, ma lucentissimo di sera, accollato
fino al mento, come voleva la sua parte di «educatrice delle donzelle uscite
dalle più illustri famiglie d’Europa», comparve Stefanella nei suoi graziosi
colori calabresi.
Quantunque quella non fosse che la prima festa a cui assisteva, vi era
andata triste e svogliata per una ragione facile a intendersi: dove egli non
era, era il deserto, e quella folla non faceva che popolare di fantasimi una
solitudine.
Perciò ella avanzava come avvolta da una molle atmosfera di melanconia
che la rendeva ancora più seducente. La legge dei contrasti è possente
quando è armonica. Essa abbraccia ed esprime tutta l’arte; ora, nessuno di
quanti erano là convenuti, dotti certo d’ogni umana attrattiva, aveva mai
veduto contrasto più meravigliosamente artistico di quello che Stefanella
rappresentava in quel momento da sè.
Il bruno pallido delle sue gote che la bianca luce dei doppieri rendeva
ancora più tenue e gentile, era corretto e ritemprato, staremmo per dire,
dalla rosea ombreggiatura di due labbra coralline che lasciavano
intravvedere traverso i sorrisi e le parole una bianca schiera di piccolissimi
denti; mentre la molle delicatezza delle linee e dell’espressione s’intonava e
s’invigoriva nell’arco squisitamente disegnato di due ciglia lucide e nere
come la piuma del corvo, sotto il quale due grandi occhioni, neri come le
ciglia, or si alzavano, ora smorivano come la fiamma di due fari sopra un
mare tranquillo.
Per compimento di tutta questa varietà di tinte, di idee, di toni, un covone di
capelli dorati, ma di quella doratura cupa, a fuoco, che ne è, quasi direi,
l’incarnato, e par scelto apposta per insegnare alla pittura l’intonazione
della grazia e della vigoria armonizzata in un solo colore.
Le vesti erano una tavolozza di Paolo Veronese. Nessun pittore, senza
lunghe ricerche, avrebbe potuto trovare un impasto di tinte più felice di
quello che nella semplice e incolta fantasia trovò la donna calabrese quando
ideò il pittoresco costume che doveva portare all’altare il dì delle sue nozze.
La camicia bianca orlata di pizzi e di trine esce dal busto e avvolge in un
fitto velo le grazie del seno e giù per le spalle scende fino alla metà delle
braccia, che si muovono libere e ignude senza parere impudiche. Il busto
che nel dizionario natio le calabresi chiamano la petticchia, è appena un
cinto e stringe poca parte, ma è tutto azzurro e forma melodiosa transizione
tra il candore della camicia e il rosso arancio della gonna. Ma la gonna poco
oltre il ginocchio s’arresta e si ripiega per lasciare di nuovo apparire il
lembo di un’altra gonnella azzurra, una calza candida ricamata di fiori e
intrecciata dai nastri neri del sandalo. Vedete una calabrese bella giovane,
pulita, vestita di nuovo in questi panni e non avrete ancora veduta
Stefanella; essa aveva tutto quel che la natura poteva dare; e di più tutto
quello che l’arte aveva aggiunto. La sua camicia era di battista fina come il
velo di seta, la sua veste paesana era stata tagliata a Parigi e i suoi sandali
non avevano calpestato che fiori e tappeti. Però a tutta questa beltà aveva
ancora una rivale: la melanconia. Esse si contendevano il campo, e lo
spettatore non sapeva a chi gettare il suo guanto. I suoi occhi incantavano,
ma la sua voce commoveva; le rose delle sue labbra attraevano i baci, ma
ogni sorriso che ne usciva era un raggio d’anima: i colori delle sue vesti
erano un mazzo di fiori, ma il pallore di quel suo volto era la nube che
contrasta col sole.
— Chi era? d’onde veniva?... Nessuno di quei presenti l’aveva veduta
tranne una sola.... la padrona di casa.
— È la petite italienne? chiese questa a madama Mouchard.
— Zitta.... secondatemi.... ci sarà una provvigione.... rispose la Mouchard.
— Accettato — replicò la baronessa di princisbecco.
Allora le due donne insieme congiunte risposero in coro alle domande:
— Si chiama Cherubina; è la figlia d’un barone calabrese, famoso
carbonaro, morto nelle carceri del re Bomba; suo padre non le lasciò nulla:
ma da sua madre ereditò un piccolo patrimonio sufficiente appena per
compiere la sua educazione e vivere decentemente. Essa per altro ha grandi
parentele, a Napoli, in Ispagna, all’Avana, nella milizia, nel foro, nella
diplomazia. L’ambasciatore al Perù don Jose y Pendaloza è suo zio.... essa è
affidata alla direzione di madama Mouchard fin che abbia compiuta la sua
educazione. Per altro i parenti di Napoli in segno della grande fiducia
riposta nella sua istitutrice le hanno confidato facoltà illimitate che possono
arrivare in certi casi fino al matrimonio.
Chi credette, chi dubitò, chi scrollò le spalle: solo il Norvegiano accordò
tutta la sua fede e non ristette un istante dal contemplare Stefanella.
Vedendo aperta la breccia, la baronessa Flaviani presentò il nordico
Nababbo alla signora Mouchard ed alla giovinetta, e così s’intavolò il
discorso. Il Norvegiano cercò metter fuori tutta la suppellettile del suo
spirito polare e tutti i milioni delle paterne piscine, ma quanto a Stefanella
ascoltò e rispose appena; quanto alla Mouchard ella lanciò l’âmo addirittura
con queste parole:
— Il signore è nubile?...
— Nubile.
— Bella condizione! esclamò la Mouchard; bella.... a Parigi sopratutto, e
per un giovane ricco come lei.
— Perchè mo?... fece il Norvegiano che non capiva troppo!
— Perchè un nubile vi può trovare tutti i piaceri e far tutte le follie che gli
passino per il capo senza doverne rispondere ad alcuno.
— Vero.... vero... replicò il Norvegiano che non capiva niente.
— A trent’anni, continuò l’istitutrice, con dei milioni in tasca e colle fedi di
stato libero, si può sposare oggi una principessa di casa regnante, se si
vuole, o possedere.... anche una madre badessa, se ne viene il capriccio....
— Sposare?... oh sposare no, rispose secco il Norvegiano.
— No?... fece la Mouchard così sorpresa, che diede un colpo indietro
contro la spalliera della seggiola.... Ma poi ripigliandosi.... — È forse un
voto che ha fatto, signor Oscar?
— Presso a poco! Partendo da Bergen, mio padre ha voluto che gli
promettessi che dovunque fossi arrivato nei miei viaggi, per quante
seduzioni avessi incontrate, non avrei mai preso moglie, e mi sarei serbato
libero per sposare una donna del mio paese, Norvegiana puro sangue.... ed
una Norvegiana della stessa famiglia nella quale si sono sempre maritati gli
Oscar... da mio bisnonno fino a mio padre.
— Ed ella non oserebbe mai rompere il divieto del padre.... chiese con un
sorriso surrettizio la Mouchard....
— Oh mai!... sarei certo d’essere diseredato, rispose con un sospiro il
signor Oscar....
— Pure, questo sospiro mi dice che ella sopporta mal volentieri questo
patto!... insistè la Mouchard.
Il Norvegiano esitò un poco, guardò di traverso Stefanella, poi gittandosi,
come suol dirsi, a mare, esclamò:
— Questo sospiro le dice quello che penso di quella creatura lì.
— Signore! fece la Mouchard, assumendo il cipiglio d’una Cornelia, —
spero bene che ella non avrà guardato la fanciulla che io ho in custodia, se
non col rispetto dovuto al suo nome ed al suo grado.
— Tolga Iddio che ne dubiti.... prova ne sia che la credo l’unica creatura per
la quale si potrebbe rinunciare perfino a una eredità di otto milioni...
— Allora non varrebbe più la pena di andare in Norvegia, pensarono
insieme quelle anime sorelle della finta istitutrice e della finta baronessa....
Il ballo era per finire; Stefanella e la signora Mouchard partirono per le
prime, e tutti gli altri si apparecchiavano a seguitarle. Allora il Norvegiano,
essendo andato dalla padrona di casa per congedarsi, la signora si abbassò
al suo orecchio e gli disse:
— Quella fanciulla non è nè Cherubina nè baronessa, nè.... sposabile.
— Impossibile! gridò il giovinetto, dando uno scatto con tutta la persona.
— Glielo confermo.... venga domani da me alle tre: ci sarà anche la signora
Mouchard e ne riparleremo.
XVI.
Le trattative col Norvegiano duravano da alcuni giorni, ma egli era più duro
di quello che le due diplomatiche avevano pensato. La sua morale in fatto di
piaceri era larghissima, ma non arrivava fino alla brutalità. Egli era pronto a
comperare, ma non a violentare. Avrebbe versato il prodotto della pesca
d’un anno per un bacio di Stefanella, ma non le avrebbe tôrto un capello.
Insomma egli voleva conquistare anche a prezzo d’oro se questo era il
mezzo, ma una volta vincitore voleva tutte le apparenze della resa
volontaria e tutte le illusioni dell’amore spontaneo.
La cosa non era facile. Madama Mouchard conosceva Stefanella, ed era
certa che la giovanetta sarebbe stata capace delle più disperate resistenze.
— Non hanno saputo farla.... diceva ella alla sua nuova socia, e si
travagliava con essa in un pelago di progetti uno più strano e nefando
dell’altro.
Dopo molti studi e conferenze convennero alla fine in questo piano.
Bisognava anzitutto parlar fuori dei denti alla calabrese; mostrarle tutti gli
aspetti della fortuna che le andava incontro, ma nell’istesso tempo
spaventarla, minacciarla e metterle a nudo sotto gli occhi tutti gli orrori
della vita che l’aspettava se avesse ricusato. Allora, quando si fosse creduta
la giovinetta sufficientemente preparata, si sarebbero cercati tutti i mezzi
per introdurla nella compagnia del Norvegiano e addomesticarla con lui.
Per la prima parte del piano la sola parola di madama Mouchard parve
poca. Essa aveva già aperto il fuoco descrivendo tutti i meriti e i milioni del
baleniere, ricordando alla fanciulla che essa era senza nome, senza parenti,
senza protezione, schiava d’una potente società, la quale poteva far di lei
quello che il libito le avesse dettato; che doveva pensare al suo avvenire, ed
afferrare il ciuffo della fortuna poichè le passava così dappresso; che se ne
sarebbe pentita poi ricusando; che il Norvegiano l’avrebbe anche potuta
sposare.... ma che il matrimonio non era in fin dei conti necessario...
quand’egli la avesse posta in una posizione indipendente...; che a quel
modo viveva mezza Parigi, e probabilmente mezzo il mondo...; che era
bella come una fata.... che tutte le sovrane d’Europa l’avrebbero invidiata,
ma.... — e qui aveva anche il coraggio di moralizzare — «ma la bellezza,
figliuola, è un fiore caduco....» e lo sapeva lei, la Mouchard, che aveva
sprecato, giovinetta, un tesoro di grazie ed ora se ne mordeva indarno le
labbra. Però ella sarebbe stata ancor felice nei suoi vecchi anni se avesse
potuto fare il bene d’una giovanetta.... «cara, simpatica come Stefanella.»
A queste parole Stefanella rispondeva facessero di lei quel che volevano e
che era pronta a tutto, perchè la vergine era così innocente e ignorante del
male, che non comprendeva nemmeno il valore del patto infame che le si
proponeva.... Alla sua risposta invece la Mouchard si sarebbe messa a
ballare di gioia; ma poi, quando metteva la Stefanella a contatto col
Norvegiano o in casa della Flaviani, o nelle partite di piacere che le due
donne combinavano, e la vedeva così fredda, così riservata, così pudica,
sicchè il Norvegiano stesso cominciava a infastidirsene, allora madama
Mouchard disperava affatto di poter riuscire nei suoi sforzi ed aveva perfino
la tentazione di rinunziare all’impresa.
A questo punto si pensò a far catechizzare Stefanella da un altro oratore e fu
chiamato il direttore dello stabilimento Maubert. Quando la giovinetta si
rivide in faccia quell’uomo terribile, il manigoldo dei suoi giovani anni, si
diede a tremare e a raggricchiarsi come una capinera all’apparire del falco e
una voce subitanea dentro al core la avvertì senza dirle nè il come, nè il
perchè che era perduta. L’aguzzino non usò reticenze, non si perdè in fiori
rettorici, non ebbe compassione nè dell’età, nè del pudore, nè dell’onore;
andò diritto allo scopo e chiamò tutte le cose col loro nome, tanto che ad un
certo punto anche madama Mouchard, persino madama Mouchard, abbassò
gli occhi. Stefanella invece gli spalancava in faccia all’oratore limpidi e
sereni perchè non capiva ancora. Ma dalla conclusione capì invece che le si
chiedeva qualcosa di terribile, qualcosa che non aveva mai fatto e che dovea
costarle la vita.
— Se non farai quello che madama Mouchard ti dice; se non farai quello
che vuole il signore Norvegiano hai visto il sotterraneo dove sei stata fino a
ieri? Ebbene, ce ne sarà uno ancora più nero. Ti ricordi le frustate del mio
scudiscio? Ce ne saranno di ancora più saporite. Ti rammenti quando
comparisti ignuda in mezzo a tutto il collegio?... ci sarà una vergogna
ancora più grande e il tuo pubblico potrà essere tutta Parigi.... A rivederci,
carina.
E con questa minaccia partì....
XVII.
A noi per altro resta a chiarire un punto oscuro del racconto di Gabriele sul
quale egli stesso, per mancanza di esatte cognizioni, fu costretto a scivolare.
Gabriele aveva idee molto confuse sui primordi della vita e le origini della
fortuna di suo padre, perchè nè questi, nè altri di sua famiglia, per le ragioni
che or ora vedremo, o non gliene aveva mai parlato o l’aveva fatto
imbrogliatamente, onde il giovane anzichè capirne qualche cosa, s’era
sempre più smarrito nelle ipotesi e ridotto a riguardare la storia di casa sua
come una specie di problema mitologico perduto nelle nebbie di un’epoca
preistorica.
Inoltre Gabriele era stato avvezzo fin da fanciullo a temere suo padre, e
questo timore, rinterzato anche da quel tanto di rispetto e di stima che senza
essere straordinari, egli sentiva per esso, finiva col togliergli la voglia e il
bisogno di frugare più addentro nelle polveri della cronaca domestica, pago
che quel che appariva e si vedeva avesse le sembianze di decoroso e
d’onesto.
Ma se galantuomo era il frontespizio, galeotto era il libro e noi ne
leggeremo in fretta alcune pagine.
Il padre di Gabriele, il signor Mauvue non era altri che quel commissario di
polizia di Luigi Filippo destituito per legittimista dalla rivoluzione del
quarantotto, agente segreto del principe pretendente nel 1851 ed a cui
l’associazione dei Petits italiens avea fatto l’onore di sceglierlo per suo
presidente. Era uno dei cittadini della Parigi sotterranea. Nel 1830 il popolo
vincitore lo avea sorpreso nell’atto che nascondeva sotto la sua giubba tutta
infiorata di coccarde a tricolori, uno scrigno rubato alla Tuileries, e l’aveva
cacciato in prigione. Ma si sa che nelle prigioni delle rivoluzioni non ci si
sta a lungo: o se ne esce per il patibolo, o se ne esce per la libertà: non c’è
via di mezzo. Il popolo nelle sue passioni è cieco come il destino. Se monta
in ira, uccide senza contare; se l’infiamma la generosità, libera senza
guardare. Nel 93 Mauvue sarebbe stato ghigliottinato: nel 1830 fu dopo 15
giorni liberato. Quei 15 giorni anzi gli fruttarono. Il carcere è un istituto di
perfezionamento per chi ha preso la carriera del delitto. E si fu nel carcere
che, ascoltando senza parlare, i discorsi dei suoi camerati, rifiuto delle
barricate come lui, aveva potuto scoprire il bandolo d’una associazione
segreta di repubblicani puri dei quali si fisse nella memoria i nomi, certo
che ben presto qualche partito o pro o contro avrebbe potuto cavarne. Infatti
Filippo Egalité era appena proclamato re dei francesi che Mauvue era già
dal prefetto di polizia a consegnargli il suo primo rapporto sui repubblicani.
Il prefetto lo ringraziò e prese il delatore al suo servizio segreto,
promettendogli, dopo qualche anno di servizio, un posto nella polizia
pubblica. E difatti, la prova essendo stata soddisfacente, due anni dopo
Mauvue era sottocommissario e, in capo ad altri sei, commissario di prima
classe, addetto al gabinetto del signor Gisquet. Ma ambizioso, intollerante
della mediocrità, avido di subita fortuna, il posto da lui «guadagnato con
tanto sudore,» siccome diceva, gli pareva poco e aspirava più in alto: voleva
addirittura un ispettorato. Ma il signor Gisquet da qualche tempo s’era
messo in diffidenza; quell’uomo non gli piaceva; il suo zelo era falso; la sua
devozione studiata; egli presentiva in lui un infedele, e invece di
promuoverlo lo allontanò persino dal suo gabinetto. Allora i pensieri di
vendetta di Mauvue non ebbero più tregua e confine, e si diede addirittura a
vendere i segreti del governo di Luigi Filippo ai partigiani di Enrico V.
Scoperta la congiura della duchessa di Berry, egli ebbe un giorno di mortale
angoscia, giacchè molte carte, che essa aveva, lo potevano compromettere e
gettare senz’altro in una galera per tutta la vita. Fortuna volle che allora non
si scoperse nulla; Maria di Berry, se non per cautela almeno per fierezza,
distruggeva tutti i rapporti dello spione orleanista, perocchè essa non
avrebbe mai voluto profanare, colla sordida miscela delle sue lettere, un
epistolario al quale le penne più aristocratiche di Francia e di Europa
avevano cooperato.
L’arresto della Berry però fece nella borsa e nell’ambizione del
commissario una larga ferita, e da allora, per una lunga serie di anni, fu
costretto a trascinarsi oscuro e miserabile, spiando indarno l’occasione
d’una rivincita, rodendosi e bestemmiando e non avendo più altra speranza
che in uno sconvolgimento d’acque che lo gettasse a galla assieme al resto
della feccia sociale giacente nel fondo. Venne infatti il 1848, ma per lui,
come per il governo che serviva, la rivoluzione fu una sorpresa ed entrambi
pagarono il fio della loro cieca incredulità.
Quando Mauvue si destò, quand’ebbe fatta la sua scelta e compiuto il suo
piano, la rivoluzione aveva già trionfato senza che egli avesse potuto
distinguersi nè a favore dei vinti, nè dei vincitori, nè di sè stesso. Era una
occasione fallita.
— Avrei almeno potuto aiutar la fuga, diceva a sè stesso, o.... se non altro
l’arresto di Luigi Filippo, o invadere alla testa del popolo il Lussemburgo....
ma no!... nemmeno accompagnare quel buon uomo di Lamartine al palazzo
di città.... Tutto m’ha tradito.... a rimettersi!... forse ci sarà una restaurazione
da aiutare.
La repubblica non gliene lasciò il tempo. Negli archivi del signor Gisquet fu
trovato un fascio di rapporti contro il signor Mauvue; l’affare della
duchessa di Berry spuntò ancora assieme ad alcune nuove rivelazioni
aggravanti; la condotta del commissario fu sorvegliata e parve sospetta e la
repubblica pensò sbarazzarsene e lo depose.
Mauvue protestò, strepitò, fece del fracasso sui giornali, attaccò i soddisfatti
della repubblica aristocratica, coi principii dell’89 e coi terrori del 93,
inventò per conto suo tutte le più strane applicazioni del diritto al lavoro e
chiese perfino il patrocinio delle teorie di Cabet e di Leroux, ma nessuno
s’infiammò o s’impietosì per lui e gli fu forza darsi per vinto. Si fu allora
che egli discese gli ultimi gradini sociali e che si trovò in contatto colle
ultime prolificazioni del canagliaio parigino, dai falsi monetari fino alla
associazione dei Petits italiens.
Se però il febbraio 1848 lo côlse sprovvisto, non così le giornale di giugno
1849. Egli odorò da lontano il vento della tempesta e si tenne pronto a
manovrare. Assumere per conto del partito bonapartista, il quale sperava
scivolare per il sangue di una sommossa sulla via del potere, la parte
d’agente provocatore; mescolarsi al fiotto dei rivoltosi a discreta distanza,
s’intende, dalle fucilate, e ingraziarsi il socialismo, tener nota dei caporioni
della sommossa per denunciarli la mattina dopo alla polizia, e passare fra i
salvatori dell’ordine e della repubblica, ecco le tre parti in una che Mauvue
aveva studiato nelle tre giornate di giugno e nelle quali riuscì
completamente. I socialisti lo proclamarono benemerito, la polizia si risolse
a scrivere a Cavaignac per la sua riammissione e i bonapartisti lo
arruolarono addirittura nelle loro fila.
Il principe Napoleone aveva troppo bisogno d’una polizia segreta e
personale perchè uomini come Mauvue non lo potessero servire. Tuttavia, o
perchè troppo volgare, o perchè troppo nuovo, l’ex commissario non potè
avere altri rapporti colla politica dell’Eliseo fuorchè coi suoi agenti
secondari e tutta la sua ingerenza si fermò nei primi anni alle anticamere.
Fu in quest’epoca che, allettato dal sicuro e lento guadagno e pensando
farsene stromento di più vaste operazioni, egli accettò la carica di
presidente della associazione dei Petits italiens. L’associazione contava nel
1850 nella sola Parigi circa 1000 fanciulli i quali in media davano un
introito di 4000 franchi al giorno cioè un milione, quattrocentottanta mila
franchi all’anno, dai quali, detratto il frutto del capitale impiegato, le spese
di manutenzione e d’amministrazione e la quota spettante agli altri membri
dell’associazione, restava al presidente un netto di centomila franchi
all’anno. Era un’egregia pecunia e Mauvue sapeva che vent’anni di
spionaggio non gli avrebbero dato altrettanto. A ciò si aggiunga il salario
che gli veniva pagato sul bilancio segreto dell’Eliseo e si vedrà che Mauvue
verso la fine del 1851 era un signore.
XXI.
L’ora del colpo di Stato si affrettava a gran passi, e se tutta Parigi la sentiva
nell’aria, Mauvue ne era certo.
Infatti pochi giorni prima il suo capo d’ufficio, chiamatolo in gran
segretezza, gli aveva tenuto questo discorso:
— Si vanno spargendo per Parigi voci assurde di violazioni della
Costituzione, di colpi di Stato ed altre ree congiure. Codeste sono
menzogne dei nemici della repubblica e del principe presidente. Ella da
oggi in poi non ha altro incarico che smentire in pubblico ed in privato
siffatte voci calunniose. Entri nei luoghi più frequentati, si mescoli a tutti i
crocchi, e quando ode parlare di colpi di Stato, sbugiardi e ricordi la lealtà
del presidente, la forza della repubblica, l’onore dell’esercito,
l’immancabile vendetta del popolo.... Dica tutto quello che sa e che vuole....
purchè dica che non è vero... come non lo è. Soltanto le raccomando a notar
bene le risposte e i commenti che il pubblico fa al suo discorso ed a
riferirmeli senza ritardo.
Ognuno capirà che ce n’era anche di troppo per far capire a Mauvue,
avvezzo da lungo tempo alle doppiezze del frasario poliziesco, che il colpo
di Stato era non solo certo, ma imminente.
— Se io devo dire di no, io che non ho altra parte che mentire, pensava
almanaccando sul discorso udito, è segno che è di sì; e l’argomento per
quella coscienza era achilleo.
Noi non diremo tutti i servigi che ei rese nelle giornate del 2, 3 e 4
dicembre; basti che egli, incaricato di spargere i manifesti del presidente
che annunziavano il progetto di Costituzione, si era disimpegnato a
meraviglia della sua missione, mercè l’aiuto dei petits italiens che egli
aveva fatto disseminare per tutta Parigi, coi fasci del proclama cesareo e
coll’ordine di gridare ai quattro venti il grande avvenimento.
Ma il capo-lavoro della sua carriera fu la propaganda per la proclamazione
dell’impero. Egli era stato mandato nei dipartimenti e vi si coperse di
gloria. Il suffragio universale s’inchinava davanti a questo Dulcamara
dell’impero che percorreva la Francia col treno d’un principe e spacciava
per tutti i desiderii una promessa, per tutte le avidità una soddisfazione, per
tutte le malattie uno specifico, per tutti gli scrupoli un cataplasma: oro e
ciondoli, cariche e riforme, chiese e teatri, strade ed ospizi, e poneva tutti i
miracoli di Cagliostro al servizio di un’idea.
Però quando i 7,800,000 voti furono incassati e la vittoria fu certa, la
gratitudine dei vincitori non ebbe più condizioni nè riserve per un così
portentoso agente e fu detto a Mauvue che era padrone di domandare.
— Volete impieghi o volete oro? gli fu chiesto....
— Voglio mezzo milione e il diritto di cambiar nome, — rispose secco
Mauvue.
Quanto al nome non si fiatò nemmeno: tutti lo cambiarono in quell’epoca; il
colpo di Stato non fu che un ribattezzamento generale dal quale era naturale
che il plebeo volesse risorgere nobile e il nobile duca, come il principe era
risorto imperatore. Però Mauvue s’accontentò rinascere De.... e, interciso
l’u dell’ultima sillaba, si fece chiamare De-Mauve.
Chi avrebbe mai riconosciuto nella sua nuova carta di visita sormontata da
tanto di corona baronale l’antico poliziotto Mauvue?!
Quanto al mezzo milione si tirò di prezzo: i servizi del signor De-Mauve
erano grandi; ma molti avevano gareggiato con lui e chiedevano meno. Se
si avesse dovuto pagare tutti in proporzione, che cosa si sarebbe dato ai
caporioni? Le polpe della Francia intera non sarebbero bastate. De-Mauve
dovette accontentarsi di trecento mila franchi in oro che egli corse subito a
convertire in consolidati inglesi, tanta era la fede che aveva nell’impero da
lui creato!
Allora De-Mauve, quasi ricco, giacchè bisogna contargli anche il danaro
«che s’era messo da parte», diceva lui, rubato, diremo noi, durante la sua
propaganda, avrebbe voluto liberarsi dell’associazione dei Petits italiens,
turpe catena che lo teneva confitto, egli nobile e oramai riabilitato, alle
Gemonie del mondezzaio sociale e non gli permetteva mai di camminare a
testa alta nella società di galantuomini e gentiluomini alla quale aveva, con
tutte le forze ond’era capace, agognato. Ma distruggere il passato è l’atto
più difficile della vita. Il passato non perdona, il passato è implacabile e,
quando credete averlo addormentato, egli risorge più minaccioso che mai,
ed è capace di chiedervi per un’ora d’oblìo e di riposo tutto quanto avrete
guadagnato con una vita intera di sudori e di lotte.
Ora De-Mauve non era uomo da mettere a repentaglio tante cose, per una
vanità, uno scrupolo, un pericolo lontano, e poichè in Francia tornava in
onore il vecchio proverbio: «Il y’a toujours des accomodements avec le
ciel» egli cercava applicarlo al caso suo e studiava silenziosamente il modo
di cavarsela amichevolmente dai Petits italiens senza guastarsi, e poichè
non avea potuto strozzare il suo passato, renderselo amico. Ma
l’associazione era tenace e non voleva lasciare la sua preda. Essa aveva
subito veduto quale preziosa salvaguardia fosse per lei il patronato di un
uomo che apparteneva ormai alla nobiltà dell’impero, e stretto da tanti
rapporti coi rappresentanti del potere, e saggiamente ispirata dai suoi
interessi, lo riconfermò per quattro anni successivi nella sua carica di
presidente.
De-Mauve si schermì, mandò persino le sue dimissioni, ma una serie di
lettere anonime avendolo minacciato di uno scandalo, si sentì sforzato a
ripigliare l’ufficio ed a rassegnarsi. La quale rassegnazione per altro,
confortata da 50 mila franchi all’anno, non era difficile esercitare.
Tuttavia egli pensò che una mezza ecclissi gli avrebbe giovato e si ritirò in
campagna. Ivi comperò un podere, si consacrò all’agricoltura, al
miglioramento del bestiame, alle scuole infantili ed alla fabbrica della
chiesa; divenne in una parola un gentiluomo campagnolo, laborioso,
filantropo, morigerato, popolare; l’idolo della comunità.
Fu allora che prese la seconda moglie della quale abbiamo parlato, e fu pure
verso quest’epoca che Gabriele uscì dal suo collegio di provincia e rientrò
dopo dieci anni d’assenza nella casa paterna. Ne era partito lasciandola
triste, oscura, quasi povera, e la ritrovava ricca, splendida, gioconda. Ma se
egli ne sentiva la differenza, non sapeva spiegarsela, e quando ne chiedeva
qualcosa, nessuno gliela spiegava. «Suo padre aveva fatto una grande
eredità» ecco quello che gli si diceva in casa. «Suo padre era un fior di
galantuomo» ecco quello che si soggiungeva in piazza, e poichè
quest’ultima voce pareva autenticare la prima, Gabriele se ne appagava e
tirava via assorto nei suoi studi e nel suo amore.
Suo padre l’amava alla sua maniera come si ama un campo che frutta, un
fuoco che riscalda, un liquore che ristora, un’avvenire che sorride.
Dapprima nei giorni nefasti della miseria l’amava perchè doveva essere il
bastone della sua vecchiaia, poi nei giorni della fortuna perchè doveva
essere il vanto del suo nome e l’erede della sua prosapia; era insomma
amore interessato, l’amore mercantile, l’amore degno dell’anima di De-
Mauve. Però in tutti i tempi non aveva mai tralasciato di coltivare questo
suo fondo di riserva incontrando tutti i sacrifici che gli erano stati richiesti
per la sua educazione e togliendosi spesso letteralmente di bocca metà del
vile suo pane per pagare la pensione del modesto collegio nel quale
Gabriele era rinchiuso.
Un siffatto amore paterno aveva una disciplina ed una morale sua propria.
De-Mauve non avrebbe mai permesso che suo figlio si scostasse d’un
pollice dalla linea di condotta che egli, padre, gli aveva prefissa, ma quella
linea finiva in una meta sulla quale era scritto: «far quel che giova».
E siccome De-Mauve credeva che le apparenze governassero
principalmente la società ed il tempo, nei quali Gabriele era destinato a
vivere, così egli era disposto a lasciare a suo figlio, anche studente, una
certa larghezza di spendere, ed una comoda se non sconfinata libertà di
seguire i capricci della moda e le abitudini del bel vivere. Gabriele invece
usava con molta parsimonia del danaro paterno e man mano che procedeva
negli anni diveniva sempre più parco ed austero. Tutto il lusso che si
permetteva era la libreria. Il padre scrollava la testa dicendo tra sè:
— Col solo studio non si fa fortuna, ma poichè dell’ingegno e della dottrina
di Gabriele risuonava ormai tutto il quartiere Latino e perfino i giornali
avean cominciato a parlare, così De-Mauve, pensando che questo era buon
principio d’apparenza, se ne accontentava e s’abbandonava ai più lieti
pronostici sulla carriera del figliuolo.
Tutto a un tratto Gabriele scrisse a suo padre chiedendogli una forte somma
di denaro.
La cosa era troppo insolita e straordinaria perchè De-Mauve non vi dovesse
cercare una straordinaria cagione.
— Qui v’ha da essere di mezzo una donna, un viaggio od una buona azione,
pensava De-Mauve commentando però quel buona azione con un
sogghigno che voleva dire «follia». — Prima di dare il denaro sarà meglio
che vada a Parigi a vedere.
E mentre si preparava a partire, trovò un telegramma in cifra del Comitato
esecutivo dell’associazione che lo chiamava in tutta furia alla capitale.
XXII.
I due fuggiaschi occupavano il loro nuovo nido da soli dieci giorni. Dopo
quella notte passata sui gradini della chiesa di San Sulpizio, Gabriele aveva
condotto provvisoriamente la fanciulla nel suo piccolo appartamento del
Quartier latin, ma col disegno di cercarne un altro in un luogo più nascosto
e meno sorvegliato. D’altronde, ed è una circostanza che ci preme far
notare, Gabriele nelle sue stanzuccie al quarto piano si sentiva troppo vicino
a Stefanella e non già per il timore dei pericoli d’un tale contatto, pericoli
tenuti insuperabili da tutta quella gioventù ardente e sbrigliata che lo
circondava; ma perchè s’era accorto che fin dalle prime ore la maldicenza
aveva cominciato a pettegolare e mormorare, aveva creduto unico rimedio
contro di essa fuggire in campagna.
Infatti nella sera del giorno stesso aveva trovata presso Romainville la
casetta che già in parte conosciamo. Ivi Gabriele aveva la sua camera e
Stefanella la sua. La mattina si incontravano sull’uscio della sala comune e
la sera si separavano: vivevano tutto il giorno come due fidanzati, e la notte
come fratello e sorella. Non era insomma la vita comune dello studente e
della crestaia: era il convegno perpetuo di due sposi e l’onore dell’uno e
l’innocenza dell’altra, l’amore d’entrambi teneva luogo di barriera.
Ma per questo appunto Gabriele voleva sollecitare con tutte le sue forze la
consacrazione del suo affetto. Vivere senza Stefanella non gli pareva
possibile; ma far di Stefanella una concubina ancora meno. Egli l’aveva
liberata, ed ora voleva compiere l’opera della sua redenzione, ponendo la
fanciulla redenta sotto l’egida di Dio, della legge e del suo nome. Voleva
insomma sposarla e per questo, come un primo scandaglio gettato
nell’anima del padre, gli aveva scritto che aveva bisogno di denaro.
— Se mio padre mi chiederà cosa voglia farne, diceva a sè stesso, allora gli
confesserò tutto.
S’immagini ognuno lo stupore, l’allegrezza, la follia che lo invasero,
quando il servo del signor De-Mauve gli portò la lettera che conosciamo...
Egli non sapeva trovarsi più, non poteva spiegarsi come suo padre avesse
così presto scoperto il suo ritiro, e dicesse per giunta di saper tutto; molto
meno poi concepiva come un uomo rigido e severo quale il signor De-
Mauve potesse scrivere quel «ripareremo» pieno di tanta bontà e di tante
promesse. Comunque, Gabriele vedeva la cosa bene incamminata e suo
padre mezzo preparato, il consenso certo, l’avvenire felice, e dava per la
sala balzi di gioia. Correva da Stefanella a leggerle e rileggerle la lettera, la
commentava con lei e fabbricavano insieme tutti i castelli in aria della
primavera e dell’amore.
Gabriele non volle indugiare un minuto ad ubbidire all’invito paterno, e
baciata sulla cima dei capelli la sua Stefanella, si mosse per Parigi.
— Ma tornerai presto — gli disse trattenendolo per mano la fanciulla,
subitamente assalita da un inesplicabile timore.
— Stassera stessa! a qualunque costo... A rivederci... È uno scherzo della
nostra felicità che nell’atto di venire si trastulla a disturbarci. Ma ti lascio
qui l’anima mia.
E con queste parole balzò in carrozza e si fe’ condurre alla casa di suo
padre.
Questi lo attendeva nel suo studio. Quando lo vide entrare gli andò incontro
per stringergli la mano, e modellando le labbra ad un sorriso affabile,
insolito su quella bocca, gli disse:
— So tutto, ma compatisco e perdono... Stefanella sarà tua... un giorno...
Ora non potresti sposarla... Prima devi farti un nome ed una carriera...
— Padre mio! — balbettò Gabriele metà sorpreso di quella bontà, metà
spaventato da quella sentenza.
— Sì, Gabriele... Io proteggerò la fanciulla, la terrò per mia figlia... finchè
tu ritorni.
— Ritornare?... dovrei dunque partire?
Il padre fe’ cenno col capo di sì...
— Oh mai, proruppe il giovane.
— Allora la perderai... Io non darò mai il mio consenso al matrimonio di un
ragazzo con una bambina. Fàtti uomo, matura nel lavoro il tuo
proponimento, acquista un grado ed un titolo sociale e allora io benedirò la
vostra unione, senza guardarmi addietro, senza cercare se la fanciulla sia
una zingara o una contessa, senza chiedere nemmeno dove sia nata...
— Ma... quanto dovrebbe durare questo esiglio di prova?..., si peritò a dire
Gabriele che già cominciava a guardare la proposta di suo padre sotto un
nuovo aspetto...
— Oh!... un paio d’anni al più... Ma forse anche meno. Ciò dipenderà da
te....
— E Stefanella? Chi penserà ad essa?
— Io, ti dico. Non ti fidi della parola di tuo padre? Io, finchè sarò vivo... il
mio testamento, se morissi.
— E... dove dovrei andare?...
— Parte stanotte istessa lo stato maggiore generale della spedizione di
Crimea... Io ho già potuto ottenere che tu come baccelliere in matematica ed
istruito nelle lingue orientali, avresti potuto seguitarlo come aggregato
volontario. È il principio d’una strada che ti può condurre lontano. In
Francia l’impero è militare ed è la sciabola che comanda. Tu sarai alla
guerra e non la farai; gli stati maggiori non vanno alla mitraglia. È uno
splendido e sicuro avvenire che ti preparo e... e Stefanella come corona
dell’edificio.
Gabriele stava ad ascoltare rattenendo i battiti del cuore, a testa bassa, cogli
occhi fissi sul pavimento, quasi cercandovi un’ispirazione... Alla fine dopo
una pausa proruppe:
— E dovrei partire stanotte?
— Stassera fra due ore....
— Senza rivedere Stefanella.... Oh questo è impossibile....
— Dovrai forse fare anche questo sacrificio. Tu non puoi tornare a
Romainville; non hai che il tempo per fare i preparativi del viaggio e recarti
a visitare il colonnello X.... che sarà il capo della tua sezione.
— È impossibile come un delitto, replicò Gabriele....
— Ma è anche impossibile far due cose insieme.... facciamo una prova, se
lo vuoi. Mandiamola a prendere.... Essa potrà ancora venire in tempo
almeno per salutarti.
— Verrà in tempo?... chiese Gabriele, e voi me lo assicurate?
— Te lo assicuro. Manderemo i migliori nostri cavalli... in un’ora e mezza
non vuoi che siano di ritorno?
— Me lo promettete, padre mio?
— Te lo prometto.... Ora scrivimi un biglietto per la fanciulla.
— Non sa leggere, fece Gabriele abbassando gli occhi; basterà gli diciate di
venire in nome mio a casa vostra. Ella sa che io sono venuto qui.
— Sta bene, faremo così.... e chiamato lo stesso servo che aveva portato al
mattino il biglietto a Gabriele, gli diede tutti gli ordini necessari per questa
seconda spedizione....
— E, ventre a terra, soggiunse De-Mauve quand’ebbe finito.
Gabriele non poteva ancora rendersi conto di quello che gli accadeva o
stava per fare, e in mezzo al vortice di dubbi, di ragionamenti e di terrori nel
quale nuotava, un dilemma chiaro, inesorabile, minaccioso sormontava e
diceva: «O restare e perdere Stefanella, o partire e conquistarla».
E intanto che nella agitata mente cercava indarno un’uscita, una fuga a
codeste tenaglie nelle quali si sentiva da poche ore serrato, faceva
macchinalmente quelli che suo padre chiamava i preparativi del viaggio e
andava a far visita al suo futuro colonnello.
Questi lo accolse oltre ogni dire cortesemente e, dietro un cenno
impercettibile che il signor De-Mauve gli fece, disse:
— Sono ben felice d’avervi con me, signor Gabriele. Vi prendo subito per
mio segretario e passerò io stesso colla mia carrozza a prendervi per
condurvi alla stazione.
In tutte queste bisogne, l’ora era già passata; non c’erano più che pochi
minuti e Stefanella non era ancora arrivata. Gabriele era sopra brage
ardenti: protestava che non sarebbe partito senza vederla, che sarebbe stato
un tradimento, che avrebbe messo sossopra il mondo.
— Fanciullaggini, rispondeva il padre; non mancano che venticinque minuti
e ce ne vogliono già quindici per arrivare alla stazione. Fra poco il
colonnello sarà qui colla sua carrozza.... lascieremo ordine che Stefanella
sia condotta alla stazione. Verrà a salutarti là.
— Salutarla!... salutarla non basta.... voglio chiederle quel che pensa di
me.... come sopporterà questa partenza improvvisa.... questa lunga
lontananza, se mi amerà anche lontano.
— È qui il colonnello interruppe il padre, sentendo il fragore d’una carrozza
in cortile.
— O Stefanella, replicò Gabriele correndo alla finestra.
— Il signor colonnello X, annunziò un servo.
Il colonnello entrò frettoloso senza attendere, dicendo:
— Partiamo!... partiamo, signori, non abbiamo un minuto da perdere....
Milizia vuol dire puntualità, e chi arriva ultimo in guerra perde sempre.
E così dicendo si voltava per uscire di nuovo.
— Siamo a’ suoi ordini, signor colonnello.... Vero, Gabriele? rispose De-
Mauve pigliando pel braccio il figliolo e traendolo verso la porta.
Gabriele non ci vedeva più: non aveva forza nè di resistere, nè di parlare, nè
di risolversi; andava come un automa giù per le scale, come un automa fu
messo in carrozza e portato di carriera alla stazione della strada ferrata del
Mezzogiorno.
Durante la strada però aveva ripresi i sensi e la volontà e smontando davanti
alla porta della stazione si piantò col piglio il più risoluto in faccia a suo
padre e al colonnello e disse:
— Signor colonnello.... io non posso partire, se non ho veduto almeno un
istante una fanciulla che amo. Mio padre me l’aveva promesso, e se egli
non può adempire questa promessa io pure ritiro la mia parola.... e resto!...
Non ci sarà forza umana che mi faccia smuovere da questo proposito.
La dichiarazione era categorica, e il volto, la voce, il gesto di chi la faceva
non parevano ammettere replica. Da ogni accento si sentiva parlare il
proposito della disperazione.
— Ecco Stefanella!... fece il padre voltandosi ad accennare una carrozza
che arrivava in quel punto in mezzo a molte altre alla stazione.
— Ed ecco il segnale della partenza, fece il colonnello; signori io vado....
resti chi vuole.... il dovere anzi tutto.
Stefanella in quel momento scendeva da carrozza. Gabriele s’era slanciato
incontro a lei e lì, in mezzo a quella folla di soldati, di cocchi e di cavalli,
l’abbracciava stretta e le diceva:
— Devo partire.... ma per tornare.... per esser tuo per sempre.... Stefanella
non capiva nulla, ma si sentiva svenire di dolore e aveva appena la forza di
articolare una parola:
— Partire.... partire....
— Sì... ma tornerò.... addio.... mi vorrai sempre bene?
Stefanella non parlava più; le labbra illividite le tremicchiavano
convulsamente, ma non poteva cavarne un solo accento. Rispondeva col
capo automaticamente di sì.... ed era bianca come una morta.
L’ultimo squillo della partenza suonò. De-Mauve lo fece intendere a
Gabriele, il quale alzati gli occhi in faccia a suo padre e coll’accento della
più profonda ambascia gli disse,
— Voi la proteggerete, padre mio.
— Lo giuro, disse De-Mauve, col tuono solenne d’un santo.
Allora Gabriele, sferratosi dalle braccia della sua vergine, montò sul
convoglio e partì. Stefanella lo intravide allontanarsi, diè un gemito
leggiero come quello d’una colomba percossa nel mezzo del cuore e cascò
priva di sensi.
De-Mauve la fece raccogliere e portare nel legno col quale era venuta:
sussurrò una parola al suo cocchiere e, montato in un’altra carrozza,
disparve.
Stefanella risensò soltanto quando la carrozza si fermò e le fu detto di dover
discendere per montare in un altro legno. Essa era come ebete e
macchinalmente ubbidì. Solamente quando fu nella seconda carrozza chiese
al cocchiere che chiudeva lo sportello:
— Dove mi conducete?
— A casa vostra, disse sogghignando il sinistro auriga, e partì anch’egli al
galoppo.
XXIV.
Era notte. Le case passavano via nelle tenebre innanzi alla rapida carrozza e
non permettevano alla fanciulla di orientarsi. Vedeva però abbastanza per
capire che faceva una strada diversa da quella ond’era venuta, e in cuor suo
dubitava.
A un tratto, giunta in un luogo ampio e deserto che pareva una piazza, la
carrozza si fermò e Stefanella fu fatta smontare. Ella smontò replicando
ancora al cocchiere:
— Dove mi conducete?
— A casa vostra, ripeto, fece il cocchiere collo stesso sogghigno e
additando le negre e luride muraglie dello stabilimento Maubert che si
rizzava di fronte....
La fanciulla aprì gli occhi; osservò, riconobbe il luogo, formulò colla
rapidità del terrore disperato un ragionamento, congiunse mentalmente le
cause agli effetti, la partenza di Gabriele al suo ritorno in quell’orrido
chiostro, e tramortì di nuovo....
La poveretta non si era sbagliata: svegliandosi, anzi svegliata dalla ruvida
scossa dell’aguzzino, si trovò in uno dei covili della spelonca Maubert.
— Su, contessina... svègliati che sei aspettata a far nottata altrove....
T’abbiamo fatta venir qui solo per regolarità della ricevuta... ma il tuo
collegio d’ora in poi è un altro... e ci si sta allegri.... vedrai! È un bagordo di
giorno e di notte.... ma un pochino più di notte.... Prima però devi mettere
giù questi fronzoli.... Sono dell’amministrazione e non deve essere
frodata.... e così dicendo accennava i pendenti, la gonnella e gli altri
ornamenti del vestito di Stefanella.
Essa ascoltava ancora, ascoltava sempre senza rendersi ragione di quello
che le accadeva. D’altronde le emozioni che l’avevano percossa da un’ora
in poi erano state così forti, che la facoltà di intendere e di sentire era in lei
spenta.
— Spògliati dunque, fece l’aguzzino. Sì, spògliati!... O che questi gingilli
sono suoi?... presto!... su!... presto, dico!... e già le poneva le mani sul corpo
per levarle di dosso le vesti che madama Mouchard le aveva fatto fare per la
pubblica rappresentazione. Stefanella corse colla mano a far riparo al suo
seno, ma fu indarno; l’aguzzino, aiutato dalla Pica, sempre pronta ai martirii
altrui, ridusse brutalmente ignuda la povera vergine e gettandole ai piedi un
cencio di vecchia gonnella che avea coperta una morta del mattino, le disse:
— Mettiti questo ora, e partiamo. Se in collegio ne guadagnerai, ti vestirai
di nuovo.
Stefanella si coperse di quel funebre drappo che le avevano dato e al
secondo comando dell’aguzzino si mosse per partire. Di fuori aspettava la
stessa carrozza che l’aveva condotta; ella vi fu fatta montare; vi si posero ai
fianchi l’aguzzino e la Pica e partirono insieme per un’altra meta ignota.
XXV.
Può il liberatore salire la scala della gogna per strapparne la vittima, può la
giustizia avventurarsi nelle rôcche del delitto per atterrarlo? Deve la
filosofia umana gettare lo scandaglio in tutti i misteri e la patologia sociale
mettere il cauterio su tutte le cancrene?... È egli vero che la virtù stia nel
conoscere, e che soltanto dal cozzo del male e del bene emani quella
scintilla che nella morale è verità, e nell’arte è poesia? Se tutto ciò si può, se
devesi, se è vero, se Omero dipingendo Troilo fa amare Achille, se Edipo
rappresentando Fedra fa comparire Ippolito, se Dante descrivendo l’inferno
fa desiderare il paradiso, se Lady Macbeth fa pensare a Giulietta, se il
peccato di Fantina rende più sublime l’innocenza di Cosetta, se Cristo che si
circonda di lebbrosi e di peccatori sale tant’alto da parere divino, allora
l’arte è governata dalle stesse leggi della morale ed essa ha il diritto di
spaziare dappertutto, dove lo può il bene per combattere il male, la luce per
diradare le tenebre, l’ideale per circoscrivere il reale, lo spirito per
conquidere la materia. Dappertutto, ma ad una sola condizione: che essa
non perda mai il pudore delle ciglia e della parola, che la sua veste quanto
più s’inoltra nel fango tanto più sia casta e severa, che essa illumini tutte le
miserie di questo mondo, ma dal posto delle stelle.
A queste condizioni, con questo intento, la nostra musa seguirà a occhi
bassi e inorridendo i passi di Carluccio affinchè possa dire scendendo le
orride scalèe: «ho liberato dall’ignominia uno spirito immortale».
La porta s’era spalancata davanti a Carluccio come davanti al primo che
passa. Poichè il primo che passa è il cliente.
Appena dentro udì un gran tumulto per le scale e uno scambio di urli, di
bestemmie e di singhiozzi e indi a poco una fanciulla atterrita e scarmigliata
corrergli incontro a precipizio, inseguita da un uomo e da una schiera di
femmine.
Carluccio alzò gli occhi sulla fuggente, la riconobbe, la chiamò per nome, la
sollevò nelle sue braccia vigorose, e in men che non si dica, con uno di
quegli sforzi ginnastici che tante volte avean strappati gli applausi alla folla,
la portò in istrada.
Stefanella fuor di sè non l’aveva in sulle prime riconosciuto, ma il cuore le
aveva detto che l’uomo che la portava via era un protettore e si lasciò
andare fra le sue braccia, come l’annegato fra quelle che lo traggono alla
riva.
La turba degl’inseguenti però non voleva lasciar la sua preda, e mentre
Carluccio arrivava in istrada col caro peso, l’uomo gli era sopra e già
allungava la mano per afferrarlo pel collare. Ma Carluccio parando il colpo
gli sferrò tale un pugno sulle narici che lo mandò a ruzzolare insanguinato
contro la muraglia.
L’uomo si diede a gridare al soccorso e molte altre genti maschili e
femminili sbucavano già da ogni parte di quel turpe semenzaio e
investivano tutt’all’intorno Carluccio, il quale, brandito il suo coltello, si era
preparato alle estreme difese; quando a cessare ogni lite comparve la
polizia.
Nè si creda che questa comparsa fosse fortuita. L’aguzzino, appena liberato
dalla mano di Carluccio e vista la fine della Pica, era corso al
commissariato più vicino denunziando l’assassino e dando tutte le
indicazioni per seguitarne la traccia. Una pattuglia di gendarmi e poliziotti
comandata da un commissario e guidata dall’aguzzino stesso, fu subito
messa in moto e non tardò a raggiungere il perseguito.
La pattuglia, fattasi largo in mezzo alla turba, si diresse difilata su colui che
teneva un’arma in pugno. Carluccio tentò difendersi, resistere, dir le sue
ragioni, ma quattro gendarmi lo avevano già afferrato e stavano
ammanettandolo, quando Stefanella fattasi innanzi al commissario che dava
gli ordini,
— Arrestate anche me, gli disse, sono sua sorella e sua complice.
Il commissario esitava e guardava stupito e forse anche commosso, la
bellissima giovinetta. Egli ignorava di certo che ella preferiva seguitare la
sorte del fratello, fosse pure un carcere perpetuo o la morte, al vivere un’ora
di più nel luogo di profanazione nel quale era stata gettata. Poichè un
miracolo ne l’avea fatta uscire pura e immacolata come prima, pura e
immacolata voleva morire accanto al suo liberatore. E tali sentimenti,
rapidamente nati e divenuti giganti nella sua mente, le avevano ispirato
l’insolito coraggio di profferire quelle parole che erano parse il sublime
della fierezza innocente persino ad un commissario.
— Sì, arrestate anche lei.... la congiura è sua.... è lei che ha spinto il
fratello.... a Bicètre... a Tolone.... alla Grève.... ladroni italiani.... assassini,
si mise a gridare quella lurida ciurmaglia sopra la quale primeggiava la
voce dell’aguzzino.
— Venite voi pure, disse il commissario a Stefanella, renderete conto alla
giustizia.
E fra le fischiate, le urla e i cachinni osceni di quella nefanda contrada i due
Calabresi furono tratti in prigione.
XXVII.
Da un mese le due Calabrie vivevano nel terrore. Una banda di briganti che
la spaventata fantasia ingrossava, e della quale una più feroce non era mai
comparsa a memoria d’uomini in quella contrada, occupava tutti gli sbocchi
della Sila e minacciava con le più audaci scorrerie fino l’interno delle città.
Erano dieci... venti... cento persino, diceva la voce pubblica; avevano
ramificazioni su tutti i gioghi, manutengoli in tutti i villaggi, minacciavano
tutte le strade, ponevano ricatti a tutte le famiglie, il fuoco a tutte le fattorie,
assalivano, qualche volta, persino i posti dei gendarmi e della truppa
destinata a contenerli. Nessuna vita, nessuna sostanza erano più sicure.
Miravano però alle alte cime e specialmente agli ufficiali del governo. Un
generale avea dovuto riscattarsi con ventimila onze; un intendente era stato
messo a brani, arrostito e spedito così cucinato alla città che aveva
presieduto; sopratutto, se capitava loro nelle mani una donna, la loro rabbia
non aveva più umano confine. Erano obbrobriosamente pollute, uccise e
appese ignude sulla pubblica via. Inseguiti, traccheggiati, cercati a morte da
numerose colonne volanti, aveano saputo fino allora resistere a tutti gli
assalti e sparivano fuggendo nelle loro spelonche, dove nessun occhio
poteva penetrare nè piede umano avventurarsi. Qualche volta battuti pareva
trovassero nelle viscere stesse della terra inesauribili riserve e quando
giungeva la notizie che erano decimati in un luogo, ecco ricomparivano
moltiplicati in un altro. Era la favola dei denti di Cadmo.
Il loro capo sopratutto era il fantasma di tutti i terrori, e il protagonista di
tutti i racconti, l’eroe di tutte le imprese.
Gli affibbiavano una forza favolosa, una giustezza di colpo portentosa, una
carabina infallibile, una gamba inarrivabile, una ferocia insaziabile, un
coraggio indomabile, una specie di potenza miracolosa. Chi lo faceva
vecchio e chi giovane; chi alto e chi basso, chi erculeo e chi sottile, chi gli
prestava una lunga barba e chi lo voleva imberbe come un giovinetto. Tutti
lo dipingevano a capriccio, tutti sognavano di averlo veduto vestito in mille
foggie, da gendarme, da prete, da mercante, da donna, da frate, da gran
signore, da accattone, ma nessuno infatti l’avea veduto, perchè chi l’aveva
veduto non era più tornato a raccontarlo. Chi diceva che era francese, chi
napoletano, chi calabrese; volevasi che parlasse tutte le lingue, che sapesse
tutti i giuochi, che ballasse tutti i balli, che suonasse a meraviglia la
zampogna e cantasse come un cigno.
Era la leggenda di Fra Diavolo ingigantita dal tempo, moltiplicata dagli
aneddoti di un secolo di brigantaggio, esagerata da tutti i colori della
fantasia meridionale.
Quanto a’ nomi glieli davano tutti, ma egli non ne portava alcuno. Non
firmava mai nessuna carta, chi per lusso di precauzione diceva, chi perchè
non sapeva scrivere; ma in luogo di firma adoperava un sigillo che portava
una testa d’Erinni. Laonde il solo nome che gli sia rimasto presso i presenti
e i futuri fu la Furia... Bastava che un qualsiasi uomo o donna per celia o
per minaccia pronunciasse quella parola «la Furia» perchè tutti gli astanti
fuggissero tremando, come se la Furia stessa fosse loro stata alle spalle.
Un suo decreto mandato anche da lontano per mezzo della posta e segnato
del suo terribile suggello valeva come un decreto del re: tutti l’ubbidivano e
non osavano parlare, sapendo che la Furia non perdonava le delazioni e le
scopriva tutte. In molte chiese si erano cominciati tridui, novene e
pubbliche preci per allontanare il grande flagello, ma la Furia comparve un
giorno, solo, in mezzo alla chiesa in piena messa cantata e bastò a mettere
in fuga in un baleno, preti e preganti ed a vuotare la chiesa. Egli prima di
partire bollò del suo sigillo la porta e ordinò che per tre mesi non fosse più
riaperta, e non lo fu.
Perciò la tradizione ripete ancora che «la Furia mise in prigione
Domineddio e nessuno ebbe il coraggio di liberarlo».
L’uomo che menava tanto rumore e tanto spavento di sè, il lettore l’avrà già
indovinato, non era altri che Carluccio. Nessuno sapeva ch’ei fosse il
fratello della Stefanella e nemmeno che fosse di Ritorto. La polizia stessa
ignorava il suo nome e la sua patria, e quest’aria di mistero aumentava la
sua forza. La credulità popolare aveva di certo ingrossata la cronaca delle
sue imprese, ma anche facendo molte concessioni alla favola ed al terrore,
restava pur sempre una gran parte di vero!
Carluccio non comandava infatti che una banda di 24 briganti, ma erano
tutti eccellentemente armati e muniti; aveva complici e manutengoli in tutte
le provincie del regno e in tutti gli ordini della società; disponevano di
somme favolose di denaro, e quel che è più, conoscevano i più nascosti
recessi della contrada, dalla foce del Crati al golfo di Squillace, come i
gendarmi che indarno li inseguivano, conoscevano gli angoli della loro
caserma. Le truppe regie spedite ad attaccarli caddero due o tre volte nelle
loro imboscate e furono costrette a fuggire decimate e sconfitte. Attaccati, si
battevano furiosamente ma non si lasciavano mai circondare, e prima che il
nemico li avesse avvolti, erano già spariti nei burroni inaccessibili della
montagna. Carluccio primeggiava naturalmente per ordine, destrezza e
ferocia, e due o tre imprese compite da solo avevano finito coll’assicurargli
sopra i compagni una incontestabile autorità.
Oltre la famosa comparsa nella chiesa che abbiamo narrato, fece anche
questa:
Sapeva che un ricco barone della contrada maritava la figlia e che il corteo
della sposa dovea partire una notte da Cosenza per avviarsi a Rogliano dove
l’aspettava lo sposo.
Il convoglio di cocchi e di cavalli doveva essere scortato per pompa e per
difesa, sebbene allora la Furia fosse creduta lontana, da una squadra di 24
servi a cavallo armati di tutto punto, coll’ordine di marciare all’avanguardia
e alla retroguardia con tutte le precauzioni militari. Ma erano fuori poche
miglia da Cosenza che uno dei servi a cavallo avvicinatosi al barone, che
l’avea richiesto per non so quale servizio, lo afferrò improvvisamente per la
gola e puntandogli una pistola alla testa, gli disse a bassa voce:
— Io sono la Furia, non ti muovere o sei morto.
Il barone, a quel nome, a quell’atto, al freddo di quella canna che gli
toccava la fronte era già morto prima di essere ucciso e appena ebbe
coraggio di dire:
— Salvatemi, cosa volete?...
— Ordinerai ai tuoi servi che raccolgano qui ai miei piedi tutto l’oro che hai
nella tua carrozza e le gemme che porti a tua figlia e tutte le armi delle quali
sono armati.... poi che tornino tutti indietro, cocchi, cavalli e uomini alla
gran carriera e senza voltarsi indietro... Tu resterai con me, finchè l’ordine
non sarà eseguito... Obbedirai?...
— Obbedirò...
E il Barone ordinò, come aveva suggerito la Furia. I servi ad uno ad uno
venivano pallidi e frementi a deporre chi uno scrigno tempestato di pietre
preziose, chi un’arma rabescata d’argento, e se alcuno si peritava a
brontolare a mezza voce,
— Voi volete ammazzare il signor Barone, diceva la Furia, giuocando col
grilletto della pistola.
In pochi minuti la volontà della Furia era adempita, e quando l’ultimo dei
servi sparì nella risvolta della strada, allora la Furia lasciò il Barone
dicendogli:
— Va, e non t’avventurare più di notte dove regna la Furia.
Il Barone non se lo fece ripetere, e con quanta forza aveva nelle gambe il
suo cavallo, fuggì anch’egli alla volta di Cosenza.
Carluccio, rimasto solo, diè un fischio; quattro o cinque de’ suoi compagni
uscirono dalla macchia e raccolto lo splendido bottino, lo portarono nei
nascondigli della selva, tutti compresi di stupore e di rispetto per l’audacia e
la fortuna prodigiosa del loro capo.
Alla fama di tali imprese una persona sola pativa in segreto senza averne
paura, nè provarne meraviglia: era Stefanella. In sulle prime tutte le volte
che Carluccio mandava a lei o per chiederle o per darle notizie, od anche
per domandarle l’asilo d’una notte, Stefanella, come aveva promesso, non
s’era mai ricusata, e più d’una volta il granaio della vergine aveva ospitato
il terribile la Furia. Una cosa sola Stefanella non aveva mai voluto
acconsentire, cioè, ricevere i doni di denaro e di gioielli che il fratello le
faceva.
— I tuoi regali mi fanno orrore... tu non sei più il Carluccio che ho amato
— gli diceva, e correva a nascondersi in un angolo del granaio e piangeva a
dirotto.
Un giorno essa prese una risoluzione. Carluccio era venuto a vederla
proprio a quel risvolto della strada di Ritorto ove l’avea riveduto la prima
volta: Stefanella gli si mosse incontro fredda e risoluta. E prima che l’altro
le avesse potuto toccar la mano, gli disse:
— Carluccio!... volete lasciare la vita che conducete?... ve lo chieggo in
nome della vostra e mia eterna salute!... Ma, per l’ultima volta, lo volete
voi?...
Carluccio, senza esitare un istante:
— No, rispose. No!... non mi sono ancora vendicato... Quando avrò bevuto
il sangue del cuore di un francese, allora chiederò a Dio perdono dei miei
peccati, e finirò da me stesso.
— Basta!... fratello... noi non ci vedremo mai più, io sono morta per voi...
voi lo sarete per me.
— Sia fatta la vostra volontà... Ciascuno per la sua via... La Furia ha il suo
destino... e non è quello degli angioli... addio... per sempre... ma se un
giorno tu udissi che sulle montagne è accaduta una ecatombe di francesi...
allora dirai che quell’ora fu l’ultima della mia vita... Addio.
E l’uno cacciandosi nel fitto del suo bosco, l’altra rifacendo lentamente la
sua via, si separarono.
XXXI.
Pochi giorni potevano essere trascorsi da questo ritrovo, quando una sera
Stefanella, occupata a far pascolare le sue capre lungo una siepe che
fiancheggiava la postale, vide arrivare una carrozza da posta che montava al
passo l’erta della via. La fanciulla, così diversa in tutto dalle altre non
provava nemmeno la naturale curiosità del paesano per tutto ciò che è
nuovo e forastiero, e intanto che la carrozza s’avvicinava continuò a
starsene seduta sul margine della strada colle spalle rivoltate ai vegnenti.
Frattanto la carrozza le era giunta dappresso, ed essa udì una voce gridarle
in accento gentile, ma straniero:
— Oh bella calabrese!... Quante miglia da qui a Cosenza...
Stefanella si volse come... dire come l’avesse toccata un ferro rovente od
una scintilla di fulmine sarebbe ancora poco... come se tutta la sua anima se
ne fosse andata in quella voce che le aveva parlato ed ella fosse stata portata
via intera in quella carrozza.
Ella si volse, volle fare un passo, chiamare un nome, mandare un grido, ma
la carrozza, superata l’erta, si era slanciata al trotto e, avvolta nella nube di
polvere dello stradone, sparì in pochi istanti dalla sua vista.
Stefanella cadde boccone sulla via e vi restò molti minuti senza sensi e
senza respiro, vivente soltanto in un convulso agitar delle labbra che
tentavano profferire il nome della persona la cui voce aveva udita dopo sei
anni di silenzio e di attesa: il nome e la voce di Gabriele.
A poco a poco trovando quasi diremmo la forza nello stesso nome che
andava mentalmente pronunziando, e scossa da un’altra angosciosa idea che
l’avea assalita simultaneamente alla gioia di quell’incontro, risensò e
alzossi.
Allora stette qualche istante come smarrita in mezzo alla strada, si guardò
intorno, a destra e a sinistra, raccolse le sue idee, rivide con mente più
calma quella carrozza, s’accertò delle persone che dovea portare, pensò
donde veniva, dove andava; conchiuse che erano francesi che andavano a
Cosenza, ma che intorno a Cosenza c’era la banda di suo fratello, e che fra
quei francesi c’era la vita del suo amante, e compiendo rapidamente questo
ragionamento,
— Salvarlo!... — esclamò — salvarlo o morire; e senza nemmeno volgere
un’occhiata alle sue capre, senza nemmeno curarsi di quel che lasciava e di
quello che rischiava, si pose a correre per la strada nella direzione che
aveva preso la carrozza.
Stefanella conosceva tutti i sentieri e le scorciatoie della valle e del monte, e
immaginava inoltre dove poteva essere Carluccio. Fatta quindi una
mezz’ora di cammino sullo stradone infilò a sinistra una viottola e poco
dopo un sentiero ripido appena segnato da una leggierissima orma di piede
umano. L’impazienza, l’ansia, la paura, l’amore le aveano posto le ali ai
piedi: arrivare un’ora, un quarto, un minuto prima o dopo, poteva essere la
salvezza o la morte.
Questo pensiero le centuplicava la vita: i suoi muscoli delicati non
sentivano la stanchezza, e l’eccitamento nervoso nel quale si trovava le
teneva luogo di forza e non le lasciava modo di calcolar la fatica. Balzava di
rupe in rupe coll’agilità d’una cerva fuggente, ma più agitata d’una cerva
fuggente non si fermava mai a rifiatare o a dissetarsi.
Camminava così da circa due ore, e giudicando dal folto della selva e dalla
profondità dell’avvallamento, credeva essere poco lontana dai quartieri
della masnada. S’era fatta già notte, ed ella, attraverso le ombre rese più
fitte dall’immenso tetto della selva, e che avvolgevano tutto intorno la
contrada, scorgeva appena il cammino. Mano mano che s’avvicinava, il
cuore le batteva più forte e la forza l’abbandonava. Temeva non arrivare più
in tempo e ogni passo che faceva le pareva fosse tardo... inutile... perduto,
pure camminava, quasi sospinta da un soffio invisibile, magnetico! Alla fine
un fischio le passò via per l’orecchio ed ella continuò a camminare... Un
altro fischio rispose.. ed ella si mise a correre... un terzo fischio e un
tumulto di voci vicine replicò, e fatti ancora pochi passi si trovò circondata
da una torma d’uomini armati e mostruosi che non si sapeva dire se usciti
dal ventre della terra, o calati dalle cime della foresta.
— Ferma!... piglia!... agguanta!... bottino!... bottino!... — urlarono in coro
quei masnadieri.
— Alto!... — gridò la giovane che era già preparata a questa apparizione —
sono Stefanella, la sorella della Furia, dov’è egli?...
— La sorella del capo?... baie!... — rispose taluno.
— Conducetemi da lui se non lo credete... ma io farò appiccare il primo che
avrà detto baie...
— Dev’essere lei — rispose uno più vecchio della banda. — Il capo è
dentro il burrone e ha molto da fare...
— Ha da fare?... coi francesi che son passati or ora... — chiese la Stefanella
dissimulando, con un coraggio sovrumano, tutta l’angosciosa sollecitudine
della domanda che faceva.
— Brava!... oh! come lo sai?
— Glieli ho fatti arrivar io, rispose Stefanella, ma guidatemi a lui... e subito.
— Sì, guidiamola... largo a Stefanella... Viva Stefanella!... vieni...
— Corriamo... vedi, son là... questi sono i cavalli... questo qui legato è il
postiglione... sono quattro: due uomini e due donne... denari pochi però...
Ma il capo dice che regalerà tutto a noi... per sè non vuole che i cuori...
Galante il nostro capo!...
Un’altra volta Stefanella a questo orrendo scherzo sarebbe cascata in
deliquio. Ma ormai, risoluta a gettar la vita nella catastrofe d’una tragedia,
raccoglieva tutto il suo coraggio e voleva arrivare alla fine.
Fatti ancora pochi passi nella spaccatura d’una montagna, che, guardata
dall’alto pareva una fessura e nel fondo era una valle, nascosta dai pini e
dagli abeti della foresta, le si parò d’innanzi questa scena che il chiarore di
due fiaccole di resina, infisse nel suolo, rischiarava in tutto il suo orrore.
Quattro persone stavano legate ginocchioni contro la parete della caverna
tremanti, disfatte, color della morte. Un uomo giovane ancora, ombreggiato
da una leggiera lanugine, senza armi, in maniche di camicia, brandiva una
frusta e passeggiava su e giù davanti agl’inginocchiati salutandoli di tratto
in tratto sul volto con un colpo del suo lungo scudiscio, e bevendo alla
salute della «Vendetta» in un calice d’oro, preziosa reliqua del convento dei
Certosini di Cadossa, al quale aveva messo una taglia.
La Furia, quando arrivò Stefanella, aveva appena incominciato a parlare:
— Non mi farete il torto di credere che voglia salvarvi la vita.... penserò
alle frustate che ho ricevuto, alla fame che ho durata, alla prigione che ho
sofferta e moltiplicherò tutto questo per due fratelli; vi metterò in conto la
prostituzione di una vergine e la corruzione d’un fanciullo e farò una
miscela che spero riescirà degna degl’ingredienti... Già ti cercavo e capirai
che t’ho riconosciuto... Tu eri il capo di qnell’altro brigantaggio parigino,
brigantaggio delle volpi contro i pulcini, men terribile ma più schifoso del
mio... tu sei l’uomo della tratta dei fanciulli... indarno ti tenevi nascosto, ma
io t’ho veduto... sei stato tu a ordinare le verghe di mia sorella, la sua
prostituzione... tu a far di me un saltimbanco... Io non so il tuo nome, ma
che m’importa?... io t’ho sempre chiamato la Fiera, per questo io mi
chiamo oggi la Furia... Tu m’hai fatto perdere tutto... l’innocenza, la bontà,
l’onore, la libertà, la giovinezza, la fede... tutto... persino l’amore di mia
sorella... la sola santa che io preghi... il solo Dio che riconosca... Ebbene...
tu e questa tua iniqua parentela... morrete... non so bene di qual morte... ma
della più lunga... della più atroce... della più spasmodica... Io raccoglierò
una ad una le goccie del tuo sangue in questo calice e ne farò un brindisi...
conterò uno ad uno i tuoi lamenti e ne formerò una musica... cercherò con
uno spillo nel tuo cervello le idee del male che t’hanno nutrito e... le
ucciderò ad una ad una... strapperò dal tuo cuore le fibre del delitto che ne
hanno formato il tessuto e le darò ai miei cani... L’anima tua sarà stanca di
sentire gli strazi del corpo nel quale io la terrò prigioniera... e.... invocherà
come una grazia.... l’inferno.
E finito il discorso, la Furia tracannò un altro sorso del suo calice e si
sedette come spossato per terra. In quel mentre una mano leggiera si posò
sulle sue spalle: egli si volse e riconobbe Stefanella.
— Tu qui?! ora? — sclamò, e restò stupidito a contemplarla.
— Io... io che ti perdonerò e vivrò sempre con te... se...
— Se?...
— Se tu salvi costoro, — disse risoluta la giovane accennando i prigionieri.
— Mai!... vattene... non mi tentare... o guai anche per te, Stefanella.
— Allora io voglio morire con loro... e tu non li potrai più toccare nemmeno
con quella frusta, se prima non avrai ucciso anche me...
— Sei pazza, Stefanella?...
— Sarò pazza... se l’amore è una pazzia...
— Tu... ami costoro?
— Quel giovane lì in mezzo... è Gabriele... egli mi ha promesso la sua
anima... io gli ho dato la mia... Son cinque anni che l’aspetto... egli andò in
esiglio per me... Egli mi salvò altra volta l’onore che è più della vita... io gli
devo restituire il suo dono...
— Non capisco... costui?
— Io doveva essere venduta a un ricco libertino... a un Norvegiano, credo...
Una sera mi dovevano dare un filtro che m’avrebbe tolti i sensi... quand’egli
comparve, come ora io compaio qui, mi portò via di là e mi condusse con
lui.
— Tu dunque sei stata sua amante? — fece Carluccio guardandola fisso ed
agitato d’un sospetto.
— Io sono stata sua fidanzata, Carluccio.... egli mi ha rispettata, ed io sono
pura...
— Ma poi? — chiese ancora incredulo il brigante.
— Poi.... suo padre lo mandò lontano perchè diceva che era troppo giovane
per sposarmi.... Gabriele partì promettendo che sarebbe tornato.... egli è
venuto....
— Ebbene, Stefanella.... io lo salverò.... è un debito che pago per te.... ma
lui solo.... lui solo, hai capito?...
— Oh, tutti, Carluccio... tutti.... egli non accetterebbe....
— Lui solo, ripeto, è anche troppo — e così dicendo Carluccio s’alzò, andò
verso i quattro prigionieri e piantandosi di faccia al più giovane lo apostrofò
così:
— Dimmi!... vuoi tu aver salva la vita?...
Gabriele, era lui, guardò il brigante con un’occhiata piena di serenità e di
fermezza. Gabriele era un’uomo di coraggio, soldato, e non temeva la
morte....
— Rispondi, — fece impaziente la Furia.
— Lo vorrei di certo.... — rispose Gabriele — ma non solo....
— Solo! gli altri morranno.
— Solo, rifiuto!... — rispose fieramente il giovane francese.
— Hai del cuore.... non sei della razza.... ebbene, vada per tutti, ma ad una
condizione però....
— Quale?
— Che tu sposi questa fanciulla — disse Carluccio tirando avanti Stefanella
che era rimasta fino allora nel fondo della caverna ad aspettare colla febbre
una risposta.
Quantunque gli anni l’avessero un poco mutata, Gabriele la riconobbe
subito. Egli restò a occhi spalancati e a bocca aperta senza respirare,
immobile, pallido come non lo era mai stato sotto le minaccie di morte del
brigante. Alfine gli uscì dalle labbra un Tu di sorpresa; guardò suo padre, gli
lesse negli occhi la confessione della sua esistenza obbrobriosa, sentì senza
spiegarselo che egli e Stefanella erano state vittime d’un tradimento, che il
brigante diceva la verità, che egli era infame nel suo sangue e nel suo nome,
e la testa gli cascò sul petto senza forza e senza moto, invocando il
compimento del suo destino.
— Gabriele!... mormorò la vergine inginocchiandosi vicino a lui.
— La riconosci, non è vero?... fece il brigante.
— La riconosco.... l’avrei riconosciuta fra cent’anni.... ma ciò che mi chiedi
è impossibile.
Stefanella tremò tutta; la Furia sogghignò e chiese:
— Impossibile!... come mai?..
— Io non potrei ingannarti una seconda volta.... preferisco morire.... Io sono
d’un altra.... sono ammogliato....
Stefanella mandò un urlo e cascò supina senza vita....
La Furia impugnò una pistola e muggì:
— Ah!... francesi!... traditori!... morrete dunque tutti.... — e puntò contro la
fronte di una delle donne la canna micidiale. Quei quattro sciagurati
credettero giunto l’ultimo loro momento, quando il brigante riavendosi
continuò:
— No, sarebbe morte troppo breve.... la festeggieremo col sole domattina,
una notte di agonia farà bene a voi ed anche a me.... e gettata la pistola, si
lasciò cadere sopra un letto di pelli e di foglie apprestato in un angolo della
caverna. Le fatiche e le emozioni l’avevano affranto; le frequenti e insolite
libagioni gli avevano dato alla testa e non si reggeva più di stanchezza e di
sonno. Appena fu steso nel suo giaciglio, si addormentò profondamente.
XXXII.
Qui n’è d’uopo aprire una parentesi, per dare al lettore un indispensabile
schiarimento.
Gabriele s’era mantenuto fedele alla memoria di Stefanella fino al suo
ritorno a Parigi. Il tempo e la compagnia di uomini che erano soliti a trattare
l’amore come un trastullo avevano finito coll’attiepidire l’ardore primitivo
dei suoi vent’anni; ma tuttavia, tornando in Francia, egli credeva sentire
ancora tanto affetto nel cuore da poter sciogliere senza sforzo la sua
promessa. Infatti, scorsi tre anni e tornato a Parigi, la prima cosa che chiese
a suo padre fu della sua fidanzata, ma suo padre assumendo un contegno di
tristezza e facendo precedere le sue parole da un sospiro, gli rispose:
— Che vuoi, figlio mio!?... io l’ho custodita e protetta per un anno intero ed
era felice di potertela conservare pura ed intatta... Illusione!... Un giorno
ella disparve con un altr’uomo ed io per quanti sforzi facessi non ne ebbi
mai più notizia.
— Menzogna, gridò il giovane.
— Tu dimentichi che parli a tuo padre, replicò severamente De-Mauve, ma
ti perdono; poniti tu stesso alla ricerca e lo vedrai.
Gabriele infatti si diede a cercare di Stefanella per tutta Parigi.... Ne chiese
al mondo elegante, al mondo equivoco, al mondo turpe, alla polizia, agli
ospedali, alle carceri, e in capo a molti mesi ebbe la conferma che una
calabrese della quale non si sapeva nemmeno il nome era uscita da un luogo
infame per passare in un carcere.
Restò atterrito e per più mesi istupidito e quasi pazzo. Egli non poteva
credere che Stefanella fosse discesa spontaneamente in tanta abbiezione e la
credeva vittima d’un tradimento; ma intanto ella non c’era più, ella era
perduta, era come morta. E i fedeli alla morte son pochi; sopravvive forse
nei più gentili il fiore della ricordanza, ma a poche anime elette è dato
eternare sopra una tomba il fiore ardente dell’amore.
Però Gabriele, bella ma non perfetta natura, più generoso che costante e
abbastanza buono per vagheggiare, ma non abbastanza forte per consacrare
la sua vita al culto di un ideale che la scettica saviezza del suo tempo e del
suo paese derideva, piegò agli eventi, agli anni, al destino; si credette
obbligato a vivere come tutti gli altri, sciolto dalla sua promessa; ricordò
qualche volta con una lacrima il suo mesto idillio di gioventù e vi posò
sopra una pietra.
Scorso alcun tempo, il padre, sempre intento ad apprestargli la fortuna, gli
propose un ricco matrimonio. Gabriele mostrò dapprima qualche riluttanza,
ma poi si arrese. La sposa parve gentile, la coppia bene assortita: il padre
insisteva, il mondo applaudiva, Gabriele finì col credere d’amare la sua
promessa e di essere felice con lei. Egli si sposò e nella settimana stessa col
padre, la matrigna e la sposa si mise in viaggio per l’Italia. Il resto ci è noto:
il primo viaggio di nozze doveva finire nella caverna del brigante.
XXXIII.
Stefanella, scosso il terribile colpo che aveva ricevuto, aprì gli occhi a
stento, e all’incerto crepuscolo che spandeva nella caverna il fioco lume
d’una lanterna cieca, potè vedere che i quattro prigionieri erano sempre
legati e ginocchioni allo stesso posto. Allora si alzò a stento e stette un
istante a pensare: poi coll’atto di chi ha preso una risoluzione si
inginocchiò, fece una rapida preghiera, rialzossi e corse vicino a Gabriele,
dicendogli a bassa voce:
— Io vi salverò... secondatemi... e silenzio.
Detto ciò, corse al fratello e brancolando cercò dove teneva la mano destra
nella quale portava l’anello dell’Erinni che gli serviva di sigillo. La mano
gli pendeva abbandonata per terra. Essa la prese delicatamente, la sollevò
leggierissimamente, ne cavò l’anello e se lo pose in dito. Stefanella sapeva
che Carluccio aveva prescritto che chiunque gli portasse un ordine a nome
suo mostrando quell’anello dovea essere obbedito. Poi la Stefanella,
brandito un coltello che giaceva sulla tavola, cominciò a tagliare le ritorte
che tenevano avvinti i francesi e quando l’ultimo fu libero.
— Aspettatemi! disse, scendo subito.
E Stefanella salì per il sentiero della caverna fino alla sua imboccatura. Ivi
vegliava un brigante in sentinella; mostrò l’anello e gli disse:
— Ordine del capo di lasciarmi passare coi francesi.
La sentinella guardò l’anello e rispose:
— Passate.
Stefanella ridiscese a’ suoi liberati e sempre a bassa voce disse loro:
— Seguitemi ora....
Gabriele, la sua sposa, De-Mauve e la matrigna si mossero insieme come
spettri usciti da un sepolcro, per il sentiero sul quale Stefanella li precedeva.
In capo a pochi minuti furono tutti di sopra. La sentinella disse:
— Quanti sono?...
— Quattro!... rispose Stefanella, e si fermò all’imboccatura per contarli:
l’ultimo a salire era stato Gabriele e quando egli al chiarore delle stelle
rivide il volto della santa fanciulla che era stata tanta parte de’ suoi sogni
giovanili, s’arrestò un attimo per contemplarla e per dirle forse una parola
d’affetto.
— Andate via!... fate presto!... fece la giovine interrompendogli la parola
sulle labbra. — Ma Stefanella non aveva ancora profferito queste parole che
due detonazioni partirono dal basso della caverna, e nello stesso tempo
Gabriele e Stefanella rotolarono insieme di pietra in pietra fino al fondo
dell’antro e vi restarono immobili.... morti!...
Carluccio ad onta della grande cautela impiegata dai fuggitivi, aveva sentito
un lieve rumore e, avvezzo agli all’erta s’era destato. Egli apriva gli occhi
proprio nel momento che Gabriele toccava la soglia dell’antro e
s’avvicinava a Stefanella. A quella vista egli non fece che balzar dal suo
letto, afferrare la sua carabina a due colpi e puntare le sole due persone che
avesse sotto la mira. Egli aveva ferito al cuore sua sorella e Gabriele al
cervello.
Allo scoppio dell’archibugio tutta la masnada fu in all’arme; la voce di
tradimento si sparse da una fila all’altra e gli altri tre francesi che si
trovavano nella notte smarriti per il bosco, furono a colpi di coltello, di
fucile e di scure massacrati. In pochi minuti erano tutti morti.
Carluccio intanto aveva aperta la sua lanterna cieca e s’era curvato sul
corpo dei feriti per riconoscerli.... Guardò il primo era Gabriele, guardò
l’altro era Stefanella.
Il brigante si precipitò sul bel corpo che egli aveva piagato, ne cercò i battiti
e non li trovò; volle ridestarne il calore, ma solo il gelo della morte gli
rispose; cercò scuoterla, rianimarla, e vide una testa già livida e inanimata
penzolargli tra le braccia.
Allora, ben persuaso che era morta.... diè fiato tre volte al suo fischio e tutti
i briganti in un attimo accorsero colle faci sull’alto della caverna.
E quando vide tutta la banda raccolta, fe’ un cenno colla mano e parlò:
— La Furia ha finito!... egli s’era fatto brigante per vendicare costei che le
pende morta fra le braccia.... Ma per vendicarla l’ha uccisa.... Dio ha
mostrato che la vendetta è fatale a chi l’adopera e colpisce colla stessa arma
il vendicatore. Voi non lo credete?... Guardate allora.
E afferrato il pugnale che portava infisso alla cintola se lo affondò nella
gola, e spirò senza un gemito, tra i corpi di Gabriele e Stefanella l’anima
fiera.
FINE.
NOTE:
1. La prima fu fatta dai Tipi Polizzi della Riforma, la seconda nelle Appendici del Pungolo
di Napoli.
2. È nota la tradizione che nel medio evo trasformò il Virgilio, poeta pagano, in una specie di
mago o di genio taumaturgo protettore del popolo. Ma più che altrove il culto democratico
di Virgilio perseverò nel Mezzogiorno d’Italia, a Napoli ed in Calabria, forse perchè quivi
il poeta mantovano visse e morì — Mantua me genuit; Calabri rapuere, tenet nunc
Parthenope — Oggi il santo democratico e gentile è detronizzato dal santo aristocratico e
cristiano; oggi san Gennaro ha scacciato Virgilio. L’arte può però immaginare che
dovunque sopravvive lo spirito della rivolta sociale, il taumaturgo popolare e
repubblicano non sia del tutto dimenticato, e che le anime ribelli godano invocarlo come
uno scongiuro e profferirlo come una sfida contro il santo avversario. Ecco perchè
l’abbiamo posto sulla bocca del brigante.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute,
correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.
*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA TRATTA DEI
FANCIULLI ***
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