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Il documento è un eBook di 'La tratta dei fanciulli' di Giuseppe Guerzoni, pubblicato per la prima volta nel 1869, che affronta il tema della tratta dei bambini in Italia. L'autore esprime preoccupazione per la condizione sociale e la mancanza di intervento da parte del governo e della società. La prefazione riflette sull'urgenza del problema e sull'inefficacia delle misure adottate fino ad allora.

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The Project Gutenberg eBook of La tratta dei fanciulli

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this eBook.

Title: La tratta dei fanciulli

Author: Giuseppe Guerzoni

Release date: May 26, 2025 [eBook #76164]

Language: Italian

Original publication: Milano: Treves, 1869

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at


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generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense -
Milano)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA TRATTA DEI


FANCIULLI ***
LA TRATTA DEI FANCIULLI
LA TRATTA
DEI
FANCIULLI
RACCONTO SOCIALE
DI

GIUSEPPE GUERZONI

MILANO
E. Treves, Editore
1869
Quest’opera, di proprietà dell’editore E. Treves, è posta sotto
la salvaguardia della Legge per la proprietà letteraria.
MILANO. — Tip. Treves.
Alla prima edizione di questo libro io premetteva queste brevi parole:

AL LETTORE
«A queste pagine è fallito l’unico pregio che le poteva
rendere tollerabili: l’opportunità.
«Ci furono giorni in cui il tema che qui si svolge correva su
tutte le bocche: la stampa ne rumoreggiava, il Parlamento ne
discorreva, il paese tutto ne risentiva: e allora anche un
libercolo che vestisse delle forme più sensibili e popolari
dell’arte uno de’ tanti episodi della infantile e pietosa
odissea, non sarebbe riescito, crediamo, sgradito e superfluo.
Spiritus fiat ubi vult: l’arte fa miracoli e di questi oscuri
problemi sociali, a fronte dei quali la filosofia si smarrisce e
la politica esita, l’arte soltanto sa trovare per la via del cuore
la più felice tra le soluzioni: quella della pietà. Fate che si
pianga e la causa sarà vinta. Ma che altro è il pianto, dolore,
o gioia, se non la parola suprema della poesia?
«Oggi è tardi, almeno mi si assicura. La coscienza pubblica
è illuminata, il fatto è notorio, la lite è decisa, e il governo
stesso che è sempre l’ultimo e convincersi e ad intervenire,
sta maturando i suoi provvedimenti!
«Frattanto non resta più che il libro qual è: povero, nudo,
solo, come il mendico del Vangelo; uno di più nella folla
delle moderne mediocrità!
«È vero che la facile contentatura del nostro tempo mi
franca dalla paura di un giudizio inclemente, e non mi
occorre drappeggiarmi nel superbo motto: — Ho visto una
piaga sociale ed ho scritto un libro. —
«Tuttavia se la critica eccelsa degnasse abbassare gli occhi
sopra questa quisquilia, non dimentichi, per cortesia, il
suggerimento che io stesso le profferisco: — Una buona
intenzione può schiudere il paradiso, ma non scusare un
libro cattivo. —
«Che se una lacrima gentile cadesse sulla mesta leggenda
istoriata in queste pagine, vada tutta in testimonianza della
santità della causa, ed a beneficio delle migliaia di compagni
di Carluccio e Stefanella che, divelti da questa Italia che non
sa ancora proteggere i suoi figli, stentano e muoiono per
tutta la superficie della terra proclamata civile.»

Oggi nell’intraprendere, incuorato dal generoso invito dell’Editore della


Biblioteca Amena la terza ristampa [1], sento che in talune delle cose dette
nella prima prefazione mi ero male apposto.
Scrissi che «era tardi e la coscienza pubblica illuminata, e il fatto notorio e
la lite decisa e il governo già occupato a maturare i suoi provvedimenti; e in
una parola che il libro aveva perduta la sua opportunità» ed ora devo
confessare, non di certo ad onta mia, che mi sono ingannato.
Un Rapporto della Società italiana di Beneficenza a Parigi, composta dei
più chiari e rispettati nomi di Francia e d’Italia, presieduta dallo stesso
nostro Ministro Plenipotenziario inaugura la lite; la raccoglie il Parlamento
mediante l’interpellanza di due deputati e la promessa di due ministri; la
prosegue,-primo, forse unico frutto di queste promesse, — una
Commissione col solito mandato di studiare e riferire, diretta da Cristoforo
Negri; la secondano molti tra i più gravi giornali scesi nella lizza in mio
soccorso con parole d’incoraggiamento gradito e d’elogio immeritato; io
stesso torno all’assalto in un articolo della Nuova Antologia; e Giuseppe
Canestrini, nella medesima Rivista, ripigliando poco dopo la medesima
questione dal lato storico a proposito dei Servi e Schiavi del Cibrario mi
sostiene colla possa del suo nome; insomma il problema è esaminato,
ventilato, agitato con tutti i mezzi di pubblicità e di propaganda, che la
libera discussione insegna e in guisa tale che in ogni altro paese, dove la
stampa abbia un consenso e la tribuna un eco e l’opinione pubblica un
valore, avrebbero a quest’ora raggiunto il segno. Ma fra noi tutti indarno;
dopo il vano strepito di un giorno tutto resta sepolto sotto «codesta grave
mora» alla quale ogni italiano, più nemico di sè stesso che d’altrui, arreca
quotidianamente la sua pietra d’oblio.
Siamo oggi ai principii di diciotto mesi fa, e ancora con questo
peggioramento che allora la novità del male strappava almeno qualche urlo
di dolore, ed ora ce lo teniamo in corpo cronico e cancheroso senza darci
nemmeno il fastidio di querelarci. E in vero l’Italia ha avuto troppe nobili
cose a operare per umiliar l’occhio fino a queste miserie, e assorta nella
grossa faccenda dei suoi processi, dei suoi scandali, dei suoi libelli, lascia la
cura di queste bambinaggini alle sue mamme.
E se ne occupassero almeno le mamme! Ma ogni anno una brutale avidità
strappa dal seno di forse trecento madri i lor pargoli innocenti, e nessuna
voce di madre più felice s’è unita alla nostra per protestare.
Era dunque ingiusto verso me stesso e troppo generoso verso gli altri
quando diceva «è tardi» poichè il male persiste e il rimedio può ancora
venire in tempo; era inesatto che la lite fosse decisa, poichè essa è ancora
sub judice; e falso che la coscienza pubblica fosse illuminata, poichè, fattasi
la luce, questa ha prodotto su di lei lo stesso effetto che sugli animali
notturni: l’ha abbacinata e insonnolita; non era infine che ironicamente vera
quella mia frase, dalla quale per altro spuntava, fin da quando la scriveva, lo
strale dell’incredulità: «il governo sta maturando i suoi provvedimenti»
perchè nel fatto il governo, chiocciola stracca ed impotente, li matura
ancora.
Al mio libro non è pur troppo fallita ancora l’opportunità. Questa triste
dote, l’accompagnerà, forse per molti anni ancora, e fino al giorno in cui vi
sarà una contrada d’Italia che faccia mercato de’ suoi figli, e un governo
nazionale, ignaro e indifferente che lo trascuri o lo tolleri, e governi
stranieri tanto più scandalosi quanto più civili, che lo proteggano e
l’usufruttino, e fino a quando sopravviverà codesta tormentosa quistione
sociale col suo lungo corteggio d’analfabeti maggiore di quello della
Spagna, e di poveri doppio di quello della Francia, e di scolari metà di
quelli dell’Irlanda, colle sue trecento comunità prive di scuole, coi latifondi
abbandonati e le maremme mortifere e i laghi pestilenziali e le valli ove
cresce l’ulivo senza strade e i torrenti che scendono ai due mari senza ponti,
e un eccesso di conventi e un difetto di officine, vecchia e profonda
malattia, della quale il traffico dell’infanzia e la prostituzione della
impubertà non è che l’ultima e più letale esplosione.
Però questa ristampa, se è nel liberale concetto dell’editore un compenso
prodigato a un tentativo letterario non interamente abortito, nei voti
dell’autore è un grido ed una protesta contro l’inerzia e la noncuranza di
tutti coloro che, avendo ieri toccato con mano l’orrida piaga, e avendo in lor
potere i mezzi di arrestarla, la lasciano dilatare e incancherire.
4 Agosto 1869.
G. Guerzoni.
LA TRATTA DEI FANCIULLI

I.

Nel cuore della Calabria citeriore, a tre ore da Cosenza e ad una dal porto di
Paola, la culla del santo taumaturgo, là dove le acque del Crati furono
deviate per scavare nel suo letto al barbaro Alarico un sarcofago che nessun
piede umano potesse calpestare, sorge un misero villaggio che
probabilmente dalle ritorte correnti del fiume piglia il nome di Ritorto. È un
mucchio di squallidi casolari gettati a caso sul dorso d’una nuda pendice,
come un fanciullo orfano gettalo in mezzo ad un deserto fra i fantasmi della
notte. Alle spalle lo incalzano le ombre delle alte quercie della Sila, classico
asilo di ribelli; di fronte gli si stende, altro infinito misterioso, il mare; ai
lati, sulla testa, all’intorno lo minacciano i giganteschi profili dell’apennino
Bruzio e le bocche aperte di qualche spento cratere. Ivi tal volta tutti gli
orrori del cielo e della terra si dànno convegno come in un sabato festivo, e
mentre la Sila manda i sibili de’ suoi abeti che la fantasia popolare crede
ancora abitati dagli spettri redivivi di Spartaco e di Rufo, il mar Tirreno
inferocito scaraventa sulla montagna i suoi cavalloni, e la montagna
risponde di sotterra col terremoto, e dalla cima con un’eruzione di briganti,
unici re di quelle solitudini e di quelle notti, l’orrido vivente di quell’orrido
inanimato.
La notte del 24 febbraio 1850 era una di queste. I briganti non erano
comparsi sulla montagna, ma in ricambio vi era caduta la neve; le viscere
della terra tacevano, ma un terribile vento di levante soffiava dalla foresta, e
passando collo scroscio d’una mitraglia attraverso le case del villaggio
andava a gettarsi sul golfo di Policastro, e vi destava tutte le collere della
tempesta. Poteva essere un’ora di notte, contando all’italiana, e il
coprifuoco era appena suonato, ma il casale era muto come un sepolcreto.
Non un fil di luce trapelava, non una voce zittiva, non un atomo si moveva.
Ogni porta era sbarrata, ogni imposta chiusa, ogni animale accovacciato: i
bambini tremavano sotto le coltri e le madri sveglie pregavano per sè e per
essi. Sola la campanella della chiesa scossa dal vento, mandava di quando
in quando un suono gemebondo, quasi assumesse ella sola di far sonare al
cielo il lamento che gli uomini non osavano.
In quell’ora, in uno degli ultimi e più miserabili abituri, isolato in
quell’isolamento come un figlio reietto, si presentava questa scena.
II.

La capanna consisteva tutta in un androne basso, nero, bislungo, murato di


vimini e di mota, e sostenuto da pilastri di quercia. Il tetto solo coperto di
lastre di lavagna avea qualche saldezza. Nel mezzo uno spazio circolare
ricinto da un muretto di mattoni, entro il quale smuorivano poche bragie
sotto un mucchio di cenere, serviva di focolare; un pertugio aperto nella
parete, unica finestra dell’antro, lasciava uscire il fumo ed entrare la luce;
ma spesso l’aria, soffiando contrariamente, ricacciava il fumo, e allora la
stanza pareva il ventre d’una caldaia a vapore; intorno al focolare sopra una
panca sedevano rannicchiati un uomo, una donna e due bimbi: in fondo, a
destra, due fasci di cenci e di paglia pretendevano d’essere due letti ed
erano due canili. Sopra uno di essi, il più prossimo al focolare, era distesa
una vecchia avvolta in un avanzo di coltrone; l’altro canile, come più largo,
pareva destinato a ricevere il resto della famiglia. Quando si coricava, i
bambini stavano dai piedi per traverso e li copriva il mantello tarlato del
padre; questi e la madre stavano per lungo, e le vesti di giorno servivano di
copertura la notte.
Dal lato opposto, a sinistra, separati da uno sconnesso steccato russavano
col muso presso un trogolo di legno un maiale e la sua troia. Contro una
delle pareti un vecchio cassettone d’abete, unico, ultimo guardaroba della
casa; al di sopra del cassettone appiccata ad un chiodo un’immagine color
turchino di S. Alfonso, protettore del luogo, innanzi alla quale fumava il
lucignolo consunto d’una lucerna di ferro che serviva a un tempo a diradare
le tenebre del luogo e di devozione al santo.
Unici oggetti di lusso una lunga carabina calabrese ed una zampogna.
III.

L’uomo, malgrado i visibili guasti del tempo e della miseria, era uno dei tipi
più puri del montanaro calabrese. Poteva avere cinquant’anni, ma in quella
notte ne dimostrava venti di più. Trent’anni prima nessuno aveva portato
sull’orecchio con maggior garbo di lui il cappello appuntito coronato di
nastri di velluto, nessuno maneggiata con maggior destrezza la lunga
carabina, nessuno balzato con maggior agilità pei dirupi delle sue montagne
e snodate le gambe con maggior grazia in una paesana ancioca. Oggi la
tinta lucida e olivigna del suo volto, leggiadria de’ magno-greci antichi e
de’ palicari moderni, s’è corrotta nel color giallo degl’itterici: le sue
chiome, un dì corvine e ricciute, gli scendono da tutti i lati setolose,
arruffate e canute: l’occhio nero, una volta pieno di fòlgori, ora divenuto un
morto cristallo incavernato in due profonde occhiaie: i garretti ossei e
nerboruti d’un tempo gli tremolavano flosci e cascanti: tutte le sue vesti non
erano più che un immondo ciarpame a stento tenuto insieme dall’industria
dell’ago e del filo, e da quell’ontume addensato dal tempo che, facendo
ufficio di colla, ne cementava i brandelli.
Abbiamo detto montanaro, ma potevamo dire senz’altro brigante, perchè
tale era stato per tutta la vita il suo mestiere. Nè egli l’avrebbe lasciato, se
nell’ultima levata dei repubblicani rifugiati in Calabria dopo il colpo di
Stato del 15 maggio, la palla d’un gendarme napoletano non gli avesse
fracassato il braccio destro e postolo nella impotenza di sostenere gli stenti
della vita randagia e pugnace alla quale s’era votato.
Ma il ferito aveva saputo nascondere il fatto tenendosi rimpiattato per due
mesi in uno dei burroni della Sila, sicchè quando ricomparve alla luce,
aiutato anche dalla fida clientela dei manutengoli, potè dar ad intendere
perfino alla polizia borbonica di essersi frantumato quel suo braccio
cadendo da una balza nell’inseguire alla caccia un caprone selvatico. E
della avventura serbava nel braccio appeso costantemente al collo la visibile
ricordanza, e nel soprannome di Storpiato, impostogli da tutta la vallata, la
popolare testimonianza.
Lo Storpiato però, chiamiamolo subito noi pure così, era stato brigante per
fame, per tradizione, per amor della vita libera e selvaggia, ma avea
combattuto sempre per i carbonari e la rivoluzione. Perocchè non bisogna
dimenticarselo mai, il brigantaggio non ha altra bandiera politica, quando
ne ha, che la ribellione al governo che impera, e in Calabria fu repubblicano
contro Manhnes, reazionario col cardinal Rufo, carbonaro contro re Bomba,
borbonico e reazionario adesso, salvo a riprincipiare il suo ciclo appena il
potere, contro il quale soltanto combatte, muti nome ed insegna.
La perdita di quel braccio era stata per lo Storpiato il segnale della sua
rovina. Egli non aveva saputo in vita sua far altro che il bandito, ed ora si
trovava da un anno come il navigatore che abbia un buco nella chiglia, e
che più s’avanza più s’avvicina al naufragio. Quindi, dopo aver consumati
nei primi mesi i pochi risparmi, era arrivato di gradino in gradino fino
all’orlo della miseria.
L’ultima sua risorsa erano quei due animali che convivevano con lui: ma
non erano nemmen essi cosa sua. Gli erano stati dati per carità nell’epoca
della sua disgrazia da un barone carbonaro e manutengolo, ma l’annata era
stata scarsissima di ghiande e la coppia mal nutrita non aveva fecondato.
Ora gli restava l’estremo partito di venderla alla prima fiera, ma poi?...
impotente a lavorare, impotente a pirateggiare, con madre, moglie e due
figlioli da sostenere, il vecchio brigante era alla disperazione.
La moglie, fida sua compagna da oltre quindici anni, era stata una bellezza
e ne faceva ancora testimonianza un ampio fascio di capelli biondi, pregio
invidiatissimo fra le brune calabresi, e l’avorio ancora immacolato de’ suoi
denti, ultima reliquia di quel decadimento, e in cambio dei quali ogni più
avara matrona napoletana avrebbe date le più candide perle del suo scrigno.
Ma sebbene avesse appena sorpassato i trent’anni, essa era già una rovina, e
chi la osservava provava lo stesso senso che si prova alla vista d’un avanzo
di statua greca. Si presente, si indovina la classica fattura, ma si sente che
intera non la si rivedrà mai più. Essa pure non aveva che ciarpe dintorno
alle membra, e di tutto quel grazioso costume calabrese, dal busto azzurro e
dalla gonnella cremisina, il più pittoresco di quanti ne abbia il pittoresco
Mezzogiorno, non restava altro che uno squallido cenciume.
Ella si serrava in grembo i suoi due piccini credendo forse, pietosamente
illusa, di riscaldarli; ma non faceva che intirizzirli del suo freddo. La
bambina era ben fatta, e aveva i capegli biondi e la tinta bruna della madre;
il fanciullo era una riproduzione del padre a dieci anni. La bimba per veste
aveva un pezzo di tela turchina cinta intorno alla vita; il bimbo vestiva
ancora più semplice: era nudo come l’aveva fatto la mamma.
La vecchia rinuncieremo a dipingerla. Bisognerebbe mettere insieme tutte
le laidezze delle Eumenidi, delle streghe del Valpurga e della foresta di
Birmano per formarne la tavolozza. Era una donna dei climi meridionali a
ottant’anni, ecco tutto. Chi sa quanto sia rapida e profonda la
trasformazione del bello nell’orrido sotto quel cielo, e come sia breve la
giovinezza e disastrosa la vecchiaia; chi ha incontrato qualche volta una
vecchia siciliana, greca o spagnuola; chi ha sognato bambino la morte che si
muove, chi può immaginare una mummia colla vita potrà averne un’idea.
Però la nostra vecchia aveva ancora due prerogative tutte sue: per respirare
rantolava e per parlare fischiava.
Lo Storpiato stava a testa bassa attizzando con un moncone di ferro le
ceneri e parlava. Sua moglie guardava tra le travi del soffitto cercandovi il
cielo, i ragazzi sbadigliavano: la vecchia seduta sul suo giaciglio, tratteneva
il rantolo ed il fischio, ed era tutta orecchi ad ascoltare.
IV.

— Bisogna rassegnarsi, Marinella, diceva il brigante a sua moglie.... so che


sono sangue nostro, ma che fare?... morire di fame noi e loro?... meglio che
vadano.... Non sospirate, Marinella, sarebbe fiato perduto.... ho già deciso e
quando ho deciso, venisse su dalla terra Virgilio [2] in persona, e lo vedessi,
come vedo voi, sapete che non mi smoverei.... via non bestemmierò,
parliamo con calma. L’annata è stata orribile.... dal giorno che quella
maledetta palla m’è entrata in quest’osso io non sono stato più uomo.... Se
potessi ancora maneggiare quell’arnese là (e accennava la carabina) allora
lascerei che il vento fischiasse. Ma ora cosa devo fare io?... Talarico, che mi
vuol più bene di tutti, mi ha fatto dire che a cavallo per staffetta mi
prenderebbe ancora.... Sì eh! dove lo prendo il cavallo?... ci vogliono
almeno venti pezze coll’arnese e tutto.... Poi non posso mettermi in
campagna colla fiaschetta della polvere vuota.... un po’ di munizione
l’archibugio la vuole.... e con venti pezze ci sarà da tirarla coi denti. Fosse
almeno stata abbondante la raccolta dei querciuoli.... ma il mistrale ha
rovinata anche la foresta.... e quanto a spigolatura d’olivi nemmeno per
sogno. I ricchi oggi sono diventati arpie e raccatterebbero le foglie secche
se non bastano le bacche.... E si dovrà pagare anche il macinato, noi...
infame re!... Egli ronfa nella sua Caserta più grasso di quei maiali là.... oh
se la campagna dell’anno scorso fosse andata bene!?... Noi sì che saremmo
andati a far visita alle cantine di Capo di Monte.... ma i liberali non valgono
nulla. Fra Diavolo ci vorrebbe.... quello era un uomo. Dunque, Marinella,
non ci resta che far quello che fanno tutti gli altri.... già sono nostri e
possiamo farne quel che vogliamo. D’altronde, stieno qui ad immiserire coi
maiali o vadano lontani a guadagnarsi il tozzo, è lo stesso.... ma intanto
aiutano i loro genitori.... Ora ve la dico tutta.... Un capitano, di quelli che
sono nel commercio, arrivato l’altro ieri a Paola, li prenderebbe e se non
bastan venti ne avremo quaranta delle pezze.... egli sarebbe stato qui
stassera, ma il cattivo tempo l’avrà trattenuto.... però domattina all’alba
sono certo di vederlo capitare (a questo punto la donna trasalisce e la
vecchia comincia a brontolare).... Chetatevi, mamma, e pregate
sant’Alfonso per noi.... ieri sono stato giù alla marina io stesso, perchè non
voglio mezzani, son tutti barattieri.... ho veduto il capitano e gli ho
parlato.... è un galantuomo.... aveva una borsa di pelle piena che suonava
come nè io nè voi abbiamo mai sentito.... Egli ne aveva già comperati sei....
Tre sono di Castrovillari e tre di Tarsia.... io gli ho detto che ne avea due.
— Ah, mostro — fischiò la vecchia.
— Mamma, dico — rispose il brigante senza levare la testa.
— Vendere le tue creature!?... corri sulla strada e sgozza il primo barone
che passa. Il sacro cuore di Maria avrà ancora pietà di te. Ma portare al
mercato i figliuoli....
— Mamma, ripeto.... — state buona o il sangue mi viene negli occhi.
— Mamma, per pietà — fece la Marinella spaventata — non raddoppiamo
le disgrazie, preghiamo la madonna che gli mandi un altro consiglio.
La vecchia mandò un rantolo e si tacque.
— Insomma — sclamò lo Storpiato voltandosi — lo fanno tutti.... Salvatore
il guardaboschi, che ha pure stipendio e legnata, ha ceduto l’anno scorso la
sua Gabriella, che era gracile come un giunco. La Valentina della piazza
tanti ne ha fatti tanti ne ha venduti.
— Perchè ha più viscere la troia che russa là in fondo, — ululò la megera.
— Ma intanto il sindaco mette il bollo ai contratti e il curato ci dà la
benedizione.... poi tutti quelli che vanno laggiù in Francia vi fanno fortuna.
— Ma non tornano più — replicò la nonna.
— Oh questo è vero! — osò soggiungere la misera madre — Sono come
morti!
— E chi vi dice che non tornano più? Chi vuole torna e spesso colle tasche
piene di napoleoni. Guardate il figlio del sartore.
— Uno su cento.... degli altri che restano, metà non si sa come finisca e
l’altra metà si sa che è morta in galera o all’ospedale.
— E qui morranno sopra un mucchio di strame marcio, sclamò lo Storpiato.
Basta così, se potessi lavorare ancora per essi.... ma, poichè non sono più
buono a nulla, si ingegnino anche essi.... Sono sani e robusti, e per Virgilio
non sono nè anche brutti. Stefanella sarà un amore e Carluccio è un torello,
e son certo che mi daranno cinquanta pezze a occhi chiusi. Poi ballano la
tarantella come in tutte tre le Calabrie non ce n’è.... e per girare il manico
d’un organetto non se lo faranno insegnare due volte.... Datevi pace,
Marinella, camperanno e faranno fortuna, e fra dieci o dodici anni, se
saremo vivi, ce li vedremo tornare a casa tondi, come don Pasquale.
— Non li vedremo mai più!... — rispose la madre scoppiando in un dirotto
pianto e serrandosi contro lo squallido seno le teste dei due fanciulli,
svegliati da quella stretta e da quei singhiozzi.
— Oh di pianti ne ho abbastanza! ho deciso e fermi lì. Raccomandiamoli
pure al Signore e a sant’Alfonso che li abbia in custodia, ma se questo è il
destino della povera gente, rassegniamoci, e voi mamma non brontolate
più.... domattina appena venga il nostro uomo, contratto fatto.... cinquanta
pezze, venti per il cavallo e il resto per voi donne, e non più fame, non più
inedia, e chi raggiunge lo Storpiato sarà bravo.... Siamo intesi, è vero,
Marinella?... non se ne parla più.... andiamo a letto.... son già tre ore di sera,
e il vento sembra un po’ rappaciato.... e domattina il francese non
mancherà... o non vedete che i bimbi cascano di sonno?
— Sia fatta la volontà di Dio!... — mormorò la misera madre baciando in
fronte i suoi due ragazzi e adagiandoli nella loro cuccia....
E dopo un’ora tutto taceva nella capanna. Il silenzio non era interrotto che
da qualche folata di vento che veniva a scrollare la porta, dal rantolo della
nonna e dai lunghi sospiri della madre, la sola che di tutti quegli esseri non
trovasse sonno e dividesse l’immenso affanno della natura.
V.

Al mattino, appena giorno, si sentì bussare. Lo Storpiato era già in piedi e


corse ad aprire. La Marinella balzò dal letto spaventata come i condannati a
morte che vedono aprirsi la prigione l’ultimo mattino della loro vita. I
bambini corsero col padre a vedere chi fosse.... La vecchia non si mosse
perchè non poteva.
— Ah è lei!... disse lo Storpiato.... non lo aspettava più.
— Uomo onesto non ha che una parola sola.... — rispose l’arrivato, tipo di
mercante di buoi indurito dall’aria marina — sbrighiamoci, perchè ci ho il
vento fresco di terra e mi preme di partire.... Sono questi i marmocchi?...
— Questi!
— Uhm!... la femmina è troppo gracile e il maschio è troppo forte.... la
prima rischia di restare per istrada e l’altro non troverà un cane che voglia
commuoversi per lui.
— Ma quando li vedranno ballare la ancioca — fece il brigante
ammiccando coll’occhio....
— Merce mediocre.... appena sostenibile.... Vediamo questi quattro salti....
— Piccirilli, fece il padre.... un colpo di ancioca, da bravi ch’io vi darò la
misura colla zampogna....
E staccato lo strumento dalla parete si mise a soffiarvi dentro, cavandone
quella monotona e stridula cantilena, che è tutta la musica dal Tronto allo
Stretto.
I bambini alla voce del padre ed al suono della zampogna si posero lì,
ignudi come erano ad agitare le loro magre gambe per diritto e per traverso,
battendo di quando in quando le loro palme in segno di tripudio e
mandando dalla bocca quel grido che assomiglia all’Evoé bacchico degli
antichi e che ne è probabilmente l’eco.
La Marinella intanto, accoccolata in un angolo della stanza, recitava
sommessamente il rosario e piangeva in silenzio.
— Basta così... non ne posso più del vostro satanico sgambettìo — gridò il
mercante — ma son troppo grandi.... Quanti anni?...
— Nove la piccina e dieci il maschio — rispose il padre.
— Via, mi rubate quelli della balia....
— Per i chiodi del nostro Redentore vi dico la verità.
— E sia.... son pronti a partire?
— Prontissimi.... vero, Marinella?...
Marinella rispose con un singulto, e la vecchia sibilò due mostro dal fondo
del suo canile.
Allora il mercante si mise a passare in rivista i due bambini, tastandoli,
girandoli e rigirandoli, guardando loro i piedi per accertarsi, se erano buoni
alla marcia, picchiandoli nel petto per sentire, se avrebbero resistito alla
fatica.
A questo giuoco i fanciulli, già commossi dal pianto della madre, si misero
a piangere anch’essi. Ma il padre:
— Ohè, ragazzi.... punto strilli ora... andate con questo signore.... Voi
ballerete e canterete sempre.... Vi vestirà bene proprio come da figli di
galantuomini.... vi darà della focaccia finchè ne abbiate voglia.... vero,
signore?
— Certo che sì.... Allegri, marmocchi....
I due ragazzi si diedero a contemplare l’uomo che doveva fare tanti
miracoli e si acchetarono.
— E il prezzo?...
— Quaranta pezze — rispose secco il brigante.
— Che!... baie! Maitre Gaubelet non ne fa di questi contratti, saranno già
troppe venti....
— Allora i bambini resteranno con me.... e voi ve n’anderete....
— Via non riscaldiamoci, pensate che i prezzi sono ribassati, perchè la
merce è abbondante. Quaranta pezze! sono 200 franchi.... mi fate celia.... se
si dicesse trenta ci si arriverebbe!...
La Marinella alzò gli occhi sopra suo marito per aspettare la sua risposta.
— Mettilo alla porta — urlava la nonna.
— Siete pazzi.... E domani?... No!... vada per le trenta.... i ragazzi sono
vostri.... Su voi altri! Addio, Carluccio, addio, Stefanella... andate, gli è
inutile, adesso siete di questo signore.
— E queste sono le trenta pezze, fece il mercante tirando fuori un rotolo
dalla tasca del giubbone e deponendole sul cassabanco.
Poi, voltosi ai ragazzi,
— Ed ora andiamo, petits chiens — fece allungando la mano per pigliarli.
— Prima bisogna farli benedire — gridò la madre slanciandosi davanti alle
sue creature e facendo loro schermo della persona con un coraggio che
nessuno avrebbe mai sospettato in lei. — Non è vero, Salvatore?
— Ma io non ho tempo da perdere, rispose il mercante.
— Ha ragione la donna, fece il brigante... In dieci minuti è bello e sbrigato.
Vado e torno.
Lo Storpiato uscì a salti e in meno che non avea detto, tornò conducendo
seco un figuro nero, unto, sinistro, tutto inferraiuolato. Era il pievano del
villaggio.
— Ci sono da benedire questi due bimbi, disse il padre.
— Se ne vanno? chiese freddamente il prete come di cosa consueta e
naturale.
— Se ne vanno.
— Allora è subito fatto.
E cavata di tasca la stola se la gittò sulle spalle e si mise a brontolare le
giaculatorie della benedizione. Quando ebbe finito segnò egli stesso col
segno di croce i due ragazzi, e con un sorriso di soddisfatta compiacenza
esclamò:
— Eccoli serviti!
— Siate benedetto, fece la madre.... Tenetela, cari miei, questa benedizione,
ed anche queste due medaglie di san Francesco di Paola; non lasciatele mai.
— La mezza pezza — disse il prete allungando la mano — perchè ho
premura anch’io.
— Ne abbiamo una intera per voi, rispose il padre. Coll’altra mezza direte
una messa per la salute di questi due figliuoli e delle anime nostre.
— Così sia. Salute a tutti; — e intascato il suo prezzo, il prete uscì dalla
capanna.
Di lì a mezz’ora il mercante spingeva innanzi a sè i due calabresi sulla
strada del porto di Paola, e quando s’arrestavano per fiatare o voltarsi
indietro li incalzava con un minaccioso Ohè, come fa il boaro colla mandra
che riconduce dalla fiera.
Così lasciarono la loro casa quei due fanciulli senza saper dove andassero,
nè qual mano li conducesse: il padre li gettava per trenta danari nell’ignoto:
la madre, impotente a contenderli a quel destino, li lasciava partire, non
serbandosi altro conforto che la prezzolata preghiera d’un prete, e la poetica
speranza di una giustizia futura.
Nel porto una goletta con bandiera francese allestiva per la partenza. Il
mercante vi fece entrare i fanciulli, e dopo averli consegnati al nostromo
con queste parole: «Registrare, numerare, e nella stiva» se ne andò pei fatti
suoi.
Il nostromo aperse un libraccio foderato di catrame ed olio, e vi scrisse
sopra il nome, il cognome e la provenienza dei due ragazzi: poi cavò da un
armadio due pezzi di cartone, li infilò in una funicella, e fattone una specie
di collare li passò nel collo dei bimbi con questa avvertenza:
— Codesto è il vostro numero: tutte le volte che vorrete mangiare
presenterete il cartone: chi non l’avrà non mangerà.
Carluccio aveva il num. 47 e Stefanella il 48.
— Ora scendete lì — fece il nostromo — e aspettate il rancio. E additò la
scala di corda della stiva.
Carluccio e Stefanella, agili come ogni figlio di montagna, si calarono pei
nodi nel fondo della nave, e vi trovarono una numerosa compagnia.
Erano altri quarantasei fanciulli di ambo i sessi, ma quasi tutti nella loro età.
Dividevano la stiva coi barili d’olio e l’altra paccottiglia, colla sola
differenza che la merce inanimata aveva il migliore posto, ed essi il
peggiore. Vedendoli si pensava subito agli Africani stipati nel legno del
negriero; ma la razza bianca aveva anco in questo il suo privilegio. I negri,
oltrechè stipati, son tenuti impilati, e l’uno giace addosso all’altro senza
potersi più muovere per tutta la durata del viaggio. I bianchi invece avevano
tanto spazio da poter stare seduti; solamente erano forzati a sedere
all’orientale ed a sopprimere interamente le loro gambe. La condizione dei
bianchi era quella del riccio, e quella dei negri dell’acciuga: in verità
lasciamo ai naturalisti dire quale dei due sia preferibile.
Scorsa un’altra mezz’ora la Volpe, era il nome della goletta, salpò con un
vento fresco di mezzogiorno a vele e fiocchi spiegati colla prua su nord-
ovest nella direzione di Marsiglia. Il sindaco, il cancelliere del comune, due
canonici della cattedrale, il pretore, ed un’altra serqua di persone, che
dall’abito nero sembravano signori, o come là si dice, galantuomini,
venivano a dare il buon viaggio al capitano Gaubelet, il quale ritto sul suo
cassero comandando la manovra, rispondeva alle scappellate con dei cenni
di mano che Cristoforo Colombo non avrebbe certo saputo trovare quando
partiva dal porto di Palos in cerca dell’America.
VI.

Che cos’era quel carico di carne umana che salpava in piena luce del giorno
da un porto d’Italia? Che cosa era quel traffico a cui i poteri ecclesiastici
accordavano la benedizione, e i poteri civili apponevano il bollo? Dove
andava quel bastimento-serraglio protetto dalla bandiera francese?
Il lettore lo avrà in parte compreso, ma è nostro debito spiegarci meglio.
Ognuno avrà sentito parlare, seppure non li ha veduti coi propri occhi, di
quei fanciulli per lo più oriundi della Basilicata e delle Calabrie, noti in
commercio col nome di petits-italiens, che solcano in tutti i sensi i villaggi
della Francia e dell’Inghilterra, ed ora s’incontrano perfino nelle contrade di
Nuova York e di Washington, cantando canzoni incomprensibili e ballando
strane danze al suono di una zampogna o di una chitarra e mendicando di
chiasso in chiasso, di taverna in taverna, di porta in porta il soldo della
carità importunata od impietosita, e facendo in una parola
dell’accattonaggio un mestiere, della musica un pretesto, dell’infanzia un
lenocinio, e del loro dialetto abruzzese o calabrese, ignoto e melodioso, una
seduzione.
Però, ciò che è forse ignorato dalla maggior parte, si è che questi piccoli
avventurieri non esercitano già, come potrebbe parere, la loro industria per
conto proprio, ma sono gli strumenti ciechi di un’associazione invisibile, la
quale vive, traffica ed arricchisce sull’obolo accattato giorno per giorno da
quella miseria infantile organizzata ai suoi servizi.
Una volta nato il concetto di questo traffico, una volta che la coscienza
umana potè proporlo a programma di un’industria, e la coscienza sociale
tollerarlo, i modi per farla fruttare erano evidenti. La buona economia,
insegnava anzitutto d’andar a cercare la merce greggia sul luogo stesso
della produzione, e trasportarla sul luogo di lavorazione, quindi primo
punto una tratta. Poi la stessa scienza, considerato che la merce era umana,
rivelava che, fra i molti metodi economici e sicuri per custodire molti
uomini insieme, la caserma, il convento, il falansterio, il Workhouse, il
caravanserraglio, la galera, nessuno rispondeva per sè solo esattamente al
caso, ma che pigliando il meglio da tutti si poteva arrivare a qualche cosa di
perfetto. Ed allora, togliendo alla caserma la disciplina, al convento il
digiuno, al falansterio la promiscuità, alla Workhouse il lavoro, al
caravanserraglio l’economia, alla galera la corruzione, rifiutando su tutti i
punti il necessario come un lusso, e applicando in tutti i casi la massima che
l’interesse dell’industria si riduceva ad un dolore accumulato, riescirono a
formare uno stabilimento modello.
Istituito l’ospizio, restava a distribuire e regolare il lavoro in guisa che
potesse dare colla minor spesa e la maggior sicurezza il massimo prodotto;
in altre parole restava a trovare un modo di sguinzagliare alla preda tutti
quei rapaci infantili senza che nessuno la smarrisse o si smarrisse, o ne
trafugasse una parte, o la divorasse per sè. E qui l’arte venatoria venne in
soccorso. Tanti quartieri, tanti parchi, tante mute: ad ogni muta due o tre
bracchieri con segnali per riconoscere ed essere riconosciuti. Una volta al
giorno, alto della caccia in uno dei bugigattoli più bui del quartiere, o nel
mezzo di qualche piazza deserta, giacchè il vasto nasconde come l’oscuro;
ed ivi resa di conti parziale. Alla notte poi, resa di conti totale nello
stabilimento. Ad ogni negligenza sospettata, pena atroce di scudiscio e di
fame; ad ogni frode denunziata, pena raddoppiata, chè l’istituzione è morale
ed ha in grande orrore l’infingardaggine ed il furto!
Infine, amministrazione minuta, disciplina ferrea, sorveglianza assidua,
gerarchia russa, segretezza giurata e massonica.
La società in Europa ha due grandi centri, Parigi e Londra, in lega fraterna
fra loro; perocchè per simili cause i confini scompaiono e John Bull può
obbliare Crecy, e Jacques Bonhomme, Waterloo.
Alla testa d’ogni centro sta un presidente, un Comitato esecutivo, ed un
Consiglio di amministrazione con facoltà ed uffici ordinatissimi, e autorità
rispettatissime.
Oltre a ciò, in continua e diretta comunicazione colla sede centrale in quasi
tutti i dipartimenti e contee, sedi secondarie o succursali, le quali, benchè
privilegiate di molta autonomia, sono però obbligate ad esercitare la polizia
dei fuggiaschi, ed a pagare una specie di ghinea alla sede principale. Nelle
città marittime l’affigliazione conta molti capitani armatori di bastimenti, i
quali assumono la tratta per mare a conto della società.
Il più delle volte però i contratti di trasporto sono regolati a un tanto per
testa, salva ai capitani, come affigliati, la parte spettante di utili sui
dividendi dell’associazione. Una serie d’articoli dello statuto determina
minutamente l’entità e le proporzioni dei dividendi: tutti hanno diritto ad un
interesse anche minimo per conseguire che tutti sieno zelanti del controllo e
della sorveglianza, onde nulla si perda.
Tuttavia la distribuzione non la fa che il Consiglio d’amministrazione per
mezzo del Comitato esecutivo. Il presidente è invisibile come un
Grand’Oriente massonico, e nelle stesse adunanze del Consiglio
d’amministrazione compare di rado. I suoi rapporti esteriori non vanno oltre
il Comitato esecutivo ed anche con esso si circonda di una certa nube. Egli
non dura in carica che un anno ed è piuttosto un dignitario che un podestà, e
per questo lo si vuole scelto tra le persone più distinte dell’associazione o
fra quelle principalmente che si trovano in contatto, o possono trovarvisi,
coll’autorità pubblica.
Il primo presidente fu un secondino destituito del bagno di Tolone; il
secondo il portinaio dell’ambasciata inglese. Con ciò si credeva di poter far
la polizia alla polizia e tenere sempre una mano nei segreti dello Stato dei
quali poteva diventar utile all’intera associazione il possesso.
Nel 1850, nell’anno di cui narriamo, il presidente era qualcosa di più alto
ancora: un commissario di polizia dimesso dalla rivoluzione per intrighi
legittimisti. Ma dopo le giornate di giugno egli aveva cambiato nome e
s’era dato a’ servigi della polizia segreta del principe presidente.
Per questa trafila entrato in rapporti coll’associazione dei Petits italiens,
avea potuto far valere tutti i suoi meriti presenti e futuri e, candidato alla
presidenza, era riescito a raccogliere sul suo nome la quasi unanimità dei
suffragi.
Un’altra parola ci sembra necessaria. Il contingente di questa associazione
non poteva venire che dai bassi fondi sociali; ma qui importa intendersi
bene ne’ termini.
La sentina pubblica ha confini illimitati. In essa si perde lo straccio come la
decorazione. Tutto ciò che porta maschera le appartiene. Tutti coloro che
agognano apparire più di quello che sono, a consumare senza produrre, a
conquistare con un colpo di Borsa o di Stato una fortuna od un trono, sono
il suo popolo. Catilina, lo zingaro dei repubblicani, vi è cittadino come
Giovanni Senzaterra, lo zingaro dei principi; il bettoliere Thenardier che
aspira a diventar milionario, vi s’incontra con Cesare che aspira a diventar
imperatore. Però gli è dalla notte di quest’abisso che monta il vero miasma
sociale.
Finchè il male è pubblico, visibile, diurno, e la legge lo può conoscere,
correggere, colpire, il rimedio è noto e la guarigione certa. Ma quando il
male è segreto, notturno, invisibile e porta la larva del bene, o almeno
l’insegna del legittimo, allora la società versa in grave pericolo, e qualche
grande crisi l’attende. Quando non si sa più distinguere se la miseria in
cenci sia più dolorosa della miseria dorata, quando il vizio può uscire dal
postribolo come dall’officina, dalla bisca come dalla sagrestia, andare a
braccetto di una dama foderata di cortigiana, o di una cortigiana vestita da
dama, prendere per insegna, per tornare al nostro esempio, il Senatus
populusque romanus di Cesare o il sergente di Waterloo di Thenardier,
allora il dominio della città oscura può dirsi incominciato e quelle grandi
epoche di consunzione, nelle quali la morale è ridotta a un galateo, e la
legge a una tolleranza, compaiono nella storia.
Però da molti anni le cose erano notevolmente mutate. Il governo francese
s’avvide alla fine del nefando delitto che si commetteva impunemente
all’ombra delle sue leggi, e prese a combatterlo. Se non che egli seguì la
stessa strada degli abolizionisti verso i neri. Cominciò dall’abolire la tratta e
si fermò. Oggi è ancora a quel punto, e non ha fatto un passo di più.
Impedisce lo sbarco dei petits italiens ne’ porti francesi, ma li lascia
spensieratamente strascinare la loro catena di miseria e di abbiezione per le
strade di Parigi. Ciò non ostante l’abolizione della tratta, rendendo
necessario un altro modo di trasporto, diede un gran crollo all’associazione
e finì col distruggerla.
Invece di un carico di cinquanta o cento fanciulli per mare fatto con
risparmio di tempo e di denaro, fu mestieri far venire la merce a piccole
tappe ed a piccole squadre per la via di terra affidandone la scorta ai parenti
od ai custodi che bisognava pagare e sorvegliare, e che spesso a mezza via
fuggivano come i fanciulli che dovevano accompagnare.
Giunte alle Alpi, le guide si rifiutavano proseguire, e ci volevano altri
uomini per ricevere i ragazzi e scortarli fino a Parigi.
Però la spesa diveniva doppia, le peripezie della spedizione incalcolabili: le
operazioni complicate e la grande industria fu colpita a morte; ma rimase la
piccola. All’associazione subentrarono gli speculatori privati: all’unica e
grande impresa i piccoli impresarii e subappaltatori. Ciascuno che volesse
prendeva cinque o sei ragazzi e viveva su quelli. Il guadagno era minore pei
padroni, ma i patimenti per i piccoli schiavi erano sempre gli stessi: anzi il
traffico minuto diminuendo il lavoro aumentava la sordidezza dei
trafficanti, e pesava con maggiore durezza sul capo dei trafficati.
Oggi siamo ancora a tale, e la sorte dei petits italiens non è punto mutata.
Però meritano essere lette sopra questo doloroso soggetto le parole
dell’ultima relazione della società italiana di beneficenza in Parigi:
«Vedendo questi cenci umani circolare le contrade di Parigi, si è costretti a
domandarsi quali motivi mai facciano tollerare, se non anche proteggere,
questa vergognosa speculazione. In questa città nella quale anche il più
piccolo merciaio ambulante paga la patente, dove il commissario delle
strade deve avere un distintivo, dove nulla si fa senza permesso, i soli
industrianti di fanciulli sembrano essere fuori delle leggi. Perchè questo
favore? Perchè in un paese che è alla testa della civiltà, in un paese nel
quale il lavoro è in così grande onore, si ammette che questo genere di
mendicità formi una vera corporazione?
«Sono forse le leggi che manchino in simile materia? Bisognerebbe crearne.
Ma esse non mancano. Una sola basta.
«Il disposto del prefetto di polizia in data 28 febbraio 1863 dice all’articolo
10:
«È espressamente proibito ai saltimbanchi, ai suonatori d’organo, musici e
cantori ambulanti di farsi accompagnare da fanciulli di età minore di 16
anni.
«Questo articolo dice tutto, ci pare, e noi non comprendiamo come si dia
ancora a Parigi un solo fanciullo che chieda l’elemosina. Forsechè
l’amministrazione ignora i fatti di cui ci occupiamo? No. Perchè essa ha un
servizio speciale di polizia che si occupa di questa industria, e i nomi dei
principali trafficanti le sono perfettamente noti. I motivi della tolleranza
dell’amministrazione francese sfuggono dunque compiutamente alla nostra
perspicacia».
VII.

È manifesto che questi fanciulli diventando adulti non servono più allo
scopo per il quale erano stati levati alle loro famiglie e che anch’essi come i
cavalli di corsa, giunti ad una certa età, ed esaurito lo sforzo della loro
giovanile bravura, siano destinati a mutare di nome, di mestiere e di
padrone. Però quando i petits italiens non sono più piccoli, ecco qual è la
sorte che li attende.
I padroni naturalmente non vogliono gettare questo capitale che ha loro
fruttato talvolta il 200 per 100 senza cavarne l’ultimo sangue. Quando il
piccolo accattone è ingrandito e non par più in grado di muovere la pietà o
il sorriso degli avventori è rivenduto ad altri per un altro mestiere.
Delle fanciulle, in una società in cui la legge stessa consacra la pubblica
immoralità, ognuno ne presentirà facilmente la fine. Esse non sono ancora
deste al mistero della pubertà che già un covo infame, dove non si esce che
per la via del camposanto o dell’ospedale, le ha inghiottite.
Per il maschio si sta a vedere. Se l’educazione ha fruttato, se promette bene,
se mendicando s’è addestrato nel mestiere fratello del rubare, c’è sempre
un’altra associazione parente di tagliaborse o di strangolatori pronta a
riceverlo. Ma poichè il più delle volte gl’industrianti dei piccoli italiani
sono anche capi banda o borsaioli essi stessi, così il baratto si fa in famiglia
e il fanciullo cambia di mestiere senza cambiar di padrone.
Gli altri, i restii a questa nuova arte, sono gettati, proprio come si getta una
ciabatta che non serve più, sulla pubblica via, e che s’ingegnino da sè.
Allora i più passano dalla mendicità incolpevole alla mendicità turpe, dal
furto per fame al furto per abitudine, dalla servitù involontaria alla
volontaria, e per una via un po’ più lunga allo stesso fine: al disonore, al
carcere ed alla morte disperata. I pochi invece, rari veramente, corrotti
d’animo e di corpo, pieni di fiele e di malattie, di odii e di dolori,
riguadagnano il loro villaggio natio, e se non cadono estenuati alle sue
porte, afferrano la carabina del loro padre e si fanno masnadieri.
VIII.

Con questa ignorata ma certa prospettiva davanti i 48 deportati della Volpe


entravano dieci giorni dopo la loro partenza da Paola, nel porto della
Canabière di Marsiglia.
In quale stato appena può immaginarsi. Il mal di mare in quella stipa
senz’aria e senza moto aveva fatto strazio di quei poveri stomacucci vuoti, e
alcuno non aveva potuto resistervi. Una bambina era morta per viaggio e il
mare se l’era inghiottita assieme alle immondizie del bastimento: due altri
erano così disfatti che potevano appena reggersi in piedi e appena deposti a
terra svennero, probabilmente per non svegliarsi mai più. I restanti 45 erano
stati consegnati agli agenti della succursale di Marsiglia e dopo una notte di
riposo e di ristoro — quale riposo e quale ristoro! a piccoli drappelletti di
quattro o cinque, per le due diverse strade di Dijon e di Tolone erano spediti
alla sede metropolitana di Parigi.
Dopo altri dieci giorni, trascorsi ballando, cantando, limosinando,
camminando sempre, Carluccio e Stefanella arrivavano finalmente in Parigi
ed erano condotti difilati allo stabilimento centrale in piazza Maubert, che
era reputato il migliore dell’associazione, ma che non era altro che un
ammasso di catapecchie comunicanti fra loro per mezzo di cortili che
parevano pozzi e di anditi che parevano sotterranei.
Usciti dall’antro di Ritorto, le caverne di Parigi non avrebbero dovuto
sorprenderli.
Tuttavia, quando videro quella bocca nera, lunga, buia dalla quale ventava
un tanfo di sepoltura e dentro cui formicolava confusamente uno sciame di
piccoli spettri, si arretrarono e fecero per tornare indietro. Fu quello il loro
primo atto di resistenza, e fu l’ultimo.
L’uomo che li accompagnava, pedagogo di quel triste collegio, appena vide
l’atto dei due nuovi arrivati:
— Oh il 301 e 302 A (venendo a Parigi avevano cambiato di numero e la
lettera alfabetica significava la sezione), meno smorfie, o ci sarà un paio di
stivali da provare, e accompagnando col gesto la parola infilò i due
meschini con due terribili pedate e li scaraventò dentro il sotterraneo.
Andarono a cascar addosso ad un fascio di compagni dormienti, i quali
destati dalla caduta di quei due ignoti oggetti presero a ballonzolarseli tra
pugni e graffi finchè, stanchi del giuoco, li ricacciarono lontani da loro in
mezzo alle tenebre.
Così fu festeggiato l’ingresso di Carluccio e Stefanella nell’istituto dei
Petits italiens.
In quell’ora, non essendo ancora suonato il segnale del sonno, la camerata,
così era chiamata con dantesca ironia, pareva un pandemonio di nani. Chi
urlava, chi piangeva, chi fischiava, chi suonava la tromba, chi imitava il
miagolio dei gatti innamorati, o il ringhio dei cani arrabbiati, chi cantava un
osceno ritornello, e chi faceva la caricatura d’un predicatore o d’un
saltimbanco udito la mattina. Coloro che non dicevano nulla, o dormivano,
o si grattavano, e non giova dirne il perchè, o ruzzavano in lotta coi vicini,
o... rubavano.
Non parrà vero, ma era così. Anche in quel consorzio di piccoli miserabili
c’era il furto organizzato: anche in quel letamaio c’era qualche cosa di
agognato, di appetito, di sottratto; la nudità rubava al cencio, lo sfinimento
alla fame, e tutte le notti una manuccia nera e scarna si allungava dentro la
tasca, nera come la mano, del vicino addormentato per rubarvi una crosta di
pane pietrificata, un bottone d’osso, un muzicotto di sigaro, un nulla, colla
stessa agilità, colla stessa ansia con cui il provetto borsaiuolo dei teatri e dei
boulevards penetra nella tasca di un inglese per farne sparire la borsa
riboccante di sterline.
I due nuovi arrivati si trovarono come perduti in quel baccanale della notte
e non sapevano dove farsi una nicchia per sdraiarsi e dormire. E avevano
sonno poveretti: oh se avevano sonno! Ad un tratto un lungo fischio si fece
udire all’imboccatura della camerata, e quasi per incanto, come uno stormo
di colibrì al fischiare del crotalo, tutto quello sciame di colibrì umani,
chiusa la bocca, non fiatò più, non si mosse, e la camerata diventò
silenziosa come una stanza mortuaria. Stefanella e Carluccio restarono
stupiti e spaventati del silenzio, come prima lo erano stati del tumulto, e
vinti dalla stanchezza e dal sonno, trovato verso la porta un angolo, dove
nessuno voleva stare per il freddo che vi soffiava, vi si accovacciarono
insieme, e strette al collo le loro braccia per proteggersi e riscaldarsi, vi si
addormentarono.
Alla mattina al suono di un altro fischio tutta la camerata svegliossi.
Rizzandosi Stefanella si accorse che le era stata rubata la medaglia del santo
di Paola, memoria di sua madre, e Carluccio non trovava più un troncone di
lima che aveva raccattato per istrada da Marsiglia a Parigi, e che teneva
come un tesoro. I due derubati non potevano darsi pace, e quando comparve
sull’uscio il pedagogo della sera antecedente corsero da lui singhiozzando a
denunziare la loro gran disgrazia, e chiedendo Carluccio di ricuperare la sua
lima, e Stefanella la sua medaglia.
I compagni fattisi intorno ai querelanti si guardavano incerti se dovessero
canzonare la loro dabbenaggine, o stupire della loro innocenza, mentre il
pedagogo scoppiando in una sghignazzata rispose loro:
— Oh che credete che qua sia una Corte d’Assisie? Se vi hanno rubato non
c’è che impattare. Rubate anche voi altri.
La camerata battè fragorosamente le mani. Stefanella e Carluccio restarono
come di sasso, e quella morale applaudita fu il viatico offerto a quei due
innocenti per entrare nel labirinto della vita.
Appena giorno, i petits italiens dovevano essere al lavoro, giacchè anche
quell’ora mattutina aveva i suoi clienti e spesso i più generosi.
L’operaio che esce al lavoro ancor caldo del bacio dei suoi pargoletti
lasciati a trastullarsi in una tiepida cuccia fra le braccia vigilanti d’una
madre, è misericordioso per l’orfanello quasi nudo e tremante di freddo che
gli si affaccia sulla via e gli chiede in nome della sua mamma lontana «un
soldo per amor di Dio»; la trecca è presto commossa da due lagrime di
bimbo, e il villano non può tenersi nella pelle vedendo i lazzi «di due
scimiotti calabresi» che ballano la tarantella sopra un’aria un po’ biricchina.
Nel collegio poi ci sono tutte le specialità, tutte le perizie, tutte le parti
come in una compagnia di comici. Chi riesce bene nel suono e chi nel ballo;
l’uno è un pagliaccio a cui nessuno resiste e le sue boccaccie fanno
crocchio, l’altro è un saltatore maraviglioso ed ogni sua capriola incassa un
franco; l’uno non ha eguali nel pianto, l’altro è una balestra di motti e di
proverbi; chi è abilissimo a fingere il freddo, chi a simulare i dolori di
corpo, chi sviene a meraviglia, chi imita a perfezione l’epilettico e chi è
capace di gettarsi a capofitto nella Senna a pescarvi il soldo gettatovi dalla
folla e ritornare a galla trionfante.
Quindi la cura principale dei maestri, direttori, pedagoghi, ecc., è di adattare
le specialità ai quartieri ed all’indole della gente che li frequenta, come
farebbe un comico adattando le sue rappresentazioni al pubblico ed al
teatro.
Però alle barriere, dove fluttuano continuamente le brigate allegre che
vanno e vengono dalle merende o gli ingenui ortolani dei dintorni, gente
che ama trovar tutto gaio sulla sua via e che è disposta a ridere di nulla ed a
meravigliarsi di tutto, la squadra dei saltatori, dei giullari, degli
sbofonchiatori; nelle taverne invece, dove comincia o finisce un’orgia, il
covo dei canterini osceni e dei baccanti sbracati. In faccia ai caffè di lusso,
presso le porte delle chiese i più gentili e tapini, quelli che sanno cantar con
più grazia, piangere o svenire con verità, come sui ponti della Senna i
nuotatori famosi e sui boulevards gli arrampicatori indemoniati.
Vi sono però quelli che non hanno alcuna arte singolare, ma che in ricambio
si singolarizzano per beltà o per grazia, e per quel non so che di misterioso
e di attraente che esce dalla bocca e dagli occhi d’un fanciullo che vi parla e
vi guarda con familiarità come se foste sempre vissuto con lui e voi foste
parte della sua famiglia. A codesti più privilegiati era lasciata la crema della
società; i davanti del Tortoni e del caffè Inglese, i dintorni dell’Opéra e gli
accessi del bosco di Boulogne.
Poteva accadere, anzi era accaduto che qualche libertino in isciopero, o
qualche nonno elegante lasciasse cadere lo sguardo su qualche piccina dagli
occhi neri e, provvido Mecenate, la slanciasse, con un solo atto del suo
favore sulla via della fortuna; poteva accadere ancora che qualche Aspasia
arricchita in ritiro adottasse, per riscatto dei trascorsi di gioventù, il
calabresello abbandonato, che la sua pariglia volando a furia sulla
passeggiata, gettò mezzo sanguinoso ed esanime in mezzo alla polvere dello
stradone.
IX.

L’arte rudimentale però, l’arte comune a cui nessuno poteva sottrarsi era di
indovinare a colpo d’occhio l’indole delle persone alle quali il piccolo
italiano doveva dirigersi. Perocchè uno sbaglio in questa prima parte del
mestiere ne cagionava mille e comprometteva l’associazione. Però grande
era la cura dei maestri e custodi perchè i piccoli industrianti si penetrassero
bene delle regole fondamentali della scienza di Lavater applicata
all’accattonaggio. Lezioni speciali erano date sovente nello stabilimento su
questo tema chè i professori erano per solito i più anziani e provetti della
corporazione. Allora non era raro il caso di vedere qualche sera, dopo la
ritirata, uno di questi piccoli dottori in scienza fisionomica, montare sopra
una panca apparecchiata in mezzo alla camerata, innanzi alla turba attenta
dei neofiti e dei principianti, e schiccherare questo discorso:
«Il genere preferibile è il provinciale, e, regola sicura, ogni persona, uomo o
donna, che sia ferma a guardare nelle bacheche delle botteghe, o a
contemplare, la colonna di Luglio o la giraffa del giardino delle Piante, è un
provinciale.
«Intorno ad ogni monumento ne troverete uno sciame e non bisogna
abbandonarli, finchè non abbiano vomitato il loro dazio d’entrata. Con
questi tutti i ferri del mestiere sono buoni meno le canzoni grasse e i
calembours troppo astrusi.
«Vien subito dopo il genere stranieri da distinguersi bene dai provinciali
per il modo di trattamento. Con essi bisogna essere servizievoli a oltranza,
insegnar loro la strada anche quando la sanno, andare a pigliare la carrozza
anche quando non la vogliono, offrire loro di portare il paletot anche
quando piove. Con loro non c’è che un programma: essere importuni.
Bisogna però badare a non urtare contro la flemma inglese; sarebbe tempo
perduto contro uno scoglio insormontabile. Cogli inglesi però c’è un altro
mezzo: cantare un’aria turca qualsiasi e dire che è italiana. Guardarsi bene
invece dal parigino che ha fretta. Un uomo che corre per le strade è un
uomo d’affari e non guarda ai petits italiens se non quando li getta per terra.
Tenete d’occhio gli studenti e i soldati, i primi al principio del mese, i
secondi al giorno di paga e specialmente quando portano al braccio le loro
metà, le sartine o le cuoche. Allora essi amano mostrarsi generosi
specialmente se voi saprete adattare una buona musica al proverbio tutto
francese. «L’amour ne loge point sous le toit de l’avarice.»
«Non perdete un minuto solo colla gente che esce dalla Borsa o dalla
chiesa: la prima ha dato tutto il suo cuore al diavolo e la seconda a Dio e
non ne avrà per voi. Se trovate per istrada una signora sola che vada diritta
senza voltarsi indietro corretele appresso e non lasciatela mai. Essa va per
qualche contrabbando ed avrà bisogno di liberarsi di voi. Ma per ultimo
consiglio guardatevi dalla gente che va in mezzo alla strada col capo nelle
nubi: si chiamano poeti e sono un genere traditore. Essi si fermeranno a
contemplarvi, vi offriranno una eloquente compassione, scriveranno per voi
qualche ode, ma non vi daranno un soldo.»
Eruditi a questo modo dalle parole e dall’esempio, i due nostri calabresi
divennero in brevi giorni i più esperti e fortunati della società.
Carluccio agile, snello come un camoscio non avea rivali nelle capriole.
Stefanella, dotata d’una voce esile e gentile come il pianto d’un rosignolo,
arrestava la folla dei più indifferenti coi suoi rispetti calabresi pieni di
semplicità e di melodia. Inoltre Carluccio avea un pregio che nessun altro
prima di lui avea mai posseduto: una fierezza d’accento, di posa e di
sguardi che quando chiedeva la carità pareva dicesse: «Datemi un regno.»
In quel momento coi suoi occhi neri scintillanti, col suo sorriso beffardo,
colla mano tesa in atto più di minaccia che di preghiera, il corpo eretto, la
fronte alta, era così bello che tutti, innamorati di quel piccolo miserabile col
cipiglio principesco, si fermavano a guardarlo, e lo colmavano di doni.
Accadde anzi più tardi che uno statuario, trovato il calabresello per la
strada, lo volle nel suo studio e lo ritrasse al vivo nel suo nativo costume in
un bozzetto di creta al quale pose nome: Amore brigante.
Stefanella al contrario era tutta grazia, umiltà, pudore. I suoi occhi non si
alzavano mai sul passeggiero che per la preghiera, la sua voce era restia alle
note gagliarde ed ogni parola dura ed invereconda moriva sulle sue labbra
senza poterne uscire. Per questo, per quanti sforzi fossero fatti dai maestri e
dalle compagne più arrendevoli, essa non potè mai imparare una canzone
oscena quantunque non ne intendesse il significato. Per fargliela entrare in
testa, per fargliela pronunciare fu minacciata, percossa e, cosa inaudita in
quella corporazione dove ogni tenerezza era morta, blandita, e persino
regalata. Tutto vano; la natura si ribellava; tutte le seduzioni della zingarella
svanivano, quando la si costringeva a fare la baccante!...
I due fratelli erano stati destinati dapprima ai quartieri della barriera Saint-
Denis, ma i padroni non tardarono ad avvedersi che non erano personaggi
per quella scena troppo volgare e che il pubblico era inadeguato alla
rappresentazione e il guadagno al capitale. Quei due aristocratici del
vagabondaggio erano fatti per l’aristocrazia, però decisero cambiar loro
quartieri e clienti, e furono arruolati nella squadra che doveva agire ai
Champs Elisées e sul boulevard des Italiens.
In pochi giorni i due calabresi diventarono famosi anche in questa nuova
scena e non c’era frequentatore di quel mondo, zerbino o magistrato, gran
dama o crestaia, che non volesse aver udito cantare almeno una volta
Stefanella e veduto saltar Carluccio come si fosse trattato dei trilli della
Pasta o dei salti del signor Léotard. Nei caffè signorili dei boulevards, gli
artisti ambulanti non possono entrare, o vi sono messi bruscamente alla
porta. Ora, per intercessione d’una società d’allegri avventori, Stefanella e
Carluccio avevano ottenuto privilegio d’ingresso al caffè Tortoni e in breve
tempo per imitazione in tutti gli altri caffè dei dintorni.
Era là specialmente che Carluccio era fatto chiaccherare e Stefanella
passata in più minuta rassegna.
Talvolta, mentre un pittore, uno scultore, un poeta qualsiasi prendeva da un
tavolino remoto delle note e faceva de’ segni sul suo taccuino, la brigata dei
giovinastri eleganti si serrava addosso alla zingarella incalzandola con
domande, con motti, con occhiate, spesso con gesti tutti d’un tema facile ad
indovinare che la facevano diventar rossa e bianca ad un tempo senza che
nemmeno potesse dirne il perchè, intantochè il fratelluccio costretto a
giuocare in un altro angolo della sala, vedendo la pena della sorella si
mordeva le labbra e squadrava le fiche agli osceni motteggiatori. Ma, se
talvolta la mano di qualche più audace si allungava per un’impudica
carezza, allora si sarebbe veduto il giovinetto saltare, col lancio d’un
tigrotto irritato, tavoli e panche, e piantarsi davanti alla sorella contro
all’insultatore sfidandolo collo stesso piglio con cui un cavaliere della
Tavola Rotonda sarebbe corso all’elsa in difesa della dama di cui portava i
colori. Ed all’atto fiero del piccolo Baiardo era per tutto il caffè un fracasso
di risate e di battimani, e spesso una pioggia copiosissima di soldi, di dolci,
di franchi persino, che certamente nè la fame, nè la pietà avrebbe strappati a
quegli sfaccendati in cerca d’emozioni nuove e di curiosità eteroclite.
La colletta de’ due fratelli, giunti a sera, stava ordinariamente fra i sei
franchi al giorno; ma spesso saliva fino a 10 e qualche volta aveva toccata
la somma inaudita e favolosa per tutta la corporazione di 20 franchi. Ma è
noto che di tutto questo danaro ai fanciulli non restava un centesimo e che
tutto andava versato nelle casse della società.
Però, quando la questua era abbondante, i questuanti non ne risentivano
alcun vantaggio; quando invece era scarsa, una parte del danno andava a
cascare sulle loro povere spalle sotto forma di frustate. Quindi
indirettamente ognuno era interessato a far buona presa, non tanto per il
lucro cessante, quanto per il danno emergente.
Ai fanciulli dell’associazione, l’abbiamo già detto, non restava per
mangiare che quello che era loro regalato in natura dai clienti; in altre
parole la crosta di pane stantìo, l’osso, la ciottola d’acqua e di minestra, il
dolce, il bicchier di vino, ristoro rarissimo che la carità aggiungeva o
sostituiva al soldo, erano lasciati dall’amministrazione ai questuanti in
cambio della mercede o del pasto quotidiano che avrebbero loro dovuto
somministrare. Così l’amministrazione aveva ridotto i suoi operai alla
maggior semplificazione di regime immaginabile: allo stato d’una macchina
che non mangia e non beve e produce tanto per giri e per ora.
Frattanto, finchè i nomi di Carluccio e di Stefanella furono una novità, il
favor pubblico fu generoso tanto per la loro borsa che pei loro stomachi e la
messe dei pani emulò quella dei soldi. Ma in Parigi, centro della mutabilità
umana, nulla resiste all’aridezza di questa sentenza: «È giù di moda.» Un
regno ha vissuto 18 anni? È vecchio, se ne vada: una rivoluzione si
prolunga oltre un carnevale? È vecchia, chiuda bottega. Un predicatore è
alla seconda predica del suo quaresimale; un cantante alla sua seconda
stagione; un poeta al suo secondo dramma; Nadar alla sua seconda ascesa;
gli ambasciatori del Taicun alla loro seconda comparsa?... ebbene, sono
vecchi, vecchi come il cappellino, come la foggia, come l’acqua d’odore
che si usa da una settimana. Non c’è merito, non c’è virtù, non c’è scoperta,
non c’è idea, non c’è bizzarria, non c’è utopia, non c’è nemmeno delitto,
quando esso sia scolpito dal suggello della novità, al quale il vento della
moda non gonfi almeno per un giorno la vela ed a cui quel gigantesco
Arcangelo della civiltà rifiuti di prestare le sette trombe della sua fama; ma
non c’è moda, non c’è fama, che in quello smisurato oceano resista al soffio
d’un’altra moda che sorge, d’un’altra fama che incalza, e gli aquiloni della
sera che portano le tempeste sono salutati colla stessa gioia con cui lo
furono le brezze del mattino che aveano fatta parer bella la calma.
Babilonia, Atene, Roma, Parigi, Londra, forse, chi sa? domani New-York o
Pietroburgo sono le grandi fornaci del progresso: esse tutto ingoiano, tutto
divorano e tutto trasformano, e non lasciano al frammento che vi cade altra
gloria che quella di avere contribuito a formare la immensa statua della
civiltà.
X.

Torniamo ai bimbi... Anche per essi dopo un anno, e avevano durato anche
troppo, era cominciata la vice fatale del tempo. Quei due bimbi erano
trovati già vecchi; il sorriso infantile di Stefanella cominciava a parere
stereotipo, la posa di quel grano d’eroe a sentire il rancido. Il pubblico si
diede a sbadigliare, a non guardare più, a infastidirsi, ad allontanarsi, a dar
meno, a dare pochissimo.
A ciò si aggiunga che ci fu un’epoca torbida per la Francia. Eravamo poco
lontani dall’elezione del presidente e dal colpo di Stato: la Francia era
preoccupata ed inquieta e gli stranieri non erano sedotti a visitarla. Quindi
molti pensieri nelle teste dei Parigini e pochi forestieri per le strade di
Parigi, e dappertutto e in tutti quella trepida aspettazione d’una crisi, che
tronca i nervi al lavoro, gela le ispirazioni all’arte, consiglia il capitale ad
espatriare, il lusso a nascondersi e la società intera a sopprimere il
superfluo, a ridurre il suo bilancio al puro necessario, a rinchiudersi
insomma nella vita vegetale del giorno ed a non far più alcun conto
dell’incerto avvenire.
Di questo torbo ed inquietante orizzonte, se ne dovevano risentire l’Opéra
come i cantastorie da trivio, e l’associazione de’ Petits italiens doveva
soffrirne quanto e più d’una società di strade di ferro o di miniere.
Infatti verso i principii di novembre il Consiglio esecutivo della piazza
Maubert notò una grande diminuzione di introiti e ordinò esso pure
un’inchiesta. E l’inchiesta disse che le partite di Stefanella e di Carluccio
erano quelle che avevano ribassato più rapidamente. I sei franchi giornalieri
erano scesi a tre: nientemeno che il 50% di perdita. Il fatto era grave sopra
tutto e meritava uno studio singolare. Non si tralasciò di ordinare una più
rigorosa vigilanza dei due fratelli; molto meno si dimenticò di chiamarli al
redde rationem e di rammentar loro i doveri sociali con la consueta
perorazione dello scudiscio e delle pedate. Carluccio col suo solito piglio
rispondeva che «non aveva colpa se in Parigi non ci erano più nè soldi nè
minestre». Stefanella invece non rispondeva nulla e piangeva in silenzio
dietro di lui....
— Ci sono pochi soldi perchè ci sono troppe minestre — strillò dal crocchio
degli ascoltatori una voce di femmina.
— Cosa vuoi dire tu Tredici?... — chiese il direttore dello stabilimento che
avremmo voglia di chiamare il capo aguzzino, volgendosi con un sorriso di
iena innamorata alla interlocutrice.
— Gracchia più chiaro, Pica scordata — replicò Carluccio apostrofandola
col soprannome che tutto il collegio le aveva imposto per la grande
rassomiglianza di voce e di muso che aveva con quell’animale.
— Parlerò a tempo e luogo.... e con chi si deve — ribattè la Pica.
— Parlerai con me, non è vero? — e voi altri zitti... o guai! — disse il capo
aguzzino facendo chioccare la frusta dalla parte di Carluccio.
Ora è mestieri dire che la fortuna rapida e insolita dei due calabresi aveva
destato nella maggioranza del collegio di piazza Maubert tutti i vermi
dell’invidia fanciullesca, la quale, sebbene piccina e innocente di forme, è
qualche volta non meno temibile dell’invidia degli adulti. Ora, fra coloro
che avevan preso più forte a odiare i due fratelli, la più arrabbiata e maligna
era la Pica scordata.
Costei, ributtante impasto di giallo e di cenere, brutta proprio come
l’invidia, avendo già oltrepassati i quattordici anni, contava fra le più
anziane dell’istituto, ed ormai la si poteva dire tramontata per
quell’industria che consisteva tutta «nel mettere in mostra l’infanzia che
soffre». Tuttavia ella avea una abilità tutta sua; imitava a perfezione il mal
caduco, e con quest’arte, resa più interessante dalla sua laidezza, ella era
sempre riuscita a razzolare più quattrini che non le sue compagne colle loro
grazie di canti, di suoni o di bellezza che ella, certa di non le poter mai
uguagliare, ferocemente abborriva.
Ma la Pica, non contenta di avere la sua parte di guadagni e di favori,
agognò entrare nelle grazie dell’amministrazione. Impregnata d’odio,
gelosa di tutti i meriti altrui e specialmente di quelli delle sue compagne,
fatta per assorbire e respirare a pieni polmoni i miasmi pestilenti
dell’ambiente in cui viveva, essa aveva sentito il bisogno di fare il male per
il male, e dopo averne per molto tempo cercato il modo più sicuro e
lucroso, si pose ai servigi della polizia segreta dell’associazione. Perocchè,
giova dirlo subito, anche quella società di piccoli miserabili sentiva il
bisogno d’una sbirraglia e di uno spionaggio. Ed ecco una fanciulla a 14
anni spia dell’innocenza e della miseria. In verità il genio del male non
aveva mai trionfato più completamente in un’anima umana.
Naturalmente ella aveva veduto con ira la gloria dei due calabresi e giurò
vendicarsene. Aveva notato che nei primi mesi Carluccio e Stefanella, oltre
che di soldi, erano colmati di doni e che qualche generoso, oltre al pane ed
alla minestra, era persino arrivato al desinare ed ai confetti. Quei due
fanciulli adunque, invece di patire come era loro dovere, minacciavano
ingrassare, e l’associazione era frodata. Quale capo d’accusa per l’invidia in
agguato!
Però, quando il direttore chiamò in segreto la Pica a dargli spiegazione delle
sue parole del giorno prima, ecco quel che essa rispose:
— Stefanella e Carluccio, invece di chieder soldi per la società, chiedono
pane per sè. E siccome molti dànno più volentieri un pane che un soldo,
ecco perchè da un mese essi non portano nella cassa più nulla. Sono egoisti
che pensano soltanto a sè; essi impinguano e la società patisce.
La delazione bugiarda della Pica era materia più che sufficiente per un
processo. Il direttore credette o finse credere, e ordinò il processo il quale
non potea essere che sommario come là si costumava. Laonde, aspettati a
casa i due accusati, e annunziata la sua presenza con una fischiata di
scudiscio, il direttore incominciò così:
— Quant’è l’introito d’oggi?...
— Quattro franchi, fece Carluccio; pioveva a secchi e per le strade c’era
nessuno.
— D’ora innanzi pioveranno di queste — urlò l’aguzzino facendo strisciare
il frustino sulle guancie di Carluccio che ne illividì.
— So perchè l’introito scema; perchè, invece di cercare denaro, cercate da
pranzo... Silenzio... ghiottoni... io lo so e basta. D’ora innanzi decreto: tutte
le volte che vi offriranno da mangiare.... ricuserete. Tutte le volte che
porterete a casa meno di sei franchi doppia razione di frusta e digiuno
assoluto.... Quando porterete sei franchi, vi lascerò tre soldi per desinare... e
ce ne sarà d’avanzo. Avete capito?... a letto, scoiattoli.
Il lettore comprende che per eseguire alla lettera quest’ordine Carluccio e
Stefanella rischiavano restare senza pranzo tutte le volte che la busca era
minore di sei franchi; e che anche quando li raggiungeva o li superava
dovevano aspettare fino a sera a pranzare... con tre soldi! In verità la
legislazione della fame non era mai stata più sapiente.
XI.

Il primo pensiero che dovea naturalmente venire era quello di deludere la


legge, giacchè il proverbio italiano: Fatta la legge fatto l’inganno, è
universale a tutti i luoghi e a tutte le età. Però Carluccio tutte le volte che gli
si parava il destro, non esitava ad accettare il pane che gli veniva regalato;
ma non così Stefanella; essa era troppo timida per osarlo e forse troppo
buona per pensare un inganno anche legittimo. Che se qualche volta le
veniva offerto un pane, essa con voce tremante diceva: «Signore, non lo
posso prendere, datemi un soldo» e siccome il signore si credeva in diritto
di sospettare subito in quella domanda un’avidità di denaro, così se
n’andava spesso borbottando senza dar nulla, e la povera Stefanella se ne
restava a borsa vuota ed a bocca asciutta. Era naturale che essa come più
debole dovesse soffrir di più di quella umana ingiustizia e che la fame
rodesse in quel suo misero stomaco con dente più acuto. Molte volte,
specialmente nelle giornale fredde dell’inverno, era accaduto che la colletta
non raggiungesse la cifra decretata e che i due orfani fossero condannati a
coricarsi interamente digiuni.
Una sera la Stefanella tornando a casa non potè più resistere allo strazio
della fame e cascò esausta di forze e quasi di respiro sul lastricato della via.
Quando la raccolsero la trovarono bruciante di febbre e la portarono allo
spedale. E lo spedale, sgomento di tutti quelli che hanno una casa, un letto,
una pentola al loro fuoco, un sorriso di parente al loro capezzale, era per
quella bimba, foglia morta strappata dal suo ramo e gettata in quell’oceano,
senz’altro nome che un numero, senz’altro asilo che l’angolo d’un
sotterraneo, senz’altri conoscenti che l’aguzzino, senz’altra legge che la
fame, senz’altra vita che il dolore; lo spedale colla sua carità misurata, la
sua medicina ufficiale, il suo servidorame indifferente, il suo comunismo
indecente, era ancora per lei una reggia, una benedizione, un pezzo di cielo.
Essa da quel giorno non ebbe che un rammarico: «esser divisa da
Carluccio» e non ebbe che una paura, il presentimento di dover tornare o
tosto o tardi alla sua orrenda Gemonia.
E vi tornò diffatti. Un agente dell’amministrazione presentatosi come il
padrone dell’operaia andò a reclamarla. Lo spedale trovò che le carte erano
in regola e che esso avea finito il suo cómpito e la restituì. La carità
pubblica ha di queste lacune: il brefotrofio non riconosce l’asilo infantile,
l’asilo non ha a che fare colla scuola primaria, l’orfanotrofio non c’entra
collo spedale, e il carcere, che dovrebbe essere un luogo di correzione e di
miglioramento, si sente indipendente da tutti. E finchè le anella delle
istituzioni filantropiche non saranno tenute insieme da un’unità di concetto
e di scopo; finchè il miserabile non troverà in tutte le età e in tutte le
condizioni una provvidenza continua ed organizzata su queste tre parole:
Luce, Lavoro, Pane; finchè la Ruota non metterà capo al Collegio, e la
Prigione non si confonderà colla Chiesa, una parte del problema sociale
resterà sempre insoluta.
XII.

Quattro anni trascorsero così senza mutazione o vicenda alcuna per i nostri
due orfanelli: sempre la stessa pena, sempre la stessa fatica, sempre la
stessa servitù. Non c’è come la miseria per essere monotona. Chi ha
incontrato qualche volta un mendicante cieco seduto da vent’anni su quel
sasso a quel medesimo luogo, a quella medesima ora, colla stessa preghiera
sulla bocca, col cappello sempre teso a quel modo, ha veduto il simbolo
della miseria; essa è una tenebra immutabile. La sola differenza che
potremo notare fu nel decreto che condannava alla fame quei due infelici.
La colletta era tornata abbondante, la Pica s’era maritata all’aguzzino e il
loro odio s’era calmato nella luna di miele, ed a Carluccio e Stefanella era
stato restituito il diritto di mangiare il pane che ricevevano in carità.
Però noi saltiamo a piè pari fino al 1854, anno in cui Stefanella compiva i
14 anni, Carluccio 15. Entrambi erano passati dall’infanzia alla puerizia,
entrambi cominciarono a divenir disadatti alla servitù a cui erano stati
condannati, e un’altra vita era preparata per essi. Stefanella avea già sentito
agitarsi nel suo seno i misteriosi annunzi della pubertà e, fanciulla ancora,
colla precoce rapidità di sviluppo che caratterizza le meridionali, era già
donna. Poichè fame, busse, insulti, miserie d’ogni sorta non l’avevano
uccisa, essa fioriva. Tutti quei germi di bellezza, di grazia, di poesia, che
avea portati dal suo cielo, poichè non erano avvizziti in quella notte,
sbucciavano con tutto il rigoglio d’un albero in fiore, in quell’aprile della
sua vita.
Belle come Stefanella a quindici anni se ne potevano forse trovare, ma
nessuna figlia d’Eva, se la bellezza scultoria è regolarità di linee, era mai
stata più seducente di quella montanina calabrese ornata di soli cenci e di
primavera.
Bambina, Parigi l’aveva vezzeggiata; vergine, tutta Parigi l’ammirava, e pur
troppo l’agognava.
Uno dei primi e più ardui problemi presentatisi all’amministrazione fu
quello di sapere che cosa avrebbe fatto di quei due fratelli ingranditi.
Il comune trattamento di questi sciagurati, una volta che l’età gli aveva resi
incapaci all’arte primitiva in cui erano stati educati, era, o l’abbandono
assoluto in mezzo alla via, quando erano giudicati più buoni a nulla, od una
rivendita o sub-affitto a qualche altra industria, sovente più infame, quando
davano speranza di poterla esercitare con frutto.
Però i due calabreselli cadevano, a parere dell’amministrazione, in questa
seconda privilegiata categoria, ed essi avevano in sè un capitale che,
usufruito poteva essere fonte ricchissima di guadagno. Ma non era facile
trovarne l’impiego conveniente. Carluccio era cresciuto in robustezza
quanto la sorella in grazia e leggiadria; il buon sangue nativo e quella
continua ginnastica di salti e di capriole avea dato al suo corpo ancora in
fiore tutto lo sviluppo della maturanza, e più volte, acrobati e saltatori di
Circhi, sorpresi dal nerbo e dall’elasticità di quei suoi muscoli, avevano
regalato il giovane atleta d’un mondo di lieti presagi sui suoi trionfi
avvenire.
La carriera di Carluccio era dunque fissata, e l’amministrazione si diede da
quel giorno a cercare a destra ed a sinistra in tutti i dipartimenti della
Francia un Ciniselli qualsiasi che assumesse presso di sè il calabrese. Alla
fine credette aver trovato, e un bel mattino Carluccio fu chiamato a dar
prova della sua destrezza davanti ad un elefantesco incognito che era nè più
nè meno che un saltimbanco ambulante dei circhi di provincia. E perchè il
ragazzo fu trovato pieno di belle speranze, così il giorno stesso il contratto
fu conchiuso e Carluccio venduto per 500 franchi come clown in erba
dell’Ippodromo di Nantes. Notiamo, di passata, che Carluccio era stato
comperato dall’amministrazione per 300 franchi, e che egli ne aveva resi in
cinque anni circa 8 mila netti da ogni spesa.
Confessiamo che pochi commerci hanno di questi dividendi.
Sorse per altro una difficoltà, alla quale l’amministrazione non avrebbe mai
pensato e che per la prima volta incontrava in vita sua. Carluccio al
momento della partenza dichiarò che non si sarebbe mai diviso da sua
sorella.
La sorella invece non dichiarava nulla, ma colle sue lagrime silenziose
confermava i proponimenti del fratello.
La prima misura dell’amministrazione fu naturalmente minacciare e
picchiare, ma Carluccio era tale da farsi mettere a pezzi prima di cedere. Il
saltimbanco compratore cominciava ad impazientirsi e aveva già protestato,
che se entro tre giorni egli non aveva il suo clown rompeva il contratto e se
n’andava.
Il caso era grave, e il bisogno d’un provvedimento urgente. Ad esso non
bastava più nemmeno il Comitato esecutivo e fu deciso interrogare l’alta
saggezza del presidente in persona.
E il presidente, dopo aver raccolte le sue idee, col tuono freddo e solenne
d’un oracolo diede questo responso:
— Poichè i tormenti inflitti al fratello non riescono, non c’è che un mezzo:
torturare la sorella in faccia sua finchè ceda.
Il Comitato esecutivo partì sbalordito di tanta sapienza: l’ispirazione parve
degna del genio di Torquemada e d’Arbuez, e fu deliberato di darvi
esecuzione senza ritardo.
Bisognava trovare un modo di tortura che fosse a un tempo tormentoso e
ignominioso e dopo molte ricerche fu trovato. Stefanella doveva essere
frustata nuda. Essa doveva correre intorno al cortile, e tutto il collegio,
allievi ed aguzzini mano mano che passava doveva darle la frustata sulle
ignude carni! Guai quindi se ella si arrestava: la grandine diveniva ancora
più fitta. Carluccio poi legato in un angolo del cortile doveva contemplarla
finchè la sua pietà ed il suo terrore fossero sazi.
Appena la vergine comparve, mezza morta di spavento e di vergogna sulla
soglia del cortile, Carluccio chiuse gli occhi e non volle veder di più. Quella
profanazione dell’innocenza e del pudore gli aveva già tenuto luogo di tutti
i tormenti e con un urlo angosciato gridò: «Basta». Gli fu chiesto allora se
acconsentiva a partire e rispose: «Acconsento».
Stefanella fu ricondotta, Carluccio liberato.... e la sera chiuso in un furgone
assieme alle scimmie, ai cani, ed agli altri attori della compagnia, trottava
già verso Nantes dove doveva esordire nella sua nuova carriera.
Nel congedarsi furtivamente dalla sorella, non potendo darle nulla, perchè
nulla possedeva, le lasciò come un ricordo ed una promessa queste parole:
«Ora non mi resta che tornare per vendicarti... e tornerò».
XIII.

La sorte di Stefanella preoccupava ancora più. Ella era troppo privilegiata


di doni per essere sciupata nella volgare prostituzione delle sue compagne.
«Sarebbe come condannare un cavallo arabo a tirare un omnibus» diceva
uno dei nobili membri del Consiglio esecutivo con una comparazione degna
di lui! Stefanella poteva aspirare, sempre secondo i concetti del Comitato
esecutivo, alle più grandi fortune; un principe russo o indiano, pareva
ancora poco: forse era da tentare addirittura le alcove della reggia! Ma
anche qui bisognava aspettare l’occasione, crearla anzi con destrezza, ma
non precipitar nulla.
— E la prima cosa a farsi, diceva il presidente interpellato anche su di
questo, è di custodirla. Se la lasciamo vagare per Parigi la perderemo. Oggi
tutti la portano via cogli occhi, domani ce la porteranno via davvero colle
mani... Ma custodire, soggiungeva il Solone di quell’orrida repubblica, non
vuol dire nascondere; tutto al contrario: bisogna ottenere i vantaggi della
mostra, senza correre i rischi della perdita; bisogna custodire come gli orafi
i gioielli che vogliono vendere: trovare una vetrina sicura e trasparente in
cui tutti la possano guardare e nessuno toccare.
In una metropoli come Parigi c’è tutto per tutti. Essa è, secondo i casi, una
cornucopia ed una panacea: ogni dolore vi trova il suo Golgota e il suo
Tabor; ogni virtù la sua apoteosi e la sua gogna; ogni ferita il suo veleno ed
il suo farmaco; ogni grandezza il suo inciampo, ogni miseria il suo aiuto. Ivi
il bene ed il male combattono in un quotidiano duello senza mai atterrarsi.
Il bene è Ercole, ma il male è Idra; la legge è Argo, ma il delitto è Briareo.
Ora, non era possibile che, cercando bene, la vetrina suggerita dal
presidente, per custodire e mettere in mostra viventi gioielli, e in modo che
la società potesse almeno tollerarla e la legge non avesse nulla a ridire, non
s’avesse a trovare. Le forme del lenocinio sono infinite e sfuggono ad ogni
classificazione filosofica e ad ogni sanzione penale. Esso può annidarsi
tanto dietro le grate del confessionale che nelle anticamere de’ cortigiani e
parlare indifferentemente il linguaggio di Loiola e di Falstaff; avere per
insegna i piattellini di Figaro e la maschera di Tersicore, congiurare nel
mazzo della fioraia sotto forma di biglietto; nel triclinio di Anfitrione coi
vapori del Falerno, o nelle letture di Torquato fra le ottave del poema.
Ed esso a Parigi aveva anche la forma di collegio. In uno degli angoli più
remoti dei dintorni del Panteon, in una di quelle viuzze più silenziose e
tranquille che parevano fatte apposta per meditare e studiare, epperò sparse
a ogni passo d’insegne di educandati e di pensioni, si leggeva al sommo
d’un portoncino questa scritta:

Madame Mouchard
pension et education de jeunes demoiselles étrangères.

Poi sotto, in un carattere più piccolo ma evidentissimo, un autorisée par le


gouvernement, innanzi al quale gli scrupoli d’ogni più diffidente padre di
famiglia sarebbero svaniti.
Per la legge infatti lo stabilimento di madama Mouchard aveva tutti i
requisiti richiesti. La direttrice era vedova d’un luogotenente del Treno,
ucciso alle barricate di giugno per l’ordine e la legge, quindi
particolarmente raccomandata al governo; le maestre d’inglese, di tedesco,
di pianoforte, di disegno avevano tutte le loro patenti in regola; il locale era
decente; il cibo sano, la regola austera e ineccepibile; tutte le tasse erano
pagate, tutti i regolamenti osservati, dunque il governo non aveva a cercare
di più.
E guai per madama Mouchard se essa non avesse osservato a puntino le
prescrizioni della legge: essa avrebbe subito risvegliato l’attenzione
dell’autorità la quale non avrebbe tardalo a scoprire il vero. In poco tempo
si sarebbe accorta che le sedicenti maestre portavano patenti con altri nomi,
che c’era il programma e l’orario delle lezioni, ma le lezioni non si davano
mai, che nessuna delle educande veniva di giorno al collegio, nessuna
restava per l’intero anno scolastico, e che dopo un mese o due, una carrozza
chiusa e misteriosa veniva di notte alla porta, si apriva per ricevere una
delle pensionanti e partiva al trotto serrato per una destinazione ignota.
Insomma si sarebbe accorta che il collegio era un’agenzia succursale d’un
traffico infame.
Stefanella fu affidata a madama Mouchard con questi patti. Trecento franchi
per il corredo, giacchè Stefanella era in brandelli e bisognava rivestirla;
duecento franchi al mese per la pensione di tre mesi e il 20 per cento sul
contratto. Madama Mouchard non aveva mai ottenute più laute condizioni,
e raccoglieva tutte le sue forze per riuscire. Nei sogni delle sue notti essa
non faceva che vedere bascià innamorati, banchieri olandesi ingrulliti, e
yankees vergini impazziti e monti di napoleoni d’oro a’ piedi di Stefanella.
Allora essa aveva tre altre educande, ma decise lasciarne l’incarico ad un
suo aiutante per consacrarsi interamente all’ultima venuta.
Il programma era, mettere in mostra la giovanetta dappertutto, ma non
scoprire mai, fino allo stringere finale dei conti, chi era e dove stava di casa.
Questo programma obbligava la Mouchard a condurre Stefanella tutti i
giorni alla passeggiata e tutte le sere allo spettacolo, e poichè era quaresima,
fra gli spettacoli conveniva mettere le prediche del padre Ventura e le messe
cantate a san Sulpicio o alla Maddalena cogli Oratorj di Haydn. Ora, se
questo poteva essere divertente per la giovinetta, era grave alla borsa ed
anche alla età della direttrice. È vero che essa si rifaceva sulla colazione e
sul pranzo, e che la giovinetta scontava coi patimenti in casa il lusso del di
fuori; ma la differenza tra la vita del sotterraneo e quella della pensione era
ancora tanto grande, quanto potrebbe essere, immaginate, quella d’un uscito
dall’inferno per entrare nel limbo. E quel luogo muto e misterioso era per
lei un limbo davvero: essa non capiva e non sentiva nulla. Le avevano detto
che la mettevano là dentro per insegnarle a leggere e farne poi un’attrice....
od una cantante.... ed essa tutti i giorni da un mese chiedeva invariabilmente
a madama Mouchard:
— E quando comincio la mia lezione?
— Fra poco, rispondeva l’Argo dell’antro, e la lezione non cominciava mai.
Ma al trentesimo giorno preciso accadde per Stefanella uno straordinario
avvenimento che le tolse non solo la voglia di uscire a spasso ed a teatro,
ma anche quella di studiare. Essa non avrebbe fatto più nulla, fuorchè
andare e venire dalla finestra e guardare di fuga e di soppiatto attraverso le
gelosie.... Fin dai primi giorni della sua nuova comparsa in pubblico al
fianco di madama Mouchard la giovinetta aveva avuto occasione di notare
più volte, e da ultimo in tutti i luoghi, dove ella si trovasse un giovinotto
ben vestito e di bell’aspetto, che, illusione o realtà, pareva la guardasse
molto fissamente e persino talvolta la salutasse.
Ma dove non mancava mai era al teatro ed alla chiesa. Ella cambiava luogo
ed ora, ma il giovane c’era sempre; se in teatro, appiedi della sua loggia, se
al tempio dietro al suo banco, ritto, immobile a contemplarla. Però
Stefanella, nutrita nella superstizione del suo paese, ebbe persino la
tentazione di credere ad una stregoneria; solamente provava, cosa insolita,
che quello stregone non le faceva paura.
La vicenda degli incontri durò così senza varietà e senza risultati per circa
un mese, quando alla domenica delle Palme fece un gran passo decisivo. La
signora Mouchard aveva condotto la Stefanella alla messa solenne nella
chiesa di san Filippo nella quale per la straordinaria festività era certa che
tutto il mondo elegante si sarebbe dato convegno. E non si sbagliò. San
Filippo è poco lontano dai campi Elisi e dalla strada del bosco di Boulogne,
e tutte le bellezze e tutti i peccati aristocratici di Parigi erano venuti a
portare una carta di visita a Domineddio, intanto che veniva l’ora della
passeggiata.
Quando Stefanella entrò nella semplice ma elegante sua veste azzurra, tutto
quel pubblico che era là per passare ed essere passato in rivista fissò gli
occhi sulla bruna calabrese incoronata di treccie d’oro e non l’abbandonò
più. Stefanella sentì tutte le fiamme di quegli sguardi sul suo volto, ma
avvezza ormai ad essere guardata e non guardare, non arrossì; sol quando
incontrò due occhi a lei ben noti, allora diventò di bragia.
Andò ad inginocchiarsi modesta e pudica come la Margherita del Faust
sulla sua sedia e per molto tempo non levò più gli occhi. Madama
Mouchard, Mefistofele in gonnella, le sussurrava:
— Ma guardate là quel bruno, alto.... è il conte tale.... e quel piccino gentile
è il marchese tal’altro.... e quella rossa in abito viola.... è la figlia d’una
lavandaia ed ora ha carrozza e livrea.
Stefanella rispondeva: «Ho veduto» e non si moveva....
Ma a un certo punto levò la testa come tôcca da una elettrica scintilla e
cercò essa pure nella folla. I due sguardi puri e raggianti del giovane
l’avevano raggiunta e fissati su di lei l’attraevano come il pianeta la sua
stella, dentro la sua orbita.
La chiesa era affollata, e finita la messa tutta la gente rigurgitando
nell’istesso tempo alle porte finì col far gorgo e col restare parecchi minuti
senza poter nè retrocedere, nè avanzare.
Ora il caso volle che nella calca Stefanella si trovasse così vicina a quel
giovane ignoto che i loro cuori si toccavano e i loro aliti si confondevano.
Lo sfollamento potè durare pochi minuti, ma furono per quei due augelletti
in cerca d’un nido una eternità. Essi si guardarono l’un l’altra fin dentro il
bianco degli occhi; poi il giovane, non visto, anzi coperto dalla folla, prese
la mano della fanciulla; la fanciulla gliela lasciò; le loro dita
s’intrecciarono, i loro cuori si sposarono, le loro anime tacitamente
pronunciarono un giuramento così sincero, così profondo che Dio stesso
avrebbe creduto eterno.
XIV.

Da quel momento il giovine, oltre che andare dovunque Stefanella andasse,


s’era messo a passare e ripassare tutti i giorni ed alla stessa ora sotto alle
finestre dell’istituto ed ecco perchè Stefanella andava così spesso a spiare
dalle gelosie. Quella ronda per il giovane, quel riconoscimento per la
fanciulla, tenevano luogo di dialogo. Quante cose non si dicevano: egli coi
suoi passi, ella colle sue occhiate! Qualche volta il giovane, vedendosi solo
nella contrada, si indugiava un attimo di più davanti alla finestra e la
giovinetta apriva un pochino di più la gelosia. Allora il discorso diveniva
eloquente; pareva che un inno cantasse per l’aria e che i loro orecchi
udissero tutte le parole senza che le loro labbra le pronunciassero.
Ma chi era, d’onde veniva, come si chiamava quel giovine? Stefanella non
lo sapeva, ma, strano a dirsi, non lo cercava. Per lei si chiamava.... l’Ideale.
E Stefanella chi era per lui?... Egli lo ignorava; desiderava saperlo, giacchè
la natura vuole che il maschio desideri conoscere più della femmina, ma
non aveva fretta.... Intanto, avendo pur egli il bisogno di dare un nome a
quel sogno, lo chiedeva ai poemi, agli inni, ai fiori, al cielo.... e non lo
trovava.... Finì col chiamarla Psiche.... Anima mia.
Questi convegni muti, quest’amore tra cielo e terra durava da circa un mese
quando madama Mouchard li sorprese. Non portava il suo nome per nulla.
Essa colse Stefanella proprio nel punto in cui apriva la gelosia ed il giovane
proprio nel momento in cui soffermava il passo. Ella non fece che afferrare
di dietro la giovinetta per le braccia e sbatacchiarla contro le pareti.
Quanto al giovane lo fulminò dalla finestra con una occhiata e chiuse le
gelosie col fiero piglio di un veterano che serri le saracinesche d’una
fortezza nella quale sia deciso a vincere o morire.
Però ella non tralasciò precauzione di sorta: proibì alla giovinetta addirittura
tutte le stanze che davano sulla strada e le finestre di tutta la casa; non uscì
più che in legno chiuso e avvertì l’amministrazione del pericolo e della
necessità di tôr di mezzo quel giovane.
L’amministrazione s’incaricò di questa parte, ma un venti giorni dopo con
sua grande sorpresa la Mouchard si sentì rispondere che «non si poteva
toccare quel signore».
La istitutrice ruminò tutta la notte quella risposta ed ebbe quasi la
tentazione di credere che quell’incognito fosse qualche principe straniero
travestito.... Non si può toccare quel giovane, e perchè?... Ma cos’è?... Chi
è?... andava ripetendosi la Mouchard.... e se il lettore avrà pazienza come
lei, verrà a saperlo.
La custode però decise di affrettare quanto più le fosse possibile, quello che
essa chiamava il collocamento di Stefanella. Perocchè, ricordiamolo bene, il
mezzo per riuscire in una società, tutta forma e apparenza, è di tradurre in
oneste parole ogni disonesta cosa.
XV.

Madama Mouchard aveva relazione con tutti i clubs, i circoli, i saloni della
società equivoca, di quel demimonde che ormai è divenuto forse due terzi
del mondo parigino, ma fino allora non vi aveva mai condotta Stefanella per
l’unica ragione che non voleva fosse sussurrato all’orecchio della giovine il
pericoloso consiglio di «fare da sè».
Ma vedendo che l’aspettata avventura del principe indiano o del bascià
turco tardava a venire, e che il giovane che non si poteva toccare
continuava a passeggiare, decise giuocare l’ultima posta, e ricevuto l’invito
al ballo della baronessa Flaviani, una Susanna d’Ange qualunque di quella
società, lo accettò senz’altro e vi condusse Stefanella.
Il ballo era in costume e l’occasione non poteva essere più propizia per
mettere in mostra tutte le grazie native della giovinetta nel suo ricco
costume calabrese. La spesa, è vero, era grande, ma l’amministrazione
l’incoraggiò; d’altronde dovea essere l’ultima.
Il salone era pieno; tutto v’era falso, le tinte come le treccie, i nomi come le
gemme, i blasoni come i valletti; ma tutto luccicava. Però si sa che in
mezzo a quelle esposizioni di cristalli di rocca c’è sempre frammisto un
grano di diamante puro che è lo scopo e la morale della rappresentazione. E
in mezzo a quei conti senza contea, a quei banchieri senza credito, a quelle
dame senza nome, a quelle vedove che non hanno mai avuto marito, e a
quelle fanciulle che l’hanno già avuto, c’era un personaggio vero, autentico,
con un passaporto suo, un titolo suo, danari suoi: v’era un Norvegiano
legittimo figlio d’un pescatore di balene e di merluzzi, borgomastro di
Bergen, sei o sette volte milionario e mandato a fare dal padre il così detto
viaggio di istruzione, il quale di solito col pretesto che non resta nulla da
apprendere più oltre, nè di bello, nè di brutto, comincia e finisce a Parigi.
Il pescivendolo Norvegiano che doveva necessariamente chiamarsi Oscar
era dunque il diamante incastonato nel similoro; egli il così detto merlo da
spennacchiare, e ognuno era venuto coll’idea di strapparne almeno una
penna: il falso banchiere e il falso gentiluomo coll’idea di vincerne i danari
al giuoco; le false dame coll’idea di farne un amante, un marito od un
protettore. Però ognuno veniva a posare davanti a lui come al re della festa;
egli era il bersaglio di tutti i discorsi, il centro di tutte le occhiate, la molla
segreta di tutto il meccanismo.
Il Norvegiano a mezzanotte era già cotto. Tutti quei complimenti così fini,
quelle gentilezze così squisite, quei motti così arguti, quelle facezie così
amene, quegli epigrammi così salati, tutte insomma le batterie
dell’inesauribile spirito francese scaricate per lui, l’avevano ubbriacato.
Egli non sapeva più cosa rispondere a quei discendenti de’ Duguesclin e dei
Montmorency, che parlavano di Crecy e di Fontenoy dove non erano mai
stati; a quelle dame che parlavano dei loro castelli aviti, che non erano che
castelli in Ispagna, e a quelle fanciulle che sciorinavano la lunga schiera dei
loro partiti, che non s’erano mai presentati; e in faccia a tutta quella
fantasmagoria scintillante di ciarle, di dorature, di grazie e di nobiltà, falsa o
vera che fosse, si sentiva abbagliato, stordito, vinto.
Era a questo punto quando al fianco di madama Mouchard, vestita di un
velluto nero, un po’ spelato di giorno, ma lucentissimo di sera, accollato
fino al mento, come voleva la sua parte di «educatrice delle donzelle uscite
dalle più illustri famiglie d’Europa», comparve Stefanella nei suoi graziosi
colori calabresi.
Quantunque quella non fosse che la prima festa a cui assisteva, vi era
andata triste e svogliata per una ragione facile a intendersi: dove egli non
era, era il deserto, e quella folla non faceva che popolare di fantasimi una
solitudine.
Perciò ella avanzava come avvolta da una molle atmosfera di melanconia
che la rendeva ancora più seducente. La legge dei contrasti è possente
quando è armonica. Essa abbraccia ed esprime tutta l’arte; ora, nessuno di
quanti erano là convenuti, dotti certo d’ogni umana attrattiva, aveva mai
veduto contrasto più meravigliosamente artistico di quello che Stefanella
rappresentava in quel momento da sè.
Il bruno pallido delle sue gote che la bianca luce dei doppieri rendeva
ancora più tenue e gentile, era corretto e ritemprato, staremmo per dire,
dalla rosea ombreggiatura di due labbra coralline che lasciavano
intravvedere traverso i sorrisi e le parole una bianca schiera di piccolissimi
denti; mentre la molle delicatezza delle linee e dell’espressione s’intonava e
s’invigoriva nell’arco squisitamente disegnato di due ciglia lucide e nere
come la piuma del corvo, sotto il quale due grandi occhioni, neri come le
ciglia, or si alzavano, ora smorivano come la fiamma di due fari sopra un
mare tranquillo.
Per compimento di tutta questa varietà di tinte, di idee, di toni, un covone di
capelli dorati, ma di quella doratura cupa, a fuoco, che ne è, quasi direi,
l’incarnato, e par scelto apposta per insegnare alla pittura l’intonazione
della grazia e della vigoria armonizzata in un solo colore.
Le vesti erano una tavolozza di Paolo Veronese. Nessun pittore, senza
lunghe ricerche, avrebbe potuto trovare un impasto di tinte più felice di
quello che nella semplice e incolta fantasia trovò la donna calabrese quando
ideò il pittoresco costume che doveva portare all’altare il dì delle sue nozze.
La camicia bianca orlata di pizzi e di trine esce dal busto e avvolge in un
fitto velo le grazie del seno e giù per le spalle scende fino alla metà delle
braccia, che si muovono libere e ignude senza parere impudiche. Il busto
che nel dizionario natio le calabresi chiamano la petticchia, è appena un
cinto e stringe poca parte, ma è tutto azzurro e forma melodiosa transizione
tra il candore della camicia e il rosso arancio della gonna. Ma la gonna poco
oltre il ginocchio s’arresta e si ripiega per lasciare di nuovo apparire il
lembo di un’altra gonnella azzurra, una calza candida ricamata di fiori e
intrecciata dai nastri neri del sandalo. Vedete una calabrese bella giovane,
pulita, vestita di nuovo in questi panni e non avrete ancora veduta
Stefanella; essa aveva tutto quel che la natura poteva dare; e di più tutto
quello che l’arte aveva aggiunto. La sua camicia era di battista fina come il
velo di seta, la sua veste paesana era stata tagliata a Parigi e i suoi sandali
non avevano calpestato che fiori e tappeti. Però a tutta questa beltà aveva
ancora una rivale: la melanconia. Esse si contendevano il campo, e lo
spettatore non sapeva a chi gettare il suo guanto. I suoi occhi incantavano,
ma la sua voce commoveva; le rose delle sue labbra attraevano i baci, ma
ogni sorriso che ne usciva era un raggio d’anima: i colori delle sue vesti
erano un mazzo di fiori, ma il pallore di quel suo volto era la nube che
contrasta col sole.
— Chi era? d’onde veniva?... Nessuno di quei presenti l’aveva veduta
tranne una sola.... la padrona di casa.
— È la petite italienne? chiese questa a madama Mouchard.
— Zitta.... secondatemi.... ci sarà una provvigione.... rispose la Mouchard.
— Accettato — replicò la baronessa di princisbecco.
Allora le due donne insieme congiunte risposero in coro alle domande:
— Si chiama Cherubina; è la figlia d’un barone calabrese, famoso
carbonaro, morto nelle carceri del re Bomba; suo padre non le lasciò nulla:
ma da sua madre ereditò un piccolo patrimonio sufficiente appena per
compiere la sua educazione e vivere decentemente. Essa per altro ha grandi
parentele, a Napoli, in Ispagna, all’Avana, nella milizia, nel foro, nella
diplomazia. L’ambasciatore al Perù don Jose y Pendaloza è suo zio.... essa è
affidata alla direzione di madama Mouchard fin che abbia compiuta la sua
educazione. Per altro i parenti di Napoli in segno della grande fiducia
riposta nella sua istitutrice le hanno confidato facoltà illimitate che possono
arrivare in certi casi fino al matrimonio.
Chi credette, chi dubitò, chi scrollò le spalle: solo il Norvegiano accordò
tutta la sua fede e non ristette un istante dal contemplare Stefanella.
Vedendo aperta la breccia, la baronessa Flaviani presentò il nordico
Nababbo alla signora Mouchard ed alla giovinetta, e così s’intavolò il
discorso. Il Norvegiano cercò metter fuori tutta la suppellettile del suo
spirito polare e tutti i milioni delle paterne piscine, ma quanto a Stefanella
ascoltò e rispose appena; quanto alla Mouchard ella lanciò l’âmo addirittura
con queste parole:
— Il signore è nubile?...
— Nubile.
— Bella condizione! esclamò la Mouchard; bella.... a Parigi sopratutto, e
per un giovane ricco come lei.
— Perchè mo?... fece il Norvegiano che non capiva troppo!
— Perchè un nubile vi può trovare tutti i piaceri e far tutte le follie che gli
passino per il capo senza doverne rispondere ad alcuno.
— Vero.... vero... replicò il Norvegiano che non capiva niente.
— A trent’anni, continuò l’istitutrice, con dei milioni in tasca e colle fedi di
stato libero, si può sposare oggi una principessa di casa regnante, se si
vuole, o possedere.... anche una madre badessa, se ne viene il capriccio....
— Sposare?... oh sposare no, rispose secco il Norvegiano.
— No?... fece la Mouchard così sorpresa, che diede un colpo indietro
contro la spalliera della seggiola.... Ma poi ripigliandosi.... — È forse un
voto che ha fatto, signor Oscar?
— Presso a poco! Partendo da Bergen, mio padre ha voluto che gli
promettessi che dovunque fossi arrivato nei miei viaggi, per quante
seduzioni avessi incontrate, non avrei mai preso moglie, e mi sarei serbato
libero per sposare una donna del mio paese, Norvegiana puro sangue.... ed
una Norvegiana della stessa famiglia nella quale si sono sempre maritati gli
Oscar... da mio bisnonno fino a mio padre.
— Ed ella non oserebbe mai rompere il divieto del padre.... chiese con un
sorriso surrettizio la Mouchard....
— Oh mai!... sarei certo d’essere diseredato, rispose con un sospiro il
signor Oscar....
— Pure, questo sospiro mi dice che ella sopporta mal volentieri questo
patto!... insistè la Mouchard.
Il Norvegiano esitò un poco, guardò di traverso Stefanella, poi gittandosi,
come suol dirsi, a mare, esclamò:
— Questo sospiro le dice quello che penso di quella creatura lì.
— Signore! fece la Mouchard, assumendo il cipiglio d’una Cornelia, —
spero bene che ella non avrà guardato la fanciulla che io ho in custodia, se
non col rispetto dovuto al suo nome ed al suo grado.
— Tolga Iddio che ne dubiti.... prova ne sia che la credo l’unica creatura per
la quale si potrebbe rinunciare perfino a una eredità di otto milioni...
— Allora non varrebbe più la pena di andare in Norvegia, pensarono
insieme quelle anime sorelle della finta istitutrice e della finta baronessa....
Il ballo era per finire; Stefanella e la signora Mouchard partirono per le
prime, e tutti gli altri si apparecchiavano a seguitarle. Allora il Norvegiano,
essendo andato dalla padrona di casa per congedarsi, la signora si abbassò
al suo orecchio e gli disse:
— Quella fanciulla non è nè Cherubina nè baronessa, nè.... sposabile.
— Impossibile! gridò il giovinetto, dando uno scatto con tutta la persona.
— Glielo confermo.... venga domani da me alle tre: ci sarà anche la signora
Mouchard e ne riparleremo.
XVI.

Le trattative col Norvegiano duravano da alcuni giorni, ma egli era più duro
di quello che le due diplomatiche avevano pensato. La sua morale in fatto di
piaceri era larghissima, ma non arrivava fino alla brutalità. Egli era pronto a
comperare, ma non a violentare. Avrebbe versato il prodotto della pesca
d’un anno per un bacio di Stefanella, ma non le avrebbe tôrto un capello.
Insomma egli voleva conquistare anche a prezzo d’oro se questo era il
mezzo, ma una volta vincitore voleva tutte le apparenze della resa
volontaria e tutte le illusioni dell’amore spontaneo.
La cosa non era facile. Madama Mouchard conosceva Stefanella, ed era
certa che la giovanetta sarebbe stata capace delle più disperate resistenze.
— Non hanno saputo farla.... diceva ella alla sua nuova socia, e si
travagliava con essa in un pelago di progetti uno più strano e nefando
dell’altro.
Dopo molti studi e conferenze convennero alla fine in questo piano.
Bisognava anzitutto parlar fuori dei denti alla calabrese; mostrarle tutti gli
aspetti della fortuna che le andava incontro, ma nell’istesso tempo
spaventarla, minacciarla e metterle a nudo sotto gli occhi tutti gli orrori
della vita che l’aspettava se avesse ricusato. Allora, quando si fosse creduta
la giovinetta sufficientemente preparata, si sarebbero cercati tutti i mezzi
per introdurla nella compagnia del Norvegiano e addomesticarla con lui.
Per la prima parte del piano la sola parola di madama Mouchard parve
poca. Essa aveva già aperto il fuoco descrivendo tutti i meriti e i milioni del
baleniere, ricordando alla fanciulla che essa era senza nome, senza parenti,
senza protezione, schiava d’una potente società, la quale poteva far di lei
quello che il libito le avesse dettato; che doveva pensare al suo avvenire, ed
afferrare il ciuffo della fortuna poichè le passava così dappresso; che se ne
sarebbe pentita poi ricusando; che il Norvegiano l’avrebbe anche potuta
sposare.... ma che il matrimonio non era in fin dei conti necessario...
quand’egli la avesse posta in una posizione indipendente...; che a quel
modo viveva mezza Parigi, e probabilmente mezzo il mondo...; che era
bella come una fata.... che tutte le sovrane d’Europa l’avrebbero invidiata,
ma.... — e qui aveva anche il coraggio di moralizzare — «ma la bellezza,
figliuola, è un fiore caduco....» e lo sapeva lei, la Mouchard, che aveva
sprecato, giovinetta, un tesoro di grazie ed ora se ne mordeva indarno le
labbra. Però ella sarebbe stata ancor felice nei suoi vecchi anni se avesse
potuto fare il bene d’una giovanetta.... «cara, simpatica come Stefanella.»
A queste parole Stefanella rispondeva facessero di lei quel che volevano e
che era pronta a tutto, perchè la vergine era così innocente e ignorante del
male, che non comprendeva nemmeno il valore del patto infame che le si
proponeva.... Alla sua risposta invece la Mouchard si sarebbe messa a
ballare di gioia; ma poi, quando metteva la Stefanella a contatto col
Norvegiano o in casa della Flaviani, o nelle partite di piacere che le due
donne combinavano, e la vedeva così fredda, così riservata, così pudica,
sicchè il Norvegiano stesso cominciava a infastidirsene, allora madama
Mouchard disperava affatto di poter riuscire nei suoi sforzi ed aveva perfino
la tentazione di rinunziare all’impresa.
A questo punto si pensò a far catechizzare Stefanella da un altro oratore e fu
chiamato il direttore dello stabilimento Maubert. Quando la giovinetta si
rivide in faccia quell’uomo terribile, il manigoldo dei suoi giovani anni, si
diede a tremare e a raggricchiarsi come una capinera all’apparire del falco e
una voce subitanea dentro al core la avvertì senza dirle nè il come, nè il
perchè che era perduta. L’aguzzino non usò reticenze, non si perdè in fiori
rettorici, non ebbe compassione nè dell’età, nè del pudore, nè dell’onore;
andò diritto allo scopo e chiamò tutte le cose col loro nome, tanto che ad un
certo punto anche madama Mouchard, persino madama Mouchard, abbassò
gli occhi. Stefanella invece gli spalancava in faccia all’oratore limpidi e
sereni perchè non capiva ancora. Ma dalla conclusione capì invece che le si
chiedeva qualcosa di terribile, qualcosa che non aveva mai fatto e che dovea
costarle la vita.
— Se non farai quello che madama Mouchard ti dice; se non farai quello
che vuole il signore Norvegiano hai visto il sotterraneo dove sei stata fino a
ieri? Ebbene, ce ne sarà uno ancora più nero. Ti ricordi le frustate del mio
scudiscio? Ce ne saranno di ancora più saporite. Ti rammenti quando
comparisti ignuda in mezzo a tutto il collegio?... ci sarà una vergogna
ancora più grande e il tuo pubblico potrà essere tutta Parigi.... A rivederci,
carina.
E con questa minaccia partì....
XVII.

Due giorni dopo questo discorso madama Mouchard, Stefanella, la falsa


baronessa, un falso conte, una falsa Creola e il vero Norvegiano si
trovarono insieme in uno dei gabinetti riservati d’una trattoria dei dintorni
di Parigi attorno a una lauta tavola della quale il Norvegiano stesso era
l’Anfitrione.
Era un banchetto dato in onore di Stefanella ed aveva voluto che fosse
splendido perchè, diceva quello Scandinavo Don Giovanni, doveva essere
l’ultimo. Ormai egli credeva d’aver sospirato abbastanza e non voleva
perdere altro tempo attorno ad una rocca che non dava alcun segno di
arrendersi.
Ma le due negoziatrici avevano tutto disposto perchè la vittoria non
sfuggisse. Prima loro cura fu di porre il Norvegiano fra due fuochi, tra
Stefanella che gli versava coll’innocente sua grazia il magico filtro
dell’amore, e la baronessa che gli mesceva con pensata prodigalità tutte le
fiamme artificiali dei vini e dei liquori più squisiti. Il resto della compagnia
intanto che faceva onore al pranzo col classico appetito di tali conviva,
aggiungeva i sovraeccitanti delle risate, delle scede e degli epigrammi e
finiva coll’ubbriaccare tre volte l’Anfitrione.
Tuttavia il signor Oscar era davvero un bevitore settentrionale e non si
lasciava domare così presto. Anche quando le sue gambe vacillavano, la sua
testa ragionava e il bastimento, sebbene male zavorrato, non aveva perduto
la bussola. Quindi egli cercò, si sforzò, quanto potè, d’essere galante,
seducente, spiritoso: lanciò anche dei motti a doppio senso, urtò persino
sotto la tavola il piedino della sua vicina, ma non osò mai alzare una mano,
nè sorpassare nemmeno colla parola, quella barriera, molto comoda del
resto, che il rispetto umano pareva avesse eretta anche in quel luogo, ma
che il pudore convenzionale di quella brigata gli avrebbe lasciato senza
alcuna protesta atterrare. Brillo com’era, padrone di tutto, despota dell’ora e
del luogo, pure qualche cosa lo conteneva ancora: lo conteneva quella forza,
che per tutt’altri sarebbe stato un incoraggiamento, l’ignoranza di
Stefanella.
Questa coll’eco sempre viva in cuore delle ultime parole dell’aguzzino si
forzava, fin dove la sua casta intelligenza poteva arrivare, di adempierne i
comandi, quindi ad ogni parola anche incomprensibile del Norvegiano
rispondeva con un sorriso e quando si sentiva toccare il piede, in luogo di
offendersene, lo ritirava dicendo al suo vicino:
— Scusi, le ho fatto male?
Ma più in là di questo e di qualche ingenua risata non sapeva arrivare. Però
il banchetto era finito e il Norvegiano ancora allo stesso punto di prima.
Il gabinetto dava sul giardino; il cielo era calmo e stellato e fu proposto di
fare un giro al fresco della notte. La proposta veniva dalle donne che
speravano trovarsi sole durante la passeggiata e consultarsi sul da fare.
Uscirono tutti in giardino. Il Norvegiano a braccio di Stefanella davanti; poi
a una buona distanza da non poter dare incomodo, la Baronessa e la
Istitutrice, ultimi in serrafila il Conte e la Creola.
Il Norvegiano avea slanciato l’ultima sua dichiarazione e mostrava a
Stefanella il palazzo incantato di delizie che egli le avrebbe aperto, se per
dir la sua frase, «voleva essere buona con lui».
— E non lo sono buona, sig. Oscar? — rispondeva la giovinetta con un
accento d’innocenza che sconcertava sempre più il mal destro corteggiatore.
Si sarebbe detto che qualcuno nell’ombra intendeva quel linguaggio più di
lui, giacchè quando ella ebbe pronunciate le ultime parole, la siepe di dalie
che fiancheggiava il viale s’era mossa come se una persona viva l’avesse a
un tratto animata.
Intanto la coppia che seguiva era sprofondata in un discorso del quale,
giunta che fu al punto della siepe che prima s’era mossa, uno che avesse
teso l’orecchio avrebbe potuto udir chiaramente queste parole:
— Non c’è altro rimedio che farla dormire con una buona dose d’hatschick
— diceva la finta baronessa.
— E voi credete alla virtù dell’hatschick?
— Lo credo perchè l’ho provato. Anch’io ho cominciato i miei amori a quel
modo.
All’ultima frase la siepe stormì come se un soffio di vento le fosse passato
in mezzo, e nell’istesso tempo una statua di Diana cacciatrice che
sormontava la siepe, sembrò animarsi nelle tenebre e trasformarsi nello
spettro d’un uomo.
Di tutta la comitiva però i soli che avevano notato quel rapido mistero erano
stati il sig. Oscar e Stefanella. Ma Stefanella lasciò passare un fremito più di
gioia che di paura e non disse niente. Il Norvegiano invece gridò:
— O che c’è un uomo in giardino?!
— Baje! ubbie! — gli fu risposto da tutte le parti; e siccome ognuno lo
credeva brillo, non si badò altro, e finito il giro, rientraron tutti insieme
nella trattoria.
Erano in casa da circa mezz’ora; il falso conte sparito ma «per tornare»,
aveva detto; il Norvegiano combatteva invano un duello a morte contro
Bacco e Morfeo, invincibili avversari quando sono alleati, e sonnecchiava,
quasi vinto, sopra una poltrona; le due vecchie aspettavano in silenzio
sedute l’una accanto all’altra, e Stefanella sola non poteva star ferma e
andava e veniva dalle finestre cercando giù nel giardino qualcuno o
qualcosa senza sapere nemmeno essa chi e perchè.
A un tratto la porta del salotto si spalanca e un uomo compare sulla soglia.
Le due femmine danno uno scatto, il Norvegiano spalanca anch’egli gli
occhi che già avevano perduta l’ultima prova, e Stefanella sola guarda,
sorride e irraggia.
L’uomo è un giovine forse non ancora ventenne. Ha il cappello in testa ma
si vede che è biondo; la mesta luce della lampada non permette di cogliere
subito il colore dei suoi occhi, ma il dolce sfavillio che ne emana avverte
che debbono essere azzurri: egli non ha per barba che due sfumatissime fila
d’oro sopra le labbra, ma un sorriso fiero e sdegnoso imprime a quel volto
quasi infantile un carattere d’energia e virilità che il primo aspetto
smentirebbe. È tutto vestito di nero, e giudicando a prima vista,
poveramente; ma un brillante che gli sfavilla in dito desta il dubbio che
quella povertà esteriore sia più un pensato artificio od una negligenza
volontaria anzichè una vera impotenza.
Egli aspettò a parlare forse un minuto, poi si rivolse a Stefanella e
cominciò:
— Vi tradiscono.... non avete ricevuto la mia lettera.... non l’avete letta?
No?.... Oh me disgraziato! Ma io non vi ho abbandonata lo stesso.... e sono
qui per salvarvi.... Stanotte vi avrebbero perduta.... vi volevano avvelenare,
ma di un veleno che fa peggio che uccidere il corpo, che uccide l’anima e la
seppellisce in una fossa di disonore.... Voi non avete altro scampo che
fuggire con me... Io vi proteggerò.... venite Stefanella.
Ma intanto che egli allungava la mano per pigliare la fanciulla che già
volava a lui con tutta l’anima sua, le due donne balzarono dallo scanno
come due chiocciole inviperite, e il Norvegiano stesso, desto finalmente da
quella scossa, si rizzò di fronte al giovane urlandogli un «Indietro» così
stentoreo che tutto il giardino sottoposto ne echeggiò.
— Non posso dare addietro — rispose con voce calma e sottile il giovane.
Si tratta di un dovere, e voi potreste farmi a pezzi, ma io non potrei
rinunciarvi.
— Questa fanciulla è nostra, strillò madama Mouchard. — Che c’entrate
voi?
— È nostra, replicò la baronessa.
— Questa fanciulla non è vostra nè sua, rispose freddamente il giovane,
indicando il Norvegiano. Se fosse vostra non la vendereste con un delitto;
se fosse sua non la vorrebbe comperare a questo prezzo. Io non so bene chi
sia costei, ma essa non è qui di nessuno fuorchè mia, perchè io solo qui
l’amo. Se non l’amassi, essa mi apparterrebbe come ogni vittima appartiene
al suo salvatore. Ed ora non mi resta altro a chiedervi, o signore, se non che
vogliate agire da gentiluomo.
— Non ti capisco, rispose il Norvegiano, e spero che oramai sbarazzerai la
porta se non preferisci andartene per la finestra.
— Io non me n’andrò che con essa, ma mi spiego. Se voi volete questa
fanciulla per amore, essa vi ha già risposto; se la volete per forza, ecco
come l’avrete. Queste due donne in questa notte stessa, fra poco forse,
propineranno in un confetto, in un bicchier d’acqua, in qualche cosa
d’innocente insomma, uno di quei narcotici che inebbriano i sensi,
prostrano la volontà, e trasformano ogni cosa reale in un sogno morboso e
bugiardo. Il narcotico si chiama credo hatschick ed è molto usato a Parigi.
Questa fanciulla, quando l’avrà ingollato, quando non sarà più lei, potrà
essere vostra: la volete così?
Il Norvegiano aveva ascoltato attentamente, e mano mano che capiva,
sbarrava gli occhi, gli rotava dalle donne al giovane, dal giovane a
Stefanella, non potendo nè credere, nè inorridire, nè adirarsi, nè quasi più
fiatare.
— È pazzo! gridò la Mouchard.
— È un mascalzone! replicò la baronessa.
— Zitto voi altre, urlò il Norvegiano. — Io voglio una prova, e guai a lui se
non me la darà, ma guai a voi se me l’avrà data.
— Una prova? — rispose colla solita calma, il giovane. Udite il rumore di
questa carrozza che arriva? Essa ve la porta.
Infatti la carrozza che aveva portato il conte a Parigi, rientrava in quel
momento nel cortile della locanda.
— Voi non avete, continuò il difensore di Stefanella, che a proibire a queste
due donne di uscire o di parlare coll’uomo che sta per entrare qui dentro, e
quando sia entrato chiedergli che vi consegni quello che ha portato da
Parigi.
— Va bene — rispose il Norvegiano dopo un momento di pausa. — Voi
altre sedete lì, e non movete un sopraciglio; e voi, signore, non temete:
anche in Norvegia vi sono dei gentiluomini.
In quel momento il falso conte s’affacciava alla porta della sala.
— Avanti, caro conte, lo apostrofò il Norvegiano appena lo vide. Potete
gettare quello che avete portato, con voi, giacchè non occorre più. L’amore
ha vinto, e l’hatschick non occorre più, non è vero, Stefanella?
— Rispondi che è vero, le sussurrò di sfuggita il giovane che le stava
dappresso.
Stefanella non aveva mai mentito, ma tant’era immedesimata in quell’uomo
che ormai egli le teneva luogo di coscienza, e le pareva che persino la
menzogna suggerita dalle di lui labbra si trasformasse in verità. L’amore è
una identificazione d’anime, e ciò che è bello, buono, orrido, malvagio per
una, lo è per l’altra.
Due amanti vivono come due pianeti in un elisse: i fuochi sono doppi, ma la
luce è una sola. Però Stefanella, quasi l’anima stessa dell’altro parlasse per
lei, rispose:
— È vero.
Il conte che non era d’altra parte informato di tutto l’intrigo, credette a
quest’affermazione dell’innocenza, e cavò di tasca una scatoletta dorata che
conteneva sotto forma di seducentissime giuggiole il magico filtro.
Il Norvegiano gliela strappò di mano, l’aperse, guardò, s’accertò, e
voltandosi umiliato al giovine sconosciuto, disse:
— Avevate ragione, o signore. Vedete però che io non sono guasto del tutto.
Cercava i piaceri, e poichè v’erano coloro che li vendevano, io non esitava a
comperarli. Più in là la mia coscienza settentrionale non può arrivare. In
mezzo ai nostri ghiacci veggo che tutto non putridisce. Vi saluto. Questa
giovinetta è degna di voi, ma portatela lontano da Parigi. Qui gli agguati
sono troppi. Addio, Stefanella. Io fui brutale con voi, ma se aveste potuto
amarmi, son certo che m’avreste fatto un angelo. Quanto a voi, femmine,
non ho che un avvertimento. Vado a denunziarvi alla polizia, e a meno che
la polizia non appartenga alla vostra associazione, spero che domani vi
troverà un posto in galera. E detto ciò, il Norvegiano uscì dalla sala, e si
fece ricondurre a gran trotto a Parigi, e nell’orizzonte di questa storia non
ricomparve mai più.
Era un uomo, come ce ne sono migliaia: molto largo di morale, molto
scettico di fede, ma incapace di una viltà. Giovinetto, sua madre gli aveva
deposto ogni giorno nel cuore una parola di virtù; e dovunque andasse
anche in mezzo ai delirii dell’orgia, egli ne sentì per tutta la vita l’acre
ricordanza. Egli portava seco un sale che gl’impediva di corrompersi,
sebbene non avesse in sè stesso tanta forza per redimersi.
XVIII.

I due giovani uscirono subito dopo dietro a lui e presero anch’essi, ma a


piedi, la strada di Parigi. Gli altri tre restarono nella sala muti, immobili,
impietriti quasi nel posto dove il Norvegiano li avea lasciati; e ci volle
molto tempo prima che potessero ricapitolare le idee e proferire una parola.
Noi li lascieremo e vedremo più tardi quel che di nuovo avea partorito
quella triade nefanda.
Appena nella strada, il giovine disse alla sua compagna:
— Vi chiamate dunque Stefanella, è vero?
— Sì, rispose la fanciulla. Ma voi come vi chiamate?
— Gabriele, rispose questi.
— Gabriele! Gabriele? fece la fanciulla, accentuando bene, tanto
l’interrogazione che l’esclamazione, quasi che quel nome contenesse il
responso del suo avvenire.
Non dimentichiamo che entrambi aveano scambiato da quattro mesi le
anime loro senza nemmeno conoscersi per nome. Essa per lui era Psiche, un
nome della sua fantasia; egli per lei era l’ideale, un raggio del suo paradiso.
Però la scoperta dei loro nomi diveniva qualcosa di più della rivelazione di
un ignoto. Era un avvenimento decisivo, un fatto solenne, una crisi, un
patto, uno sposalizio, un amplesso dato colla stessa tenerezza con cui gli
sposi romani proferivano l’ego gaius et ego gaia sulla soglia della dimora
coniugale.
E fortificati da questa nuova promessa, infilarono lo stradone di Parigi colle
mani allacciate, gli occhi nelle stelle, il cuore sopito in una placida estasi, e
l’anima tutta piena di inni d’amore.
Giunti alla barriera, Gabriele s’arrestò ad un tratto, come côlto da un
pensiero inaspettato, e voltosi alla compagna, le disse:
— Sai, Stefanella, che io non saprei dove condurti stanotte?
— Ebbene, restiamo qui, rispose tranquillamente la fanciulla.
— No, cara; è meglio che arriviamo fin dentro Parigi.
— Andiamo, soggiunse colla stessa docilità Stefanella.
— Forse troveremo, riprese Gabriele, incamminandosi, uno dei miei amici,
uno studente di matematica, un bravo giovine che ha un quartierino di due
stanze, e ce ne faremo prestare una per stanotte, ma bisogna che
camminiamo, perchè se non lo troviamo al suo caffè, non ci sarà più modo
d’averlo.
— Corriamo, fece Stefanella; e i due amanti si cacciarono a passi affrettati
nel dedalo delle strade di Parigi, e giunsero in poco meno d’un’ora nel
centro del Quartiere latino dove avevano contato incontrare il loro ospite.
Ma tutta quella corsa fu vana. Lo studente di matematica non si era fatto
vedere nel caffè, e nessuno sapeva dove fosse.
I due fuggiaschi, la legge li avrebbe domani chiamati così, erano soli nella
notte in mezzo a Parigi, in mezzo al deserto.
— Che fare, Stefanella? diceva Gabriele, torcendosi le dita per dolore.
— Sediamoci là, rispose la fanciulla, indicando i gradini della chiesa di S.
Sulpizio. Ci ho passato tante notti su quei gradini col mio Carluccio; vi
passerò anche questa. Non vi sarà Carluccio, ma ci sarai te.
E come ella suggerì, fecero; e i primi chiarori dell’alba cominciavano a
biancheggiare attraverso i tetti di Parigi, che quei due proscritti dell’amore
erano ancora là seduti sopra la pietra che avevano scelto per letto della loro
prima notte nuziale.
Come l’aveano passata quella notte? Cosa si erano detti in quelle lunghe
ore?
S’erano raccontati la loro storia, Stefanella la sua, che noi già conosciamo;
la sua anche Gabriele che abbiamo appena intraveduta, e della quale è ben
tempo che alziamo i veli.
XIX.

Gabriele credeva di esser figlio di un antico magistrato deposto


ingiustamente dalla Repubblica di febbraio per le sue idee bonapartiste, e
dopo il due dicembre salito in fortuna dietro il carro dell’imperiale
vincitore. Però egli confessava di non conoscere bene la storia della sua
famiglia essendo vissuto sino al 1851 in un collegio di provincia da dove
non uscì che a 17 anni per venire a compiere il suo corso di matematiche
alla facoltà di Parigi.
Non avea più madre: avea una matrigna che non l’amava, nè l’odiava
nemmeno del classico odio delle noverche, perchè di passioni, d’amore
come d’odio, era incapace. Venuta dal trivio e assunta per merito di una
facile bellezza ad un matrimonio fortunato non pensava che ai piaceri e agli
sfoggi della vita elegante, e non avea cuore nè per il marito, nè per il
figliastro, nè per la casa, nè per lo stesso figliuolo suo che avea confidato ad
una balia lontana, e rivedeva appena una volta all’anno, tanto per fare una
trottata in carrozza al rifiorire della campagna.
Pertanto tutta la giovinezza di Gabriele trascorse in uno squallido inverno,
non riscaldata mai da alcun calore di affetti, condannata a intravedere
soltanto attraverso i libri e i sogni della fantasia senza mai conoscerla quella
vita feconda del cuore che nella natura inanimata si chiama «sole» e nella
animata «amore», senza della quale il fiore come l’uomo non sbuccia, od è
l’erba parassita di una sepoltura che la produce e la riattende. A 19 anni
però il bisogno di questa vita sospettata, desiderata e non mai posseduta, era
fatto prepotente in lui come in un’aquila prigioniera l’istinto di volare verso
il sole, e non vi fu segreto di amori umani ch’egli non tentasse e non
penetrasse per un istante.
Interrogò con febbrile vicenda i libri, la scienza, l’arte, la religione, Dio,
tutto quanto di più bello e di più alto parla allo spirito dell’uomo in cielo ed
in terra, ma in tutti trovò una seduzione, un conforto, una promessa,
un’illusione; in nessuno quella risurrezione dell’anima, quella seconda
giovinezza per la quale Fausto, meno grande, ma più vero, si struggeva. Ma
nell’ora più disperata della sua ricerca, e quando stava per abbandonarsi
vinto al genio dello scetticismo che l’aspettava nell’ombra, incontrò
Stefanella.
L’incontrò a caso per la via sotto una semplice veste azzurrina,
accompagnata da una donna ignota e sinistra, come talvolta un fiore di
campo s’accompagna ad una pallida ginestra e non potè più staccarsi da lei.
Era la prima volta in vita sua che provava il bisogno di seguitare una
fanciulla, e ne ebbe dapprincipio vergogna; ma qualche cosa di più forte lo
traeva malgrado suo, e gli sussurrava nella coscienza che l’amore ha una
morale tutta sua, divina di certo, come le altre, ma che si chiama la
«fatalità».
Così scoprì dove stava di casa, così capì o credette capire che doveva essere
una pensionante della signora Mouchard, e non seppe per molto tempo di
più. Ignorava il nome e la condizione, la storia, per molto tempo insino la
voce, ma suppliva colla fantasia.
Per il nome abbiamo già veduto che gliel’avea trovato; per la condizione
dovea essere per forza l’orfana di un colonnello o di un generale morto in
battaglia; la storia poi non dovea essere gioconda, ma ragione di più per
tesservi sopra un poema. E quanto alla voce, dopo averla chiamata Psiche,
le era facile farla parlare sull’arpa degli angeli. Ma poi a che pro tutti questi
particolari: essa era il raggio da lui cercato, nè del pianeta da cui veniva, nè
della strada che avea percorsa per arrivare a lui, gli doveva importare.
L’anima sua, dopo la tenebra di venti anni, ne era tutta irradiata e
perpetuamente, ed egli dovea adorare, senza cercare di più, il divino mistero
al quale era per la prima volta iniziato.
Solamente egli non poteva più allontanarsi da quella contrada, nè staccarsi
da quella casa. Quando qualche cosa di più forte della volontà lo trascinava
lontano, il suo spirito era là di stazione davanti alle persiane verdi, e ci
vedeva attraverso meglio ancora dell’occhio. Inoltre egli avea un’altra cura.
Stefanella, abbiamo detto, era costretta dalla industria di Madama
Mouchard ad uscir molto; e Gabriele si sarebbe ammalato se avesse perduta
una sola delle passeggiate della sua incognita. Essere dev’era lei: ecco il
problema. Egli non andava quasi mai al teatro, e non andava più in chiesa,
molto più sfuggiva il turbinio polveroso de’ pubblici passeggi. Ma dacchè
Cherubina frequentava quei luoghi, il trovarvisi era per lui un dovere assai
più grande, assai più imperioso di quello di un soldato per il suo posto di
combattimento.
O dalla finestra, o traverso le persiane, o dall’angolo oscuro d’una navata, o
dietro le colonne d’una platea co’ soli occhi i due ignoti si dicevano quanto
bastava per intendersi. Se il giovine era fedele nella strada, l’altra era
infallibile al balcone; se Gabriele non mancava mai al suo posto dietro i
pilastri della chiesa, Stefanella non tralasciava mai di cercarvelo, e quando i
loro sguardi s’erano incontrati tutto era detto. Si sarebbe potuto scrivere un
canzoniere su quelle occhiate, ma non sarebbe bastato. Il vero, l’alto amore
è silenzioso. Egli cova le sue espressioni per anni ed anni, e quando
finalmente è costretto a parlare, si cruccia sentendo che una parte del suo
ideale è svanito traverso le imperfezioni del linguaggio umano.
Così dopo due mesi di questa vita avvenne l’incontro sulla porta della
chiesa di San Filippo che abbiamo narrato.
Fu l’ora solenne della loro vita, e sebbene anche in quel ritrovo non
avessero parlato che gli occhi, tuttavia non ci fu cosa pensata da un’anima
che l’altra anima non sentisse.
Poche sere dopo Stefanella fece la sua prima comparsa al ballo della
baronessa. Gabriele aveva veduto fermarsi una carrozza di piazza davanti
alla porta del collegio e di più udito il cocchiere dire al portinaio:
— Avvertite la signora Mouchard che il fiacre è alla porta.
Questo bastò per renderlo certo che anche Stefanella sarebbe partita tra
poco con quella carrozza e volle mettersi in grado di seguitarla. Corse alla
piazza vicina che era in capo alla contrada e vi fissò un’altra carrozza,
dicendo al cocchiere:
— Seguirai il legno che vedi fermo alla sinistra della via; doppia mancia se
non lo perderai.
A Parigi queste cose accadono ogni momento e non fanno meraviglia; però
il vetturale di Gabriele si contentò di rispondere un «sarà fatto» e brandì la
sua frusta pronto a lanciare al galoppo il suo ronzinante al primo segnale.
E infatti di lì a poco il legno di madama Mouchard si mosse e Gabriele
dietro col suo. Ma ivi gli fu forza arrestarsi. Egli non era invitato e non
poteva salire.... Poteva per altro restare in istrada finchè Stefanella ne fosse
ridiscesa. Si trattava di aspettare al freddo quattro o cinque ore, ma chi ha
amato sa che queste prove d’eroismo sono una delle voluttà dell’amore. Per
fortuna c’era poco lontano un botteghino, di quelli che i Parigini chiamano
cabarets ed almeno la prima metà della notte avrebbe potuto passarla al
coperto. Quanto all’altra metà non aveva che a solcare la via da un capo
all’altro, ma non se ne spaventava. Ne avea fatte tante di quelle ronde, che
ormai gli pareva non ci fosse altro modo di far all’amore! Finalmente verso
le tre dopo mezzanotte la signora Mouchard e Stefanella discesero, ma
Gabriele non aveva più carrozza per seguirle e gli fu mestieri lasciarle andar
sole.
Tutta la notte restante e il mattino vegnente egli non fu in preda che ad un
tormento: sapere di chi era quella casa e vedere se gli era possibile di
esservi introdotto.
La prima notizia l’ebbe dal caffè stesso dove s’era ricoverato, il secondo
passo lo fece dal portinaio, il terzo dagli amici studenti, il quarto dalle
amiche degli amici e così via, d’orma in orma, arrivò a scoprire la verità.
Quando gli fu detto, e ne fu ben certo, che quella baronessa era
un’avventuriera, la quale non ricettava che gente bastarda per tenebrose
imprese, credette cascar morto. D’un tratto aveva misurato tutto l’abisso in
cui Stefanella aveva inoltrato il piede e il suo atterrimento fu pari al suo
amore. D’altronde, nello scoprire chi era la baronessa, aveva scoperta la
storia di madama Mouchard e dapprincipio non gli pareva possibile lottare
contro quella lega infernale.
In mezzo però al suo spavento l’idea che, ad altri men puro e meno amante
di lui sarebbe venuta, che Stefanella potesse essere complice volontaria di
quella rea congrega, non gli passò per la mente nemmeno in ombra; egli
avrebbe giurato per l’innocenza di Stefanella, quand’anche l’avesse veduta
legata ad un palo d’infamia. Egli tremava per una vittima, non per un
tradimento. Pure, superata la prima scossa, egli non ebbe altro pensiero che
quello di avvertire Stefanella del pericolo in cui si trovava esposta e di
salvarla ad ogni costo. Ma come fare?... Parlarle non poteva, penetrare a
forza nella casa era un partito disperato, buono tutt’al più quando ogni altra
via di salvezza fosse chiusa.... E allora?... Scriverle? ma anche questo era
più facile a pensarsi che ad eseguirsi, perocchè egli allora non sapeva
nemmeno il nome della fanciulla ed era inoltre più che certo che tutte le
lettere, a lei comunque dirette, sarebbero state intercettate.... Come fare
adunque?..
Nelle fugacissime apparizioni che Stefanella, sfuggendo al divieto della sua
carceriera, faceva alle persiane, Gabriele si provò a gettarle sul balcone
delle pallottoline di carta nelle quali poche e minutissime linee la
avvertivano del pericolo e la pregavano a mettersi in salvo con lui. — E
Stefanella pigliava bensì al volo le pallottoline e si andava a nascondere
nell’angolo più remoto della casa per svolgerle; ma quando le avea svolte e
vedeva quella misteriosa cosa che le avevano detto chiamarsi «scrittura,» la
poverina si lasciava andare sopra una seggiola e non aveva altra risposta
che un dirottissimo pianto.
Gabriele ignorava ancora che Stefanella non sapesse leggere. Ma così era.
Per lei come per tutte le miserabili sue pari l’ignoranza era condizione
necessaria del servaggio a cui erano condannate, e il carcere del corpo si
chiudeva nella più fitta notte dello spirito. Nessuno degli orrendi legislatori
della società a cui Stefanella apparteneva ignorava che al primo raggio che
fosse piovuto ad illuminare la via di abbiezione sulla quale la innocente era
incamminata, essa a costo di restarne sfracellata sarebbe retroceduta.
I bigliettini erano dunque inutili, il parlarsi impossibile: e Stefanella era
abbandonata, sola, inconsapevole, al suo destino, e Gabriele era disperato.
Tuttavia egli non poteva finchè aveva fiato tralasciar di combattere, e
poichè ogni altro mezzo di protezione gli era intercetto, si propose di
montare una guardia ancora più assidua sotto le sue finestre e d’aspettare gli
eventi, deciso al primo allarme ad uscir dallo ignoto ed a dare per la
salvezza del suo amore tutto il suo sangue.
Così andò per circa una settimana, senza che Gabriele perdesse mai
d’occhio la sua protetta. La vigilia del giorno in cui Stefanella doveva
andare col Norvegiano a pranzare in campagna, Gabriele notò un gran
viavai nella casa di madama Mouchard. La baronessa, il falso conte, lacchè
e vetture non finivano mai di andare e venire da quella porta e il giovane
s’accorse che qualcosa di nuovo s’apprestava. Laonde raddoppiò di
vigilanza, e impostata la solita carrozza, si tenne pronto. Infatti, verso le tre
del giorno dopo, vide arrivar in faccia alla casa le vetture degli amici che
venivano a prendere Stefanella per condurla alla festa, e appena il corteo si
mosse, egli vi si cacciò dietro e non lo perdette più. Arrivato alla locanda
poco dopo di loro si fece dare il gabinetto vicino a quello occupato dai
commensali del Norvegiano, e udì di là tutto il baccano del banchetto.
Ma non potè capir nulla di chiaro che riguardasse Stefanella, laonde quando
intese che la comitiva si apprestava a scendere in giardino, la prevenne e
corse a nascondersi nel cantuccio più selvoso colla speranza che finalmente
qualche parola, che sarebbe ad alcuno sfuggita, lo mettesse sulla traccia di
tutta la trama. E così fu; così egli udì al coperto d’un cespo di dalie il
dialogo della Mouchard colla baronessa, e di là Stefanella lo riconobbe e lo
vide fuggire attraverso l’ombra degli alberi e sparire nella casa.
Il resto è noto e basterà soggiungere che egli entrando aveva messo a parte
dei suoi sospetti il padrone della locanda il quale, assicurato che tutto
sarebbe stato appuntino pagato, promise non solo chiudere un occhio, ma
dare, occorrendo, una mano alla giustizia.
XX.

A noi per altro resta a chiarire un punto oscuro del racconto di Gabriele sul
quale egli stesso, per mancanza di esatte cognizioni, fu costretto a scivolare.
Gabriele aveva idee molto confuse sui primordi della vita e le origini della
fortuna di suo padre, perchè nè questi, nè altri di sua famiglia, per le ragioni
che or ora vedremo, o non gliene aveva mai parlato o l’aveva fatto
imbrogliatamente, onde il giovane anzichè capirne qualche cosa, s’era
sempre più smarrito nelle ipotesi e ridotto a riguardare la storia di casa sua
come una specie di problema mitologico perduto nelle nebbie di un’epoca
preistorica.
Inoltre Gabriele era stato avvezzo fin da fanciullo a temere suo padre, e
questo timore, rinterzato anche da quel tanto di rispetto e di stima che senza
essere straordinari, egli sentiva per esso, finiva col togliergli la voglia e il
bisogno di frugare più addentro nelle polveri della cronaca domestica, pago
che quel che appariva e si vedeva avesse le sembianze di decoroso e
d’onesto.
Ma se galantuomo era il frontespizio, galeotto era il libro e noi ne
leggeremo in fretta alcune pagine.
Il padre di Gabriele, il signor Mauvue non era altri che quel commissario di
polizia di Luigi Filippo destituito per legittimista dalla rivoluzione del
quarantotto, agente segreto del principe pretendente nel 1851 ed a cui
l’associazione dei Petits italiens avea fatto l’onore di sceglierlo per suo
presidente. Era uno dei cittadini della Parigi sotterranea. Nel 1830 il popolo
vincitore lo avea sorpreso nell’atto che nascondeva sotto la sua giubba tutta
infiorata di coccarde a tricolori, uno scrigno rubato alla Tuileries, e l’aveva
cacciato in prigione. Ma si sa che nelle prigioni delle rivoluzioni non ci si
sta a lungo: o se ne esce per il patibolo, o se ne esce per la libertà: non c’è
via di mezzo. Il popolo nelle sue passioni è cieco come il destino. Se monta
in ira, uccide senza contare; se l’infiamma la generosità, libera senza
guardare. Nel 93 Mauvue sarebbe stato ghigliottinato: nel 1830 fu dopo 15
giorni liberato. Quei 15 giorni anzi gli fruttarono. Il carcere è un istituto di
perfezionamento per chi ha preso la carriera del delitto. E si fu nel carcere
che, ascoltando senza parlare, i discorsi dei suoi camerati, rifiuto delle
barricate come lui, aveva potuto scoprire il bandolo d’una associazione
segreta di repubblicani puri dei quali si fisse nella memoria i nomi, certo
che ben presto qualche partito o pro o contro avrebbe potuto cavarne. Infatti
Filippo Egalité era appena proclamato re dei francesi che Mauvue era già
dal prefetto di polizia a consegnargli il suo primo rapporto sui repubblicani.
Il prefetto lo ringraziò e prese il delatore al suo servizio segreto,
promettendogli, dopo qualche anno di servizio, un posto nella polizia
pubblica. E difatti, la prova essendo stata soddisfacente, due anni dopo
Mauvue era sottocommissario e, in capo ad altri sei, commissario di prima
classe, addetto al gabinetto del signor Gisquet. Ma ambizioso, intollerante
della mediocrità, avido di subita fortuna, il posto da lui «guadagnato con
tanto sudore,» siccome diceva, gli pareva poco e aspirava più in alto: voleva
addirittura un ispettorato. Ma il signor Gisquet da qualche tempo s’era
messo in diffidenza; quell’uomo non gli piaceva; il suo zelo era falso; la sua
devozione studiata; egli presentiva in lui un infedele, e invece di
promuoverlo lo allontanò persino dal suo gabinetto. Allora i pensieri di
vendetta di Mauvue non ebbero più tregua e confine, e si diede addirittura a
vendere i segreti del governo di Luigi Filippo ai partigiani di Enrico V.
Scoperta la congiura della duchessa di Berry, egli ebbe un giorno di mortale
angoscia, giacchè molte carte, che essa aveva, lo potevano compromettere e
gettare senz’altro in una galera per tutta la vita. Fortuna volle che allora non
si scoperse nulla; Maria di Berry, se non per cautela almeno per fierezza,
distruggeva tutti i rapporti dello spione orleanista, perocchè essa non
avrebbe mai voluto profanare, colla sordida miscela delle sue lettere, un
epistolario al quale le penne più aristocratiche di Francia e di Europa
avevano cooperato.
L’arresto della Berry però fece nella borsa e nell’ambizione del
commissario una larga ferita, e da allora, per una lunga serie di anni, fu
costretto a trascinarsi oscuro e miserabile, spiando indarno l’occasione
d’una rivincita, rodendosi e bestemmiando e non avendo più altra speranza
che in uno sconvolgimento d’acque che lo gettasse a galla assieme al resto
della feccia sociale giacente nel fondo. Venne infatti il 1848, ma per lui,
come per il governo che serviva, la rivoluzione fu una sorpresa ed entrambi
pagarono il fio della loro cieca incredulità.
Quando Mauvue si destò, quand’ebbe fatta la sua scelta e compiuto il suo
piano, la rivoluzione aveva già trionfato senza che egli avesse potuto
distinguersi nè a favore dei vinti, nè dei vincitori, nè di sè stesso. Era una
occasione fallita.
— Avrei almeno potuto aiutar la fuga, diceva a sè stesso, o.... se non altro
l’arresto di Luigi Filippo, o invadere alla testa del popolo il Lussemburgo....
ma no!... nemmeno accompagnare quel buon uomo di Lamartine al palazzo
di città.... Tutto m’ha tradito.... a rimettersi!... forse ci sarà una restaurazione
da aiutare.
La repubblica non gliene lasciò il tempo. Negli archivi del signor Gisquet fu
trovato un fascio di rapporti contro il signor Mauvue; l’affare della
duchessa di Berry spuntò ancora assieme ad alcune nuove rivelazioni
aggravanti; la condotta del commissario fu sorvegliata e parve sospetta e la
repubblica pensò sbarazzarsene e lo depose.
Mauvue protestò, strepitò, fece del fracasso sui giornali, attaccò i soddisfatti
della repubblica aristocratica, coi principii dell’89 e coi terrori del 93,
inventò per conto suo tutte le più strane applicazioni del diritto al lavoro e
chiese perfino il patrocinio delle teorie di Cabet e di Leroux, ma nessuno
s’infiammò o s’impietosì per lui e gli fu forza darsi per vinto. Si fu allora
che egli discese gli ultimi gradini sociali e che si trovò in contatto colle
ultime prolificazioni del canagliaio parigino, dai falsi monetari fino alla
associazione dei Petits italiens.
Se però il febbraio 1848 lo côlse sprovvisto, non così le giornale di giugno
1849. Egli odorò da lontano il vento della tempesta e si tenne pronto a
manovrare. Assumere per conto del partito bonapartista, il quale sperava
scivolare per il sangue di una sommossa sulla via del potere, la parte
d’agente provocatore; mescolarsi al fiotto dei rivoltosi a discreta distanza,
s’intende, dalle fucilate, e ingraziarsi il socialismo, tener nota dei caporioni
della sommossa per denunciarli la mattina dopo alla polizia, e passare fra i
salvatori dell’ordine e della repubblica, ecco le tre parti in una che Mauvue
aveva studiato nelle tre giornate di giugno e nelle quali riuscì
completamente. I socialisti lo proclamarono benemerito, la polizia si risolse
a scrivere a Cavaignac per la sua riammissione e i bonapartisti lo
arruolarono addirittura nelle loro fila.
Il principe Napoleone aveva troppo bisogno d’una polizia segreta e
personale perchè uomini come Mauvue non lo potessero servire. Tuttavia, o
perchè troppo volgare, o perchè troppo nuovo, l’ex commissario non potè
avere altri rapporti colla politica dell’Eliseo fuorchè coi suoi agenti
secondari e tutta la sua ingerenza si fermò nei primi anni alle anticamere.
Fu in quest’epoca che, allettato dal sicuro e lento guadagno e pensando
farsene stromento di più vaste operazioni, egli accettò la carica di
presidente della associazione dei Petits italiens. L’associazione contava nel
1850 nella sola Parigi circa 1000 fanciulli i quali in media davano un
introito di 4000 franchi al giorno cioè un milione, quattrocentottanta mila
franchi all’anno, dai quali, detratto il frutto del capitale impiegato, le spese
di manutenzione e d’amministrazione e la quota spettante agli altri membri
dell’associazione, restava al presidente un netto di centomila franchi
all’anno. Era un’egregia pecunia e Mauvue sapeva che vent’anni di
spionaggio non gli avrebbero dato altrettanto. A ciò si aggiunga il salario
che gli veniva pagato sul bilancio segreto dell’Eliseo e si vedrà che Mauvue
verso la fine del 1851 era un signore.
XXI.

L’ora del colpo di Stato si affrettava a gran passi, e se tutta Parigi la sentiva
nell’aria, Mauvue ne era certo.
Infatti pochi giorni prima il suo capo d’ufficio, chiamatolo in gran
segretezza, gli aveva tenuto questo discorso:
— Si vanno spargendo per Parigi voci assurde di violazioni della
Costituzione, di colpi di Stato ed altre ree congiure. Codeste sono
menzogne dei nemici della repubblica e del principe presidente. Ella da
oggi in poi non ha altro incarico che smentire in pubblico ed in privato
siffatte voci calunniose. Entri nei luoghi più frequentati, si mescoli a tutti i
crocchi, e quando ode parlare di colpi di Stato, sbugiardi e ricordi la lealtà
del presidente, la forza della repubblica, l’onore dell’esercito,
l’immancabile vendetta del popolo.... Dica tutto quello che sa e che vuole....
purchè dica che non è vero... come non lo è. Soltanto le raccomando a notar
bene le risposte e i commenti che il pubblico fa al suo discorso ed a
riferirmeli senza ritardo.
Ognuno capirà che ce n’era anche di troppo per far capire a Mauvue,
avvezzo da lungo tempo alle doppiezze del frasario poliziesco, che il colpo
di Stato era non solo certo, ma imminente.
— Se io devo dire di no, io che non ho altra parte che mentire, pensava
almanaccando sul discorso udito, è segno che è di sì; e l’argomento per
quella coscienza era achilleo.
Noi non diremo tutti i servigi che ei rese nelle giornate del 2, 3 e 4
dicembre; basti che egli, incaricato di spargere i manifesti del presidente
che annunziavano il progetto di Costituzione, si era disimpegnato a
meraviglia della sua missione, mercè l’aiuto dei petits italiens che egli
aveva fatto disseminare per tutta Parigi, coi fasci del proclama cesareo e
coll’ordine di gridare ai quattro venti il grande avvenimento.
Ma il capo-lavoro della sua carriera fu la propaganda per la proclamazione
dell’impero. Egli era stato mandato nei dipartimenti e vi si coperse di
gloria. Il suffragio universale s’inchinava davanti a questo Dulcamara
dell’impero che percorreva la Francia col treno d’un principe e spacciava
per tutti i desiderii una promessa, per tutte le avidità una soddisfazione, per
tutte le malattie uno specifico, per tutti gli scrupoli un cataplasma: oro e
ciondoli, cariche e riforme, chiese e teatri, strade ed ospizi, e poneva tutti i
miracoli di Cagliostro al servizio di un’idea.
Però quando i 7,800,000 voti furono incassati e la vittoria fu certa, la
gratitudine dei vincitori non ebbe più condizioni nè riserve per un così
portentoso agente e fu detto a Mauvue che era padrone di domandare.
— Volete impieghi o volete oro? gli fu chiesto....
— Voglio mezzo milione e il diritto di cambiar nome, — rispose secco
Mauvue.
Quanto al nome non si fiatò nemmeno: tutti lo cambiarono in quell’epoca; il
colpo di Stato non fu che un ribattezzamento generale dal quale era naturale
che il plebeo volesse risorgere nobile e il nobile duca, come il principe era
risorto imperatore. Però Mauvue s’accontentò rinascere De.... e, interciso
l’u dell’ultima sillaba, si fece chiamare De-Mauve.
Chi avrebbe mai riconosciuto nella sua nuova carta di visita sormontata da
tanto di corona baronale l’antico poliziotto Mauvue?!
Quanto al mezzo milione si tirò di prezzo: i servizi del signor De-Mauve
erano grandi; ma molti avevano gareggiato con lui e chiedevano meno. Se
si avesse dovuto pagare tutti in proporzione, che cosa si sarebbe dato ai
caporioni? Le polpe della Francia intera non sarebbero bastate. De-Mauve
dovette accontentarsi di trecento mila franchi in oro che egli corse subito a
convertire in consolidati inglesi, tanta era la fede che aveva nell’impero da
lui creato!
Allora De-Mauve, quasi ricco, giacchè bisogna contargli anche il danaro
«che s’era messo da parte», diceva lui, rubato, diremo noi, durante la sua
propaganda, avrebbe voluto liberarsi dell’associazione dei Petits italiens,
turpe catena che lo teneva confitto, egli nobile e oramai riabilitato, alle
Gemonie del mondezzaio sociale e non gli permetteva mai di camminare a
testa alta nella società di galantuomini e gentiluomini alla quale aveva, con
tutte le forze ond’era capace, agognato. Ma distruggere il passato è l’atto
più difficile della vita. Il passato non perdona, il passato è implacabile e,
quando credete averlo addormentato, egli risorge più minaccioso che mai,
ed è capace di chiedervi per un’ora d’oblìo e di riposo tutto quanto avrete
guadagnato con una vita intera di sudori e di lotte.
Ora De-Mauve non era uomo da mettere a repentaglio tante cose, per una
vanità, uno scrupolo, un pericolo lontano, e poichè in Francia tornava in
onore il vecchio proverbio: «Il y’a toujours des accomodements avec le
ciel» egli cercava applicarlo al caso suo e studiava silenziosamente il modo
di cavarsela amichevolmente dai Petits italiens senza guastarsi, e poichè
non avea potuto strozzare il suo passato, renderselo amico. Ma
l’associazione era tenace e non voleva lasciare la sua preda. Essa aveva
subito veduto quale preziosa salvaguardia fosse per lei il patronato di un
uomo che apparteneva ormai alla nobiltà dell’impero, e stretto da tanti
rapporti coi rappresentanti del potere, e saggiamente ispirata dai suoi
interessi, lo riconfermò per quattro anni successivi nella sua carica di
presidente.
De-Mauve si schermì, mandò persino le sue dimissioni, ma una serie di
lettere anonime avendolo minacciato di uno scandalo, si sentì sforzato a
ripigliare l’ufficio ed a rassegnarsi. La quale rassegnazione per altro,
confortata da 50 mila franchi all’anno, non era difficile esercitare.
Tuttavia egli pensò che una mezza ecclissi gli avrebbe giovato e si ritirò in
campagna. Ivi comperò un podere, si consacrò all’agricoltura, al
miglioramento del bestiame, alle scuole infantili ed alla fabbrica della
chiesa; divenne in una parola un gentiluomo campagnolo, laborioso,
filantropo, morigerato, popolare; l’idolo della comunità.
Fu allora che prese la seconda moglie della quale abbiamo parlato, e fu pure
verso quest’epoca che Gabriele uscì dal suo collegio di provincia e rientrò
dopo dieci anni d’assenza nella casa paterna. Ne era partito lasciandola
triste, oscura, quasi povera, e la ritrovava ricca, splendida, gioconda. Ma se
egli ne sentiva la differenza, non sapeva spiegarsela, e quando ne chiedeva
qualcosa, nessuno gliela spiegava. «Suo padre aveva fatto una grande
eredità» ecco quello che gli si diceva in casa. «Suo padre era un fior di
galantuomo» ecco quello che si soggiungeva in piazza, e poichè
quest’ultima voce pareva autenticare la prima, Gabriele se ne appagava e
tirava via assorto nei suoi studi e nel suo amore.
Suo padre l’amava alla sua maniera come si ama un campo che frutta, un
fuoco che riscalda, un liquore che ristora, un’avvenire che sorride.
Dapprima nei giorni nefasti della miseria l’amava perchè doveva essere il
bastone della sua vecchiaia, poi nei giorni della fortuna perchè doveva
essere il vanto del suo nome e l’erede della sua prosapia; era insomma
amore interessato, l’amore mercantile, l’amore degno dell’anima di De-
Mauve. Però in tutti i tempi non aveva mai tralasciato di coltivare questo
suo fondo di riserva incontrando tutti i sacrifici che gli erano stati richiesti
per la sua educazione e togliendosi spesso letteralmente di bocca metà del
vile suo pane per pagare la pensione del modesto collegio nel quale
Gabriele era rinchiuso.
Un siffatto amore paterno aveva una disciplina ed una morale sua propria.
De-Mauve non avrebbe mai permesso che suo figlio si scostasse d’un
pollice dalla linea di condotta che egli, padre, gli aveva prefissa, ma quella
linea finiva in una meta sulla quale era scritto: «far quel che giova».
E siccome De-Mauve credeva che le apparenze governassero
principalmente la società ed il tempo, nei quali Gabriele era destinato a
vivere, così egli era disposto a lasciare a suo figlio, anche studente, una
certa larghezza di spendere, ed una comoda se non sconfinata libertà di
seguire i capricci della moda e le abitudini del bel vivere. Gabriele invece
usava con molta parsimonia del danaro paterno e man mano che procedeva
negli anni diveniva sempre più parco ed austero. Tutto il lusso che si
permetteva era la libreria. Il padre scrollava la testa dicendo tra sè:
— Col solo studio non si fa fortuna, ma poichè dell’ingegno e della dottrina
di Gabriele risuonava ormai tutto il quartiere Latino e perfino i giornali
avean cominciato a parlare, così De-Mauve, pensando che questo era buon
principio d’apparenza, se ne accontentava e s’abbandonava ai più lieti
pronostici sulla carriera del figliuolo.
Tutto a un tratto Gabriele scrisse a suo padre chiedendogli una forte somma
di denaro.
La cosa era troppo insolita e straordinaria perchè De-Mauve non vi dovesse
cercare una straordinaria cagione.
— Qui v’ha da essere di mezzo una donna, un viaggio od una buona azione,
pensava De-Mauve commentando però quel buona azione con un
sogghigno che voleva dire «follia». — Prima di dare il denaro sarà meglio
che vada a Parigi a vedere.
E mentre si preparava a partire, trovò un telegramma in cifra del Comitato
esecutivo dell’associazione che lo chiamava in tutta furia alla capitale.
XXII.

Qui trovò l’associazione tutta sottosopra. Il Comitato esecutivo in


permanenza, il Consiglio d’amministrazione tempestoso e rumoreggiante
intorno alla sala del Comitato, che al pari di tutte le assemblee entrate in
diffidenza degli atti del potere esecutivo, chiedeva d’essere convocato;
madama Mouchard che andava dall’uno all’altro membro influente
dell’associazione raccontando a tutti il suo triste caso e inzuppando delle
sue lagrime dozzine di pezzuole, e infine la casa stessa di De-Mauve
assediata dagli agenti del Comitato che stavano ad attenderlo coll’apparenza
di scortarlo fino alla casa delle deliberazioni, ma in fatto col proposito di
sorvegliarlo e di non lasciarlo fuggire.
De-Mauve capì che qualcosa di grosso era accaduto e che la sua dittatura
stessa era in ballo. Indovinarne proprio la ragione non poteva, giacchè da
molto tempo non esercitava più il suo potere nè in bene nè in male, ma
insomma presentiva che la procella bolliva in alto e che minacciava la sua
stessa persona.
— Meglio però, esclamò dentro di sè il presidente, intanto che andava dal
Comitato esecutivo, e come conclusione d’un rapido esame di coscienza
che aveva fatto, meglio, così mi sarò liberato più presto da questi
mascalzoni.
Il Comitato teneva le sue sedute in una casa a doppio ingresso nella via dei
Matturins in una sala di scherma. Ivi pure la scuola serviva d’insegna e di
pretesto e la polizia o era autorizzata a non vedere o poteva essere delusa.
Nella sala, intorno a una tavola, sedevano cinque persone, cinque ceffi da
settembristi, meno la febbre repubblicana: non vi mancava nè il beccaio
Santerre, nè il comico Collot d’Herbois, e nemmeno il femmineo e colto
Saint-Just. Una poltrona vuota aspettava in mezzo il presidente e quando
questi entrò per andare a prendere il suo posto, il Comitato che di solito
s’alzava in piedi e lo inchinava, si mosse appena dalla sedia e stette colle
mani in tasca e la testa bassa ad aspettare che la seduta fosse aperta.
Il presidente la dichiarò aperta e diede la parola al relatore.
Il relatore, diciamolo subito, era il suo più mortale nemico. Da molti anni
aveva aspirato alla presidenza e non v’era mai riuscito. Da qui l’odio della
rivalità sconfitta. Apparentemente faceva il rigattiere allo sbocco del ponte
di Senna; di fatto era lo strozzino degli ufficiali giuocatori, degli impiegati
discoli e delle loro donne vanitose, ed era con questa riserva di cambiali
usuraie che egli copriva la società illegittima colla legittima. Ma
l’associazione l’aveva sempre respinto perchè troppo sordido, troppo
crudele e quindi troppo pericoloso. Era riguardato come il Marat del
Comitato. Tutti lo temevano, e perciò lo fuggivano. Alla fine parve che
l’occasione si offrisse di fargli rappresentare una parte idonea al suo
carattere e gli fu affidata la relazione dell’affare di Stefanella.
Il relatore adunque, misurato con una occhiata il presidente, come la iena la
preda che vuol divorare, incominciò quest’orazione:
— Poche parole: lasciamo la rettorica ai quaranta dell’accademia. La
cantante Stefanella, iscritta al Maubert col numero 32 a, giunta all’età
voluta, era stata affidata alla signora Mouchard per essere riformata.
Siccome la riformanda era di prima categoria, furono fatte alla mediatrice
insolite condizioni. L’amministrazione poi era certa di veder fruttare al 50
per 100 il sacrificio temporaneo che essa faceva. La cosa procedeva bene e
il concorso intorno alla riformanda si faceva maggiore quando madama
Mouchard venne a chiedere l’appoggio del Comitato perchè fosse
allontanato dalla strada dove essa aveva il suo stabilimento, un giovane di
sinistra apparenza che girava in su in giù sotto le finestre della ragazza colla
evidente intenzione di darle la caccia.
Si noti che la ragazza pareva secondarlo; ma ad essa provvide ultimamente
la signora Mouchard. Il Comitato esecutivo doveva provvedere al giovane,
e mandati i suoi agenti, venne a scoprire... è inutile farsi dei complimenti,
venne a scoprire che era il figlio del presidente in persona.
A queste parole De-Mauve diede un lancio in faccia al relatore, e con un
accento che sentiva la sfida e l’incredulità, esclamò:
— Non è possibile!
— Calma, signor presidente, rispose il relatore, e mantenetemi la parola alla
quale ho diritto.
De-Mauve si sedette pallido e contraffatto. Il relatore continuò:
— Allora il Comitato esecutivo, giudicando contro il parere d’una
minoranza alla quale io apparteneva, d’accordare al figlio del presidente
quello che a nessun altro si sarebbe accordato, decise lasciar correre e stare
a vedere i procedimenti del giovane e del padre. Si sperava anzi che il
giovane avrebbe preso a riformare la giovane egli stesso e che il padre
avrebbe pagate le spese. Illusione!... Scorso un altro mese, la signora
Mouchard aveva iniziate serie pratiche con un ricco Norvegiano e tutto le
dava diritto a credere che il contratto sarebbe stato conchiuso. Pare che il
Norvegiano non mettesse prezzo al possesso della cantante e che
l’amministrazione dovesse fare la più brillante operazione dei suoi annali.
Per sollecitare e facilitare la conclusione del negozio e addomesticare la
fanciulla che faceva la riluttante, la signora Mouchard aveva concertato col
Norvegiano un pranzo d’amici e tutto andava a meraviglia.... quando a un
tratto lo stesso giovane della strada, lo stesso figlio del presidente si
presenta nella sala, adduce certi suoi diritti sulla giovane, s’intenerisce il
cuor di coniglio di quel grullo del Norvegiano, svela tutti i più gelosi segreti
dell’associazione e finisce col rapire la giovane.
— Rapita!... — gridò con un secondo urlo De-Mauve.
— Rapita?!... rubata, signor presidente!... — replicò freddo il relatore. —
Rubato uno dei più preziosi capitali dell’associazione, recato un danno di
forse 50 mila franchi e messa in grave pericolo per lo scandalo avvenuto la
stessa nostra esistenza. Ora il Consiglio esecutivo per mezzo mio chiede
rigorosa giustizia: la giovane immediatamente soppressa; il rapitore... per lo
meno... esiliato... Attendo il parere del signor presidente.
— Il parere del presidente è, che giustizia dev’essere fatta, e severa, e che la
proposta del relatore è ancora mite. Come presidente, io rettifico la
sentenza, come padre riserbo tutti i miei diritti e l’associazione non sarà
malcontenta di me.
Il presidente, come disse, appose la sua firma ad un foglio di carta che
conteneva la sentenza di Stefanella e Gabriele e fu salutato da tutta la sala
con un mormorio di soddisfazione. Solo il relatore stava a capo chino e si
mordeva le labbra viscide di spuma.
De-Mauve se n’avvide e nel deporre la penna colla quale avea firmato
continuò:
— Sono risoluto a far cessare questo scandalo con tutte le mie forze. Tutto
il potere del quale dispongo è d’ora in poi ai servigi dell’associazione... e
qui impegno tutta la mia vita e la mia fortuna, tanto più... — e qui fece una
brevissima pausa per lanciare un ghigno d’ironia al suo rivale — tanto più
che sarà questo l’ultimo mio atto come vostro presidente e che sono
assolutamente deciso a rinunciare a questo onorevole ufficio; ma di ciò altra
volta... quel che più importa è di scoprire il nascondiglio dei rei.
— È già scoperto... fece il relatore. Ecco qui il rapporto. I due amanti erano
andati a rifugiarsi in una casetta dei dintorni di Romainville che avevano
presa a pigione, dove credevano essere ignorati da tutto il mondo, e d’onde
non uscivano che verso sera per andar a respirare l’aria dei boschi... Ma la
Pica scodata che conosceva Gabriele, essendo stata incaricata altra volta di
sorvegliarlo, aveva potuto mettersi sulle sue peste e scoprirne il ritiro. E fu
la Pica che lo denunziò alla società.
— Sta bene, sclamò dopo una pausa il presidente, il mio piano è già fatto.
M’incarico io di tutto, ma bisogna evitare ad ogni costo il clamore: fate
soltanto che domani sera un uomo fidato dei nostri, e vestito in modo che
non possa dare sospetti, sia pronto ai miei ordini in faccia a casa mia con
una carrozza... poi che il luogo di soppressione sia preparato e non ci sia
perditempo... Avete inteso?... Addio, signori... tregua ai complimenti...
E, dette queste parole colla stessa solennità con cui Bruto I deve avere
parlato al popolo romano nel dichiararsi risoluto a punire i figliuoli traditori
della repubblica, uscì dalla sala.
Giunto a casa si diede a solcare in su e in giù la sua stanza, raccogliere le
idee e pensare al da farsi. Poi, quasi avesse côlta un’idea che da lungo
tempo gli ronzasse davanti,
— Non c’è che questo mezzo, disse, non c’è che l’astuzia; la violenza
guasterebbe tutto.
E sedutosi allo scrittoio, scrisse sopra il primo foglio di carta capitatogli
queste poche parole:

— «Caro Gabriele. So tutto: ripareremo; vieni. Troverai


sempre fra le mie braccia il cuore d’un padre.
De-Mauve.»
XXIII.

I due fuggiaschi occupavano il loro nuovo nido da soli dieci giorni. Dopo
quella notte passata sui gradini della chiesa di San Sulpizio, Gabriele aveva
condotto provvisoriamente la fanciulla nel suo piccolo appartamento del
Quartier latin, ma col disegno di cercarne un altro in un luogo più nascosto
e meno sorvegliato. D’altronde, ed è una circostanza che ci preme far
notare, Gabriele nelle sue stanzuccie al quarto piano si sentiva troppo vicino
a Stefanella e non già per il timore dei pericoli d’un tale contatto, pericoli
tenuti insuperabili da tutta quella gioventù ardente e sbrigliata che lo
circondava; ma perchè s’era accorto che fin dalle prime ore la maldicenza
aveva cominciato a pettegolare e mormorare, aveva creduto unico rimedio
contro di essa fuggire in campagna.
Infatti nella sera del giorno stesso aveva trovata presso Romainville la
casetta che già in parte conosciamo. Ivi Gabriele aveva la sua camera e
Stefanella la sua. La mattina si incontravano sull’uscio della sala comune e
la sera si separavano: vivevano tutto il giorno come due fidanzati, e la notte
come fratello e sorella. Non era insomma la vita comune dello studente e
della crestaia: era il convegno perpetuo di due sposi e l’onore dell’uno e
l’innocenza dell’altra, l’amore d’entrambi teneva luogo di barriera.
Ma per questo appunto Gabriele voleva sollecitare con tutte le sue forze la
consacrazione del suo affetto. Vivere senza Stefanella non gli pareva
possibile; ma far di Stefanella una concubina ancora meno. Egli l’aveva
liberata, ed ora voleva compiere l’opera della sua redenzione, ponendo la
fanciulla redenta sotto l’egida di Dio, della legge e del suo nome. Voleva
insomma sposarla e per questo, come un primo scandaglio gettato
nell’anima del padre, gli aveva scritto che aveva bisogno di denaro.
— Se mio padre mi chiederà cosa voglia farne, diceva a sè stesso, allora gli
confesserò tutto.
S’immagini ognuno lo stupore, l’allegrezza, la follia che lo invasero,
quando il servo del signor De-Mauve gli portò la lettera che conosciamo...
Egli non sapeva trovarsi più, non poteva spiegarsi come suo padre avesse
così presto scoperto il suo ritiro, e dicesse per giunta di saper tutto; molto
meno poi concepiva come un uomo rigido e severo quale il signor De-
Mauve potesse scrivere quel «ripareremo» pieno di tanta bontà e di tante
promesse. Comunque, Gabriele vedeva la cosa bene incamminata e suo
padre mezzo preparato, il consenso certo, l’avvenire felice, e dava per la
sala balzi di gioia. Correva da Stefanella a leggerle e rileggerle la lettera, la
commentava con lei e fabbricavano insieme tutti i castelli in aria della
primavera e dell’amore.
Gabriele non volle indugiare un minuto ad ubbidire all’invito paterno, e
baciata sulla cima dei capelli la sua Stefanella, si mosse per Parigi.
— Ma tornerai presto — gli disse trattenendolo per mano la fanciulla,
subitamente assalita da un inesplicabile timore.
— Stassera stessa! a qualunque costo... A rivederci... È uno scherzo della
nostra felicità che nell’atto di venire si trastulla a disturbarci. Ma ti lascio
qui l’anima mia.
E con queste parole balzò in carrozza e si fe’ condurre alla casa di suo
padre.
Questi lo attendeva nel suo studio. Quando lo vide entrare gli andò incontro
per stringergli la mano, e modellando le labbra ad un sorriso affabile,
insolito su quella bocca, gli disse:
— So tutto, ma compatisco e perdono... Stefanella sarà tua... un giorno...
Ora non potresti sposarla... Prima devi farti un nome ed una carriera...
— Padre mio! — balbettò Gabriele metà sorpreso di quella bontà, metà
spaventato da quella sentenza.
— Sì, Gabriele... Io proteggerò la fanciulla, la terrò per mia figlia... finchè
tu ritorni.
— Ritornare?... dovrei dunque partire?
Il padre fe’ cenno col capo di sì...
— Oh mai, proruppe il giovane.
— Allora la perderai... Io non darò mai il mio consenso al matrimonio di un
ragazzo con una bambina. Fàtti uomo, matura nel lavoro il tuo
proponimento, acquista un grado ed un titolo sociale e allora io benedirò la
vostra unione, senza guardarmi addietro, senza cercare se la fanciulla sia
una zingara o una contessa, senza chiedere nemmeno dove sia nata...
— Ma... quanto dovrebbe durare questo esiglio di prova?..., si peritò a dire
Gabriele che già cominciava a guardare la proposta di suo padre sotto un
nuovo aspetto...
— Oh!... un paio d’anni al più... Ma forse anche meno. Ciò dipenderà da
te....
— E Stefanella? Chi penserà ad essa?
— Io, ti dico. Non ti fidi della parola di tuo padre? Io, finchè sarò vivo... il
mio testamento, se morissi.
— E... dove dovrei andare?...
— Parte stanotte istessa lo stato maggiore generale della spedizione di
Crimea... Io ho già potuto ottenere che tu come baccelliere in matematica ed
istruito nelle lingue orientali, avresti potuto seguitarlo come aggregato
volontario. È il principio d’una strada che ti può condurre lontano. In
Francia l’impero è militare ed è la sciabola che comanda. Tu sarai alla
guerra e non la farai; gli stati maggiori non vanno alla mitraglia. È uno
splendido e sicuro avvenire che ti preparo e... e Stefanella come corona
dell’edificio.
Gabriele stava ad ascoltare rattenendo i battiti del cuore, a testa bassa, cogli
occhi fissi sul pavimento, quasi cercandovi un’ispirazione... Alla fine dopo
una pausa proruppe:
— E dovrei partire stanotte?
— Stassera fra due ore....
— Senza rivedere Stefanella.... Oh questo è impossibile....
— Dovrai forse fare anche questo sacrificio. Tu non puoi tornare a
Romainville; non hai che il tempo per fare i preparativi del viaggio e recarti
a visitare il colonnello X.... che sarà il capo della tua sezione.
— È impossibile come un delitto, replicò Gabriele....
— Ma è anche impossibile far due cose insieme.... facciamo una prova, se
lo vuoi. Mandiamola a prendere.... Essa potrà ancora venire in tempo
almeno per salutarti.
— Verrà in tempo?... chiese Gabriele, e voi me lo assicurate?
— Te lo assicuro. Manderemo i migliori nostri cavalli... in un’ora e mezza
non vuoi che siano di ritorno?
— Me lo promettete, padre mio?
— Te lo prometto.... Ora scrivimi un biglietto per la fanciulla.
— Non sa leggere, fece Gabriele abbassando gli occhi; basterà gli diciate di
venire in nome mio a casa vostra. Ella sa che io sono venuto qui.
— Sta bene, faremo così.... e chiamato lo stesso servo che aveva portato al
mattino il biglietto a Gabriele, gli diede tutti gli ordini necessari per questa
seconda spedizione....
— E, ventre a terra, soggiunse De-Mauve quand’ebbe finito.
Gabriele non poteva ancora rendersi conto di quello che gli accadeva o
stava per fare, e in mezzo al vortice di dubbi, di ragionamenti e di terrori nel
quale nuotava, un dilemma chiaro, inesorabile, minaccioso sormontava e
diceva: «O restare e perdere Stefanella, o partire e conquistarla».
E intanto che nella agitata mente cercava indarno un’uscita, una fuga a
codeste tenaglie nelle quali si sentiva da poche ore serrato, faceva
macchinalmente quelli che suo padre chiamava i preparativi del viaggio e
andava a far visita al suo futuro colonnello.
Questi lo accolse oltre ogni dire cortesemente e, dietro un cenno
impercettibile che il signor De-Mauve gli fece, disse:
— Sono ben felice d’avervi con me, signor Gabriele. Vi prendo subito per
mio segretario e passerò io stesso colla mia carrozza a prendervi per
condurvi alla stazione.
In tutte queste bisogne, l’ora era già passata; non c’erano più che pochi
minuti e Stefanella non era ancora arrivata. Gabriele era sopra brage
ardenti: protestava che non sarebbe partito senza vederla, che sarebbe stato
un tradimento, che avrebbe messo sossopra il mondo.
— Fanciullaggini, rispondeva il padre; non mancano che venticinque minuti
e ce ne vogliono già quindici per arrivare alla stazione. Fra poco il
colonnello sarà qui colla sua carrozza.... lascieremo ordine che Stefanella
sia condotta alla stazione. Verrà a salutarti là.
— Salutarla!... salutarla non basta.... voglio chiederle quel che pensa di
me.... come sopporterà questa partenza improvvisa.... questa lunga
lontananza, se mi amerà anche lontano.
— È qui il colonnello interruppe il padre, sentendo il fragore d’una carrozza
in cortile.
— O Stefanella, replicò Gabriele correndo alla finestra.
— Il signor colonnello X, annunziò un servo.
Il colonnello entrò frettoloso senza attendere, dicendo:
— Partiamo!... partiamo, signori, non abbiamo un minuto da perdere....
Milizia vuol dire puntualità, e chi arriva ultimo in guerra perde sempre.
E così dicendo si voltava per uscire di nuovo.
— Siamo a’ suoi ordini, signor colonnello.... Vero, Gabriele? rispose De-
Mauve pigliando pel braccio il figliolo e traendolo verso la porta.
Gabriele non ci vedeva più: non aveva forza nè di resistere, nè di parlare, nè
di risolversi; andava come un automa giù per le scale, come un automa fu
messo in carrozza e portato di carriera alla stazione della strada ferrata del
Mezzogiorno.
Durante la strada però aveva ripresi i sensi e la volontà e smontando davanti
alla porta della stazione si piantò col piglio il più risoluto in faccia a suo
padre e al colonnello e disse:
— Signor colonnello.... io non posso partire, se non ho veduto almeno un
istante una fanciulla che amo. Mio padre me l’aveva promesso, e se egli
non può adempire questa promessa io pure ritiro la mia parola.... e resto!...
Non ci sarà forza umana che mi faccia smuovere da questo proposito.
La dichiarazione era categorica, e il volto, la voce, il gesto di chi la faceva
non parevano ammettere replica. Da ogni accento si sentiva parlare il
proposito della disperazione.
— Ecco Stefanella!... fece il padre voltandosi ad accennare una carrozza
che arrivava in quel punto in mezzo a molte altre alla stazione.
— Ed ecco il segnale della partenza, fece il colonnello; signori io vado....
resti chi vuole.... il dovere anzi tutto.
Stefanella in quel momento scendeva da carrozza. Gabriele s’era slanciato
incontro a lei e lì, in mezzo a quella folla di soldati, di cocchi e di cavalli,
l’abbracciava stretta e le diceva:
— Devo partire.... ma per tornare.... per esser tuo per sempre.... Stefanella
non capiva nulla, ma si sentiva svenire di dolore e aveva appena la forza di
articolare una parola:
— Partire.... partire....
— Sì... ma tornerò.... addio.... mi vorrai sempre bene?
Stefanella non parlava più; le labbra illividite le tremicchiavano
convulsamente, ma non poteva cavarne un solo accento. Rispondeva col
capo automaticamente di sì.... ed era bianca come una morta.
L’ultimo squillo della partenza suonò. De-Mauve lo fece intendere a
Gabriele, il quale alzati gli occhi in faccia a suo padre e coll’accento della
più profonda ambascia gli disse,
— Voi la proteggerete, padre mio.
— Lo giuro, disse De-Mauve, col tuono solenne d’un santo.
Allora Gabriele, sferratosi dalle braccia della sua vergine, montò sul
convoglio e partì. Stefanella lo intravide allontanarsi, diè un gemito
leggiero come quello d’una colomba percossa nel mezzo del cuore e cascò
priva di sensi.
De-Mauve la fece raccogliere e portare nel legno col quale era venuta:
sussurrò una parola al suo cocchiere e, montato in un’altra carrozza,
disparve.
Stefanella risensò soltanto quando la carrozza si fermò e le fu detto di dover
discendere per montare in un altro legno. Essa era come ebete e
macchinalmente ubbidì. Solamente quando fu nella seconda carrozza chiese
al cocchiere che chiudeva lo sportello:
— Dove mi conducete?
— A casa vostra, disse sogghignando il sinistro auriga, e partì anch’egli al
galoppo.
XXIV.

Era notte. Le case passavano via nelle tenebre innanzi alla rapida carrozza e
non permettevano alla fanciulla di orientarsi. Vedeva però abbastanza per
capire che faceva una strada diversa da quella ond’era venuta, e in cuor suo
dubitava.
A un tratto, giunta in un luogo ampio e deserto che pareva una piazza, la
carrozza si fermò e Stefanella fu fatta smontare. Ella smontò replicando
ancora al cocchiere:
— Dove mi conducete?
— A casa vostra, ripeto, fece il cocchiere collo stesso sogghigno e
additando le negre e luride muraglie dello stabilimento Maubert che si
rizzava di fronte....
La fanciulla aprì gli occhi; osservò, riconobbe il luogo, formulò colla
rapidità del terrore disperato un ragionamento, congiunse mentalmente le
cause agli effetti, la partenza di Gabriele al suo ritorno in quell’orrido
chiostro, e tramortì di nuovo....
La poveretta non si era sbagliata: svegliandosi, anzi svegliata dalla ruvida
scossa dell’aguzzino, si trovò in uno dei covili della spelonca Maubert.
— Su, contessina... svègliati che sei aspettata a far nottata altrove....
T’abbiamo fatta venir qui solo per regolarità della ricevuta... ma il tuo
collegio d’ora in poi è un altro... e ci si sta allegri.... vedrai! È un bagordo di
giorno e di notte.... ma un pochino più di notte.... Prima però devi mettere
giù questi fronzoli.... Sono dell’amministrazione e non deve essere
frodata.... e così dicendo accennava i pendenti, la gonnella e gli altri
ornamenti del vestito di Stefanella.
Essa ascoltava ancora, ascoltava sempre senza rendersi ragione di quello
che le accadeva. D’altronde le emozioni che l’avevano percossa da un’ora
in poi erano state così forti, che la facoltà di intendere e di sentire era in lei
spenta.
— Spògliati dunque, fece l’aguzzino. Sì, spògliati!... O che questi gingilli
sono suoi?... presto!... su!... presto, dico!... e già le poneva le mani sul corpo
per levarle di dosso le vesti che madama Mouchard le aveva fatto fare per la
pubblica rappresentazione. Stefanella corse colla mano a far riparo al suo
seno, ma fu indarno; l’aguzzino, aiutato dalla Pica, sempre pronta ai martirii
altrui, ridusse brutalmente ignuda la povera vergine e gettandole ai piedi un
cencio di vecchia gonnella che avea coperta una morta del mattino, le disse:
— Mettiti questo ora, e partiamo. Se in collegio ne guadagnerai, ti vestirai
di nuovo.
Stefanella si coperse di quel funebre drappo che le avevano dato e al
secondo comando dell’aguzzino si mosse per partire. Di fuori aspettava la
stessa carrozza che l’aveva condotta; ella vi fu fatta montare; vi si posero ai
fianchi l’aguzzino e la Pica e partirono insieme per un’altra meta ignota.
XXV.

Nella notte stessa in cui accadevano questi avvenimenti, Carluccio entrava


per la porta di Montreuil a Parigi. Aveva promesso tornare a vendicare
Stefanella e scioglieva la sua promessa. Per tre mesi aveva covato e
maturato il suo disegno, tacendo, dissimulando, mentendo, divertendo la
folla, mostrandosi contento, adulando i suoi padroni, entrando nelle loro
grazie, conquistando la loro fiducia, divenendo il beniamino della
compagnia, colla stessa astuzia, la stessa segretezza e la stessa pertinacia
con cui il negro condannato alle piantagioni d’America e col quale aveva,
meno il colore, tanta comunanza di dolori e di servitù, medita la fuga e la
consuma.
Ma fuggire per Carluccio non era difficile; difficilissimo invece era fuggire
senza essere raggiunto ed arrestato. Però tutto il problema per il Calabrese
consisteva nel mettere fra sè ed i suoi padroni almeno 24 ore di strada.
Invece la fortuna gli arrise tanto che egli potè mettervi tutto l’oceano.
Infatti la sua compagnia vedendo dimagrare ormai gli affari in Francia,
aveva deciso andare a tentare la fortuna in quel paese dove vanno tutti i
disperati, in America. Ed eccola tutta raccolta sul ponte di un battello a
vapore che dovea partire la notte stessa dall’Havre per Nuova York.
Carluccio capiva che non aveva più un minuto da perdere e guai per lui, se
il bastimento fosse salpato: egli non avrebbe forse più riveduto la Francia.
Però il tentativo, che aveva fino allora protratto di giorno in giorno per
renderlo più sicuro, decise compierlo quella notte, a qualunque costo.
La partenza era fissata per le 11, ma fin dalle 10 tutta la comitiva del
saltimbanco era già a bordo, sdraiata qua e là sul ponte e quasi tutta
addormentata. Quello che pareva dormire più profondamente era Carluccio;
egli s’era cacciato fra le gomene e le àncore di prua e non lo si vedeva
nemmeno. I marinai erano attenti ai preparativi della partenza, i
saltimbanchi russavano e nessuno badava a quel ragazzo, rannicchiato in
mezzo agli ingombri del bastimento. Ma Carluccio non dormiva e dagli
occhi socchiusi sorvegliava tutti i moti della gente che aveva d’intorno. E
allora, quando si vide ben solo, côlto il destro, si calò per la corda
dell’àncora giù in mare, e nuotando sott’acqua fin che fu in mezzo ai
bastimenti del porto, andò a riuscire poco lontano da esso, alla riva. Mentre
toccava terra, il bastimento si metteva in moto e usciva a tutto vapore dal
porto. La mattina vegnente, svegliandosi in alto mare il saltimbanco cercò
di Carluccio nella sua nicchia e non lo trovò più.
Carluccio intanto aveva fatto quasi venti miglia sulla strada di Parigi.
Avendo meditato lungamente la fuga, aveva anche potuto mettere assieme
tanto di denaro che gli potesse bastare per le spese del viaggio. Così, senza
incidenti notevoli, giunse, come dicemmo, la notte del sesto giorno alle
porte della capitale.
Prima, unica sua cura, era naturalmente cercare di sua sorella, e per
abbreviare le ricerche, decise muovere di filato verso lo stabilimento
Maubert, dove pensava o l’avrebbe trovata ancora o avrebbe raccolti
gl’indizii della sua nuova dimora. Però, entrare nello stabilimento non gli
pareva prudente, potendo avvenire che, invece di liberar la sorella, cadesse
egli stesso in un agguato e tornasse prigioniero. Risolse quindi aspettare
sull’angolo della piazza che qualche persona a lui nota gli passasse vicino.
Poteva essere alla posta da circa mezz’ora quando vide arrivare una
carrozza, arrestarsi poco lontano dalla casa Maubert e scenderne due
persone, un uomo e una donna. Carluccio dal suo nascondiglio tese gli
occhi e gli orecchi per scoprire chi erano, e non tardò a riconoscere il capo
aguzzino e la Pica. Egli si sentì rimescolare il sangue, ma poichè i due
parlavano, egli raccolse tutto il suo fiato e stette ad udire.
— Anche la Calabrese è andata, disse la donna.
— E tutto per merito tuo, rispose l’uomo con un sorriso che pareva tolto a
prestito dal demonio.
— Merito del mio odio, replicò la Pica, intanto che faceva un passo per
entrare nello stabilimento.
Carluccio aveva udito abbastanza e con uno slancio si trovò in faccia ai due
interlocutori prima ancora che essi avessero potuto capire donde era
sbucato.
— Voi parlavate di Stefanella — urlò il giovine — dov’è Stefanella?
— Carluccio!... — sclamarono insieme i due sorpresi.
— Sì!... Carluccio che viene a chieder conto di sua sorella e vi strozzerà qui
entrambi, se non gliela rendete. E compiendo coll’atto la parola afferrava i
due per la gola, uno per mano e li atterrava sotto il suo ginocchio.
L’aguzzino e la Pica rantolavano dentro il pugno di Carluccio come due
volpi prese alla tagliola, ma il furente atleta non lasciava loro alcun attimo
di respiro e li investiva con quest’unico grido: — Mia sorella?... dov’è mia
sorella?...
L’uomo resisteva ancora e non fiatava, ma la Pica più debole e ormai
esausta di forze, accennava colle labbra palpitanti di voler parlare.
Carluccio, essendosene accorto, allentò la mano e le lasciò tanto respiro
quanto le bastasse per poter pronunciare la parola. E per udirla meglio,
abbassò l’orecchio sulla bocca della sua prigioniera e stette ad aspettare. Di
lì a poco colla voce affiochita d’una morente la fanciulla balbettò un nome
mostruoso che strappò a Carluccio un urlo di orrore e gli fece ribollire nel
sangue le fiamme, fino allora signoreggiate, del furore. Egli rivide ad un
tratto le persecuzioni della Pica, il suo spionaggio, le verghe inflitte a sua
sorella ignuda, tutti i patimenti e le vergogne di cinque anni, e lasciando per
un istante il collo dell’aguzzino che teneva colla sinistra, afferrò con ambe
le mani la gola della donna e con una stretta finale e disperata le fece
schizzar fuori gli occhi e la vita. Poi, senza nemmeno più pensare all’altro
suo prigioniero, si alzò e si diede a correre forsennato nella direzione che la
parola della Pica gli aveva indicato.
Egli non ignorava, per fama, quell’orrendo luogo e dopo una breve corsa vi
si trovò di faccia.
XXVI.

Può il liberatore salire la scala della gogna per strapparne la vittima, può la
giustizia avventurarsi nelle rôcche del delitto per atterrarlo? Deve la
filosofia umana gettare lo scandaglio in tutti i misteri e la patologia sociale
mettere il cauterio su tutte le cancrene?... È egli vero che la virtù stia nel
conoscere, e che soltanto dal cozzo del male e del bene emani quella
scintilla che nella morale è verità, e nell’arte è poesia? Se tutto ciò si può, se
devesi, se è vero, se Omero dipingendo Troilo fa amare Achille, se Edipo
rappresentando Fedra fa comparire Ippolito, se Dante descrivendo l’inferno
fa desiderare il paradiso, se Lady Macbeth fa pensare a Giulietta, se il
peccato di Fantina rende più sublime l’innocenza di Cosetta, se Cristo che si
circonda di lebbrosi e di peccatori sale tant’alto da parere divino, allora
l’arte è governata dalle stesse leggi della morale ed essa ha il diritto di
spaziare dappertutto, dove lo può il bene per combattere il male, la luce per
diradare le tenebre, l’ideale per circoscrivere il reale, lo spirito per
conquidere la materia. Dappertutto, ma ad una sola condizione: che essa
non perda mai il pudore delle ciglia e della parola, che la sua veste quanto
più s’inoltra nel fango tanto più sia casta e severa, che essa illumini tutte le
miserie di questo mondo, ma dal posto delle stelle.
A queste condizioni, con questo intento, la nostra musa seguirà a occhi
bassi e inorridendo i passi di Carluccio affinchè possa dire scendendo le
orride scalèe: «ho liberato dall’ignominia uno spirito immortale».
La porta s’era spalancata davanti a Carluccio come davanti al primo che
passa. Poichè il primo che passa è il cliente.
Appena dentro udì un gran tumulto per le scale e uno scambio di urli, di
bestemmie e di singhiozzi e indi a poco una fanciulla atterrita e scarmigliata
corrergli incontro a precipizio, inseguita da un uomo e da una schiera di
femmine.
Carluccio alzò gli occhi sulla fuggente, la riconobbe, la chiamò per nome, la
sollevò nelle sue braccia vigorose, e in men che non si dica, con uno di
quegli sforzi ginnastici che tante volte avean strappati gli applausi alla folla,
la portò in istrada.
Stefanella fuor di sè non l’aveva in sulle prime riconosciuto, ma il cuore le
aveva detto che l’uomo che la portava via era un protettore e si lasciò
andare fra le sue braccia, come l’annegato fra quelle che lo traggono alla
riva.
La turba degl’inseguenti però non voleva lasciar la sua preda, e mentre
Carluccio arrivava in istrada col caro peso, l’uomo gli era sopra e già
allungava la mano per afferrarlo pel collare. Ma Carluccio parando il colpo
gli sferrò tale un pugno sulle narici che lo mandò a ruzzolare insanguinato
contro la muraglia.
L’uomo si diede a gridare al soccorso e molte altre genti maschili e
femminili sbucavano già da ogni parte di quel turpe semenzaio e
investivano tutt’all’intorno Carluccio, il quale, brandito il suo coltello, si era
preparato alle estreme difese; quando a cessare ogni lite comparve la
polizia.
Nè si creda che questa comparsa fosse fortuita. L’aguzzino, appena liberato
dalla mano di Carluccio e vista la fine della Pica, era corso al
commissariato più vicino denunziando l’assassino e dando tutte le
indicazioni per seguitarne la traccia. Una pattuglia di gendarmi e poliziotti
comandata da un commissario e guidata dall’aguzzino stesso, fu subito
messa in moto e non tardò a raggiungere il perseguito.
La pattuglia, fattasi largo in mezzo alla turba, si diresse difilata su colui che
teneva un’arma in pugno. Carluccio tentò difendersi, resistere, dir le sue
ragioni, ma quattro gendarmi lo avevano già afferrato e stavano
ammanettandolo, quando Stefanella fattasi innanzi al commissario che dava
gli ordini,
— Arrestate anche me, gli disse, sono sua sorella e sua complice.
Il commissario esitava e guardava stupito e forse anche commosso, la
bellissima giovinetta. Egli ignorava di certo che ella preferiva seguitare la
sorte del fratello, fosse pure un carcere perpetuo o la morte, al vivere un’ora
di più nel luogo di profanazione nel quale era stata gettata. Poichè un
miracolo ne l’avea fatta uscire pura e immacolata come prima, pura e
immacolata voleva morire accanto al suo liberatore. E tali sentimenti,
rapidamente nati e divenuti giganti nella sua mente, le avevano ispirato
l’insolito coraggio di profferire quelle parole che erano parse il sublime
della fierezza innocente persino ad un commissario.
— Sì, arrestate anche lei.... la congiura è sua.... è lei che ha spinto il
fratello.... a Bicètre... a Tolone.... alla Grève.... ladroni italiani.... assassini,
si mise a gridare quella lurida ciurmaglia sopra la quale primeggiava la
voce dell’aguzzino.
— Venite voi pure, disse il commissario a Stefanella, renderete conto alla
giustizia.
E fra le fischiate, le urla e i cachinni osceni di quella nefanda contrada i due
Calabresi furono tratti in prigione.
XXVII.

Accusato d’assassinio e ratto violento a mano armata; caricato da cento


circostanze aggravanti o vere o immaginarie; attaccato da una turba di
testimoni scellerati, spergiuri, deliberatamente nemici e non difeso da
alcuno; senza passaporto, senza professione, senza parenti; solo,
vagabondo, forestiero quale tribunale non avrebbe condannato Carluccio?
D’altronde in pochi giorni non tardarono a venire da Nuova-York i reclami
del saltimbanco che accusavano il pagliaccio fuggitivo di furto e di mancata
fede e ne aggravavano la situazione. Certo, se si fosse fatto un processo in
una solenne assisa e se i Calabresi avessero trovato per avvocato un uomo
di cuore e d’ingegno, la verità sarebbe comparsa e gli accusati sarebbero
ben presto cambiati in accusatori, e il sangue stesso che Carluccio aveva
versato, sarebbe parso agli occhi di ogni tribunale e della pubblica
coscienza, legittima difesa della vittima, giusto castigo dei carnefici.
Ma Carluccio era ancora agli occhi della legge un fanciullo; egli non poteva
essere condannato ad alcuna pena infamante; poteva bensì essere rinchiuso
in un ospizio di vagabondaggio o tutt’al più condannato ad un carcere
correzionale; inoltre era straniero e la miglior misura a prendersi era quella
di liberarsene. Perciò, compiuto sommariamente un processo e dichiarato
reo convinto di assassinio e di invasione violenta a mano armata, colla sola
circostanza attenuante dell’età, fu decretata la estradizione e la consegna ai
tribunali del suo paese.
Stefanella poi, persistendo a dichiararsi sua complice e secondata in questo
da Carluccio che ne aveva indovinato fin dalla prima il secreto pensiero, fu
ritenuta tale e fu deciso che avrebbe seguita la sorte del fratello e la polizia
borbonica avrebbe provveduto.
Dopo molti mesi di interrogatorio, giacchè per questa sorta di processi i
tribunali non hanno fretta, i due Calabresi, udita la loro sentenza colla quale
Carluccio era condannato a sei anni di carcere correzionale e Stefanella ad
un anno, furono caricati sopra uno dei carrozzoni della polizia francese, e
così di tappa in tappa, cioè di prigione in prigione, arrivarono fino alle Alpi.
Alle Alpi li raccolsero i carrozzoni della polizia sarda, e sempre di veicolo
in veicolo e colla stessa compagnia e collo stesso alloggiamento,
assaggiando i gendarmi, i ladri, le prigioni delle altre cinque o sei polizie
che dovevano attraversare per arrivare a Napoli, cascarono finalmente nelle
braccia della borbonica.
È noto che cosa fosse la giustizia del Borbone. Ella non era che la
salvaguardia di chi la pagava. Ora chi si sarebbe curato di due fanciulli
mandati via per estradizione da un governo potente e accusati e convinti di
tanti delitti? Carluccio fu rinchiuso nelle carceri di Castel Capuano e
Stefanella in quelle di Santa Maria Apparente, e nessuno, tranne i secondini
che li custodivano, pensò più a loro.
La schiavitù trae seco la fatalità del male: essa finisce necessariamente al
delitto ed all’infamia: quando si rassegna diventa prostituzione, quando
resiste ha nome ribellione, e nell’uno e nell’altro caso la società fa pagare a
lei sola il proprio misfatto. E talvolta i più puri ed innocenti son quelli che
scontano per tutti, come era accaduto a Stefanella e Carluccio. Ma
Carluccio entrando nella sua nuova prigione lanciò al cielo un giuramento
di vendetta che fece impallidire persino il carceriere.
Stefanella appena rinchiusa, s’inginocchiò contro la grata della sua triste
muda e cominciò a pregare per colui che ella credeva accanto a Dio, e
cercava incessantemente in ogni angolo di cielo perchè là era salito e di là
doveva tornare.
Erano passati due anni; Stefanella pensava a Gabriele e Carluccio alla
vendetta, quando un mattino il carcere della fanciulla fu aperto e le fu detto:
«Andate, siete libera».
— Libera!... essa sorrise ed uscì. Appena fu in istrada tutti si diedero a
guardarla, ed alcuno ad inseguirla: verso sera ebbe fame e si azzardò
rivolgersi ad un signore vecchio per chiedergli del pane.
— Va a lavorare che sei giovane, rispose colui, e tirò diritto senza darle
nulla.
Si rivolse allora ad un uomo giovane, ed egli si inchinò e le sussurrò
all’orecchio una parola che la fece fuggire svergognata. Si indirizzò ad una
signora elegante che s’era fermata in carrozza davanti ad un caffè, ed ella,
gettandole un soldo, le disse;
— Stupida! perchè non fai come me?!...
Continuò a stendere la mano giacchè un soldo non le bastava, ma una
guardia di polizia le disse che l’accattonaggio era proibito.... Insomma la
libertà era più terribile della prigionia.... Il carcere aveva il digiuno ma non
la fame, aveva la scuola empia delle compagne ma non la seduzione
lussureggiante del mondo, aveva una catena di ferro ma non una catena di
leggi, di pregiudizii, di errori sociali tutti congiurati contro la miseria!...
Pure ella non aveva che un pensiero: tornar a rivedere il villaggio dove era
nata e dove forse alcuno dei suoi vecchi parenti viveva ancora. Lì essa
voleva passare il resto dei suoi anni attendendo le sole persone che amasse
ancora e l’avessero amata al mondo: Gabriele che dovea tornare dall’esiglio
incontrato per lei e Carluccio dalla prigione sofferta per essa. S’avviò a
piedi verso la sua Calabria, ora accattando, ora lavorando a giornata per
vivere; qua spigolando le olive, là raccattando i frantumi di corallo lungo le
spiaggie del mare; ora ospitata da qualche pietoso convento di monache, ora
raccolta nella barca di qualche caritatevole pescatore d’Amalfi, ora sul carro
di qualche solitario pastore lucano, e così traversò le rovine di Pompei; le
industri vallate della Cava e di Vietri; la conca ridente di Salerno; i colli
pianeggianti di Eboli; le acque sotterranee del Negro; la classica Lauria
ancora echeggiante dalla energica sfida di Giovanni da Procida; le nevose
vette della Rotonda, porta della Calabria Citeriore; il murato Castrovillari;
Tarsia dai due fiumi, famosa per il martirio dei Riformati italiani; finchè
una sera vide sull’orizzonte, traversò i crepuscoli del sole morente, il
povero campanile del suo Ritorto. Allora, come il Crociato all’apparire
delle torri di Gerusalemme, come il Mussulmano al luccicare dei minareti
della sacra Mecca, si prostese a terra, baciò la prima zolla dei suoi campi
natii, e ringraziò il Signore.
XXVIII.

Levatasi, mosse diritta all’estremità del villaggio, tremando ad ogni istante


di veder comparire la negra muraglia del povero abituro dove era vissuta
bambina. Ma ella avanzava e l’abituro non c’era più. Al suo posto c’era un
campo d’orzo e vi brucavano poche capre guardate da un giovane
mandriano.
— Oh buon capraio, sapreste dirmi che avvenne di questa casa?...
— Eh ehee!... vecchia storia, l’ha portata via il terremoto, — rispose il
capraio.
— E quelli che l’abitavano?...
— Storia breve!... Lo Storpiato l’hanno ucciso i gendarmi e la Marinella,
dopo aver mendicato un anno di porta in porta fu trovata una mattina
stecchita sul ponte di Crati.
— Morti tutti!... sclamò la fanciulla dando in uno scoppio di pianto.
— Erano forse vostri parenti? disse il capraio, accostandosi intenerito alla
piangente. Mi duole allora d’avervi fatto pena col mio brutale racconto,
perdonatemi.
— Erano mio padre e mia madre, replicò Stefanella con un nuovo singulto.
— Poveretta!... e voi d’onde venite?...
— Vengo.... qui la fanciulla s’arrestò e diventò rossa; doveva dire «vengo di
prigione» ma non n’ebbe il coraggio.
— Da Napoli forse?...
— Anche da più lontano; dalla Francia!...
— Dalla Francia?... Chi sa dov’è la Francia!?... ed ora cosa farete a
Ritorto?...
— Cercherò di lavorare se ne troverò.... e se no.... qui la fanciulla ebbe un
altro assalto di pianto.
— Ne troverete!... ne troverete.... Sentite, bella paesana.... Mio padre è
vecchio e non può più attendere ai mercati ed alle grosse mandrie.... Io farò
per lui e voi guarderete queste mie capre per me....
— Oh sarebbe troppa fortuna.... ma vostro padre....
— Mio padre dirà di sì.... e mia madre anche.... sono buoni i miei parenti....
non credo che in tutta Calabria ce ne sieno di compagni.... qui tutti vendono
i figliuoli, ma dite un po’ che abbiano voluto vender me?... E ci furono
annate di fame!... Ma niente.... o tutti insieme o nessuno.... Venite.... farete
la capraia e aiuterete mia madre a far le focaccie.... Come vi chiamate?...
— Stefanella!...
— Ed io Marco.... non è un bel nome?... ma non è il nome che fa.... venite
con me.... è già sera, le capre sono gonfie come otri.... venite!... venite a
casa mia.... la casa è quella su verso il monte... pare un guscio, ma è allegra
come un nido di primavera....
Stefanella non potè dire di no; non poteva respingere la provvidenza e seguì
la sua guida.
I due vecchi pastori accolsero le raccomandazioni del figliuolo per l’orfana
paesana da quella buona gente che erano, e le dissero:
— Siate la benvenuta; lassù nel granaio ci sarà un lettuccio per voi e qui a
questo desco un posto sicuro. Pregate il Signore che ci renda il bene che vi
facciamo.
Stefanella trasformata in capraia trovò così alcuni mesi di pace apparente.
Apparente perchè c’era un vuoto dentro il suo cuore che nessuna felicità
mondana poteva colmare: il vuoto lasciatovi dall’esiglio del suo amante e
dal carcere di suo fratello. Però la mattina all’alba, prima di andare al lavoro
e la sera al suo ritorno, ella montava sul suo granaio, e seduta all’abbaino vi
passava le lunghe ore a guardare sulla strada se un’ombra nota, l’ombra di
Gabriele o di Carluccio, vi spuntava.
Quale dei due aspettava, desiderava di più?... Chi è stata sorella ed amante
lo dica! La sola filosofia non basta a spiegare questi sottili enigmi del cuore
umano.
Un giorno, era già trascorso un anno, Marco sbucò improvvisamente sul
campo dove Stefanella faceva pascolare le sue capre, e andando diritto
verso la fanciulla la interrogò così:
— Ho una cosa da domandarti, Stefanella.
— Parla, rispose la fanciulla.
— Mi vuoi bene?
— Come a mio fratello.
— E non di più?...
— E non basta?...
— E se ti domandassi di volermi bene come ad uno sposo.
Stefanella esitò.
— Sii sincera, Stefanella....
— Allora ti direi che non posso.
— Ah!... lo prevedeva.... tu ne ami un altro!?...
— Un altro che deve tornare e che aspetto.
— Un vile che non tornerà e che ti avrà già dimenticata.
— Marco, se vuoi uccidermi... parlami ancora così....
— Non te ne parlerò più, ma saremo infelici entrambi.
Da quella volta in poi Marco non le parlò più del suo amore, e in capo a un
anno, diciamolo, non ci pensò neanche più. Stefanella era divenuta per
quella famiglia qualcosa di sacro, e ogni sentimento mondano avea finito
col tacere innanzi a lei. Ella s’era risolta a raccontare la storia della sua vita
e tutti la riguardavano come un miracolo vivente del cielo. La voce delle
sue avventure, dei suoi patimenti, della sua virtù, del suo prodigioso
salvamento s’era sparsa a poco a poco nel paese e una specie di
superstiziosa tradizione avea cominciato a formarsi intorno al suo nome. Da
molte parti si veniva a consultarla come una fata od a pregarla come una
santa, ed era credenza universale che la casa del mandriano, finchè fosse
abitata da quella vergine miracolosa, non avrebbe patito disgrazie.
Protetta da questa specie di aureola che le cresceva d’intorno quanto più la
ricusava, Stefanella trascorse tranquilla e rispettata altri tre anni.
XXIX.

Era una notte d’aprile tutta tempestata di stelle e tinta di quell’azzurro


bianco e quasi trasparente che forma il colore speciale alle notti serene delle
zone ardenti dell’Oriente e del Mezzogiorno. Stefanella era già salita da più
ore sul suo granaio. Finchè un fil di luce diurna era rimasto sulla terra aveva
continuato a guardare come al solito dal suo abbaino, ma fattosi notte, s’era
ritirata sospirando e dicendo a sè stessa la parola che ormai da quattro anni
ripeteva: — Anche per questa notte nessuno.
Ma provatasi a sdraiarsi sul suo lettuccio, un pensiero fisso, un desiderio,
una speranza, un non so che d’inesplicabile la pungeva come una lisca
incomoda e non le lasciava trovar sonno. Alla fine, stanca di voltarsi e
rivoltarsi, risolse d’alzarsi e tornar a prender aria dal suo abbaino. Poteva
essere là da circa mezz’ora odorando gli effluvii degli aranci in fiore e
mirando lo scintillare d’una grossa stella che avea sul capo quando,
abbassati gli occhi, vide da lontano sulla strada, ritta, immobile, un’ombra.
Ella arrestò lo sguardo su quell’oggetto, lo fissò, lo esaminò, sentì gonfiarsi
il petto, palpitare il cuore... era un uomo... L’uomo si mosse, fece tre o
quattro passi, poi si arrestò ancora come chi cerca riconoscere il terreno.
Stefanella non lo perdeva di vista. L’uomo si avvicinò di nuovo... Stefanella
vide un movimento a lei noto, un profilo lungo tempo meditato, una figura
che da quattro anni riempiva assieme ad un altra tutto il tesoro della sue
memorie, e dato un grido, che risuonò di speco in speco per tutta la muta
vallata, si precipitò per le scale sulla strada e in pochi passi fu di fronte
all’arrivato.
— Carluccio!? ella gridò.
— Stefanella!? rispose l’uomo coll’accento della sorpresa. Stefanella!...
replicò coll’accento della gioia stringendosi al seno la carissima compagna
della sua infanzia.
— T’aspettava, sai?... disse Stefanella appena domata la prima emozione;
t’aspettava, e questa notte più di tutte.
— Eccomi qui... ma ho patito... ho sofferto... ho... se non fosse stato perchè
avea giurato di vendicarti, mi sarei ucciso.
— Zitto!... non parlare di vendetta... perdoniamo e viviamo insieme...
— Non mi parlar di perdono... Un Calabrese non perdona mai... guerra agli
uomini... sterminio ai francesi.
— Carluccio, le tue parole mi fanno morire.
— E le tue mi farebbero diventar vile.... ma dimmi, Stefanella... e la nostra
casa?...
Stefanella taceva.
— Distrutta, non è vero?... Lo immaginava. E i nostri parenti?...
Stefanella abbassava il capo.
— Morti!... Dovea essere così... la maledizione di Dio dovea colpirli...
possano essere perdonati nell’altra vita... in questa io non lo potrei.
Stefanella allungò la mano sulla bocca di Carluccio, come per impedirgli di
profferire quelle bestemmie.
Carluccio gliel’afferrò, e con un cupo e convulso crescendo le disse:
— Non bestemmio, no... bestemmiare sarebbe inutile; la parola è l’arma
degli imbelli... ma ogni ora del mio silenzio non fa che fecondare un anno
di vendetta. Ho deciso, Stefanella; dente per dente, cuore per cuore, onore
per onore... T’hanno frustata ed io li squarterò, t’hanno prostituita ed io
inventerò per loro l’ignominia degli eunuchi; ci hanno affamati ed io li
asseterò... l’ho giurato, e da quasi dieci anni questo giuramento mi tien
luogo di preghiera la mattina e la sera... non sarei più calabrese se vi
mancassi... Senti, Stefanella; io sono nascosto in Calabria da parecchi
giorni.
— Se non sono venuto prima a te, gli è perchè non voleva farmi vedere a
nessuno se prima non era tutto preparato... Le armi, gli amici, i ritrovi... Ora
siamo pronti: siamo sei... anche troppi per farla a questa razza vile di
mercanti e di cortigiane... Io sarò loro capo... La Sila sarà la nostra
fortezza... ma ci stenderemo dovunque potremo arrivare... L’odio, la
miseria, l’avarizia delle due Calabrie ci serviranno di manutengoli... È la
nostra vita, Stefanella... Brigante l’avo, brigante il padre, brigante il figlio...
è il fine che doveva fare. Anch’io un giorno al tuo fianco ho sognato che
l’uomo fosse nato per l’amore; ma pasciuto d’odio, vomito odio; dimmi,
Stefanella, vuoi tu essere l’angelo santificatore della nostra masnada?....
Stefanella alzò i suoi limpidi occhi in faccia al fratello; lo fissò un istante.
— Sai bene che questo è impossibile, rispose, e s’anco lo volessi, la mia
natura si opporrebbe.... io farei guerra a me stessa... non ci pensare
nemmeno... mai più... lasciami pur qui... e tu va... dico va, perchè sento che
pensare a dissuadere te è tanto impossibile quanto persuadere me... Io sono
il perdono, tu sei la vendetta... deciderà Dio quale delle due leggi sia più
giusta.
— Tu non vuoi dunque essere meco, Stefanella; vuoi lasciarmi morire
solo... giacchè sai che in questa vita si muore presto.
— Tutte le volte che ti occorre un soccorso, vieni da me... troverai sempre il
mio cuore... del resto, Carluccio, uccidimi ma ascolta... io ti amerò più
morto che vivo così.
— Tu sei una santa, disse il brigante inginocchiandosi; benedicimi e fa che
le tue preghiere mi accompagnino.
La Stefanella posò la sua mano sulla fronte del fratello e voltasi al cielo
pregò alcuni minuti con tutto il fervore dell’anima sua. Carluccio si alzò,
asciugò una lagrima, forse la prima, l’ultima di certo che spuntasse su quel
ciglio. Serrò convulsamente la mano della sorella, e dato un fischio
sonorissimo, sparì nella foresta, suo nuovo regno.
XXX.

Da un mese le due Calabrie vivevano nel terrore. Una banda di briganti che
la spaventata fantasia ingrossava, e della quale una più feroce non era mai
comparsa a memoria d’uomini in quella contrada, occupava tutti gli sbocchi
della Sila e minacciava con le più audaci scorrerie fino l’interno delle città.
Erano dieci... venti... cento persino, diceva la voce pubblica; avevano
ramificazioni su tutti i gioghi, manutengoli in tutti i villaggi, minacciavano
tutte le strade, ponevano ricatti a tutte le famiglie, il fuoco a tutte le fattorie,
assalivano, qualche volta, persino i posti dei gendarmi e della truppa
destinata a contenerli. Nessuna vita, nessuna sostanza erano più sicure.
Miravano però alle alte cime e specialmente agli ufficiali del governo. Un
generale avea dovuto riscattarsi con ventimila onze; un intendente era stato
messo a brani, arrostito e spedito così cucinato alla città che aveva
presieduto; sopratutto, se capitava loro nelle mani una donna, la loro rabbia
non aveva più umano confine. Erano obbrobriosamente pollute, uccise e
appese ignude sulla pubblica via. Inseguiti, traccheggiati, cercati a morte da
numerose colonne volanti, aveano saputo fino allora resistere a tutti gli
assalti e sparivano fuggendo nelle loro spelonche, dove nessun occhio
poteva penetrare nè piede umano avventurarsi. Qualche volta battuti pareva
trovassero nelle viscere stesse della terra inesauribili riserve e quando
giungeva la notizie che erano decimati in un luogo, ecco ricomparivano
moltiplicati in un altro. Era la favola dei denti di Cadmo.
Il loro capo sopratutto era il fantasma di tutti i terrori, e il protagonista di
tutti i racconti, l’eroe di tutte le imprese.
Gli affibbiavano una forza favolosa, una giustezza di colpo portentosa, una
carabina infallibile, una gamba inarrivabile, una ferocia insaziabile, un
coraggio indomabile, una specie di potenza miracolosa. Chi lo faceva
vecchio e chi giovane; chi alto e chi basso, chi erculeo e chi sottile, chi gli
prestava una lunga barba e chi lo voleva imberbe come un giovinetto. Tutti
lo dipingevano a capriccio, tutti sognavano di averlo veduto vestito in mille
foggie, da gendarme, da prete, da mercante, da donna, da frate, da gran
signore, da accattone, ma nessuno infatti l’avea veduto, perchè chi l’aveva
veduto non era più tornato a raccontarlo. Chi diceva che era francese, chi
napoletano, chi calabrese; volevasi che parlasse tutte le lingue, che sapesse
tutti i giuochi, che ballasse tutti i balli, che suonasse a meraviglia la
zampogna e cantasse come un cigno.
Era la leggenda di Fra Diavolo ingigantita dal tempo, moltiplicata dagli
aneddoti di un secolo di brigantaggio, esagerata da tutti i colori della
fantasia meridionale.
Quanto a’ nomi glieli davano tutti, ma egli non ne portava alcuno. Non
firmava mai nessuna carta, chi per lusso di precauzione diceva, chi perchè
non sapeva scrivere; ma in luogo di firma adoperava un sigillo che portava
una testa d’Erinni. Laonde il solo nome che gli sia rimasto presso i presenti
e i futuri fu la Furia... Bastava che un qualsiasi uomo o donna per celia o
per minaccia pronunciasse quella parola «la Furia» perchè tutti gli astanti
fuggissero tremando, come se la Furia stessa fosse loro stata alle spalle.
Un suo decreto mandato anche da lontano per mezzo della posta e segnato
del suo terribile suggello valeva come un decreto del re: tutti l’ubbidivano e
non osavano parlare, sapendo che la Furia non perdonava le delazioni e le
scopriva tutte. In molte chiese si erano cominciati tridui, novene e
pubbliche preci per allontanare il grande flagello, ma la Furia comparve un
giorno, solo, in mezzo alla chiesa in piena messa cantata e bastò a mettere
in fuga in un baleno, preti e preganti ed a vuotare la chiesa. Egli prima di
partire bollò del suo sigillo la porta e ordinò che per tre mesi non fosse più
riaperta, e non lo fu.
Perciò la tradizione ripete ancora che «la Furia mise in prigione
Domineddio e nessuno ebbe il coraggio di liberarlo».
L’uomo che menava tanto rumore e tanto spavento di sè, il lettore l’avrà già
indovinato, non era altri che Carluccio. Nessuno sapeva ch’ei fosse il
fratello della Stefanella e nemmeno che fosse di Ritorto. La polizia stessa
ignorava il suo nome e la sua patria, e quest’aria di mistero aumentava la
sua forza. La credulità popolare aveva di certo ingrossata la cronaca delle
sue imprese, ma anche facendo molte concessioni alla favola ed al terrore,
restava pur sempre una gran parte di vero!
Carluccio non comandava infatti che una banda di 24 briganti, ma erano
tutti eccellentemente armati e muniti; aveva complici e manutengoli in tutte
le provincie del regno e in tutti gli ordini della società; disponevano di
somme favolose di denaro, e quel che è più, conoscevano i più nascosti
recessi della contrada, dalla foce del Crati al golfo di Squillace, come i
gendarmi che indarno li inseguivano, conoscevano gli angoli della loro
caserma. Le truppe regie spedite ad attaccarli caddero due o tre volte nelle
loro imboscate e furono costrette a fuggire decimate e sconfitte. Attaccati, si
battevano furiosamente ma non si lasciavano mai circondare, e prima che il
nemico li avesse avvolti, erano già spariti nei burroni inaccessibili della
montagna. Carluccio primeggiava naturalmente per ordine, destrezza e
ferocia, e due o tre imprese compite da solo avevano finito coll’assicurargli
sopra i compagni una incontestabile autorità.
Oltre la famosa comparsa nella chiesa che abbiamo narrato, fece anche
questa:
Sapeva che un ricco barone della contrada maritava la figlia e che il corteo
della sposa dovea partire una notte da Cosenza per avviarsi a Rogliano dove
l’aspettava lo sposo.
Il convoglio di cocchi e di cavalli doveva essere scortato per pompa e per
difesa, sebbene allora la Furia fosse creduta lontana, da una squadra di 24
servi a cavallo armati di tutto punto, coll’ordine di marciare all’avanguardia
e alla retroguardia con tutte le precauzioni militari. Ma erano fuori poche
miglia da Cosenza che uno dei servi a cavallo avvicinatosi al barone, che
l’avea richiesto per non so quale servizio, lo afferrò improvvisamente per la
gola e puntandogli una pistola alla testa, gli disse a bassa voce:
— Io sono la Furia, non ti muovere o sei morto.
Il barone, a quel nome, a quell’atto, al freddo di quella canna che gli
toccava la fronte era già morto prima di essere ucciso e appena ebbe
coraggio di dire:
— Salvatemi, cosa volete?...
— Ordinerai ai tuoi servi che raccolgano qui ai miei piedi tutto l’oro che hai
nella tua carrozza e le gemme che porti a tua figlia e tutte le armi delle quali
sono armati.... poi che tornino tutti indietro, cocchi, cavalli e uomini alla
gran carriera e senza voltarsi indietro... Tu resterai con me, finchè l’ordine
non sarà eseguito... Obbedirai?...
— Obbedirò...
E il Barone ordinò, come aveva suggerito la Furia. I servi ad uno ad uno
venivano pallidi e frementi a deporre chi uno scrigno tempestato di pietre
preziose, chi un’arma rabescata d’argento, e se alcuno si peritava a
brontolare a mezza voce,
— Voi volete ammazzare il signor Barone, diceva la Furia, giuocando col
grilletto della pistola.
In pochi minuti la volontà della Furia era adempita, e quando l’ultimo dei
servi sparì nella risvolta della strada, allora la Furia lasciò il Barone
dicendogli:
— Va, e non t’avventurare più di notte dove regna la Furia.
Il Barone non se lo fece ripetere, e con quanta forza aveva nelle gambe il
suo cavallo, fuggì anch’egli alla volta di Cosenza.
Carluccio, rimasto solo, diè un fischio; quattro o cinque de’ suoi compagni
uscirono dalla macchia e raccolto lo splendido bottino, lo portarono nei
nascondigli della selva, tutti compresi di stupore e di rispetto per l’audacia e
la fortuna prodigiosa del loro capo.
Alla fama di tali imprese una persona sola pativa in segreto senza averne
paura, nè provarne meraviglia: era Stefanella. In sulle prime tutte le volte
che Carluccio mandava a lei o per chiederle o per darle notizie, od anche
per domandarle l’asilo d’una notte, Stefanella, come aveva promesso, non
s’era mai ricusata, e più d’una volta il granaio della vergine aveva ospitato
il terribile la Furia. Una cosa sola Stefanella non aveva mai voluto
acconsentire, cioè, ricevere i doni di denaro e di gioielli che il fratello le
faceva.
— I tuoi regali mi fanno orrore... tu non sei più il Carluccio che ho amato
— gli diceva, e correva a nascondersi in un angolo del granaio e piangeva a
dirotto.
Un giorno essa prese una risoluzione. Carluccio era venuto a vederla
proprio a quel risvolto della strada di Ritorto ove l’avea riveduto la prima
volta: Stefanella gli si mosse incontro fredda e risoluta. E prima che l’altro
le avesse potuto toccar la mano, gli disse:
— Carluccio!... volete lasciare la vita che conducete?... ve lo chieggo in
nome della vostra e mia eterna salute!... Ma, per l’ultima volta, lo volete
voi?...
Carluccio, senza esitare un istante:
— No, rispose. No!... non mi sono ancora vendicato... Quando avrò bevuto
il sangue del cuore di un francese, allora chiederò a Dio perdono dei miei
peccati, e finirò da me stesso.
— Basta!... fratello... noi non ci vedremo mai più, io sono morta per voi...
voi lo sarete per me.
— Sia fatta la vostra volontà... Ciascuno per la sua via... La Furia ha il suo
destino... e non è quello degli angioli... addio... per sempre... ma se un
giorno tu udissi che sulle montagne è accaduta una ecatombe di francesi...
allora dirai che quell’ora fu l’ultima della mia vita... Addio.
E l’uno cacciandosi nel fitto del suo bosco, l’altra rifacendo lentamente la
sua via, si separarono.
XXXI.

Pochi giorni potevano essere trascorsi da questo ritrovo, quando una sera
Stefanella, occupata a far pascolare le sue capre lungo una siepe che
fiancheggiava la postale, vide arrivare una carrozza da posta che montava al
passo l’erta della via. La fanciulla, così diversa in tutto dalle altre non
provava nemmeno la naturale curiosità del paesano per tutto ciò che è
nuovo e forastiero, e intanto che la carrozza s’avvicinava continuò a
starsene seduta sul margine della strada colle spalle rivoltate ai vegnenti.
Frattanto la carrozza le era giunta dappresso, ed essa udì una voce gridarle
in accento gentile, ma straniero:
— Oh bella calabrese!... Quante miglia da qui a Cosenza...
Stefanella si volse come... dire come l’avesse toccata un ferro rovente od
una scintilla di fulmine sarebbe ancora poco... come se tutta la sua anima se
ne fosse andata in quella voce che le aveva parlato ed ella fosse stata portata
via intera in quella carrozza.
Ella si volse, volle fare un passo, chiamare un nome, mandare un grido, ma
la carrozza, superata l’erta, si era slanciata al trotto e, avvolta nella nube di
polvere dello stradone, sparì in pochi istanti dalla sua vista.
Stefanella cadde boccone sulla via e vi restò molti minuti senza sensi e
senza respiro, vivente soltanto in un convulso agitar delle labbra che
tentavano profferire il nome della persona la cui voce aveva udita dopo sei
anni di silenzio e di attesa: il nome e la voce di Gabriele.
A poco a poco trovando quasi diremmo la forza nello stesso nome che
andava mentalmente pronunziando, e scossa da un’altra angosciosa idea che
l’avea assalita simultaneamente alla gioia di quell’incontro, risensò e
alzossi.
Allora stette qualche istante come smarrita in mezzo alla strada, si guardò
intorno, a destra e a sinistra, raccolse le sue idee, rivide con mente più
calma quella carrozza, s’accertò delle persone che dovea portare, pensò
donde veniva, dove andava; conchiuse che erano francesi che andavano a
Cosenza, ma che intorno a Cosenza c’era la banda di suo fratello, e che fra
quei francesi c’era la vita del suo amante, e compiendo rapidamente questo
ragionamento,
— Salvarlo!... — esclamò — salvarlo o morire; e senza nemmeno volgere
un’occhiata alle sue capre, senza nemmeno curarsi di quel che lasciava e di
quello che rischiava, si pose a correre per la strada nella direzione che
aveva preso la carrozza.
Stefanella conosceva tutti i sentieri e le scorciatoie della valle e del monte, e
immaginava inoltre dove poteva essere Carluccio. Fatta quindi una
mezz’ora di cammino sullo stradone infilò a sinistra una viottola e poco
dopo un sentiero ripido appena segnato da una leggierissima orma di piede
umano. L’impazienza, l’ansia, la paura, l’amore le aveano posto le ali ai
piedi: arrivare un’ora, un quarto, un minuto prima o dopo, poteva essere la
salvezza o la morte.
Questo pensiero le centuplicava la vita: i suoi muscoli delicati non
sentivano la stanchezza, e l’eccitamento nervoso nel quale si trovava le
teneva luogo di forza e non le lasciava modo di calcolar la fatica. Balzava di
rupe in rupe coll’agilità d’una cerva fuggente, ma più agitata d’una cerva
fuggente non si fermava mai a rifiatare o a dissetarsi.
Camminava così da circa due ore, e giudicando dal folto della selva e dalla
profondità dell’avvallamento, credeva essere poco lontana dai quartieri
della masnada. S’era fatta già notte, ed ella, attraverso le ombre rese più
fitte dall’immenso tetto della selva, e che avvolgevano tutto intorno la
contrada, scorgeva appena il cammino. Mano mano che s’avvicinava, il
cuore le batteva più forte e la forza l’abbandonava. Temeva non arrivare più
in tempo e ogni passo che faceva le pareva fosse tardo... inutile... perduto,
pure camminava, quasi sospinta da un soffio invisibile, magnetico! Alla fine
un fischio le passò via per l’orecchio ed ella continuò a camminare... Un
altro fischio rispose.. ed ella si mise a correre... un terzo fischio e un
tumulto di voci vicine replicò, e fatti ancora pochi passi si trovò circondata
da una torma d’uomini armati e mostruosi che non si sapeva dire se usciti
dal ventre della terra, o calati dalle cime della foresta.
— Ferma!... piglia!... agguanta!... bottino!... bottino!... — urlarono in coro
quei masnadieri.
— Alto!... — gridò la giovane che era già preparata a questa apparizione —
sono Stefanella, la sorella della Furia, dov’è egli?...
— La sorella del capo?... baie!... — rispose taluno.
— Conducetemi da lui se non lo credete... ma io farò appiccare il primo che
avrà detto baie...
— Dev’essere lei — rispose uno più vecchio della banda. — Il capo è
dentro il burrone e ha molto da fare...
— Ha da fare?... coi francesi che son passati or ora... — chiese la Stefanella
dissimulando, con un coraggio sovrumano, tutta l’angosciosa sollecitudine
della domanda che faceva.
— Brava!... oh! come lo sai?
— Glieli ho fatti arrivar io, rispose Stefanella, ma guidatemi a lui... e subito.
— Sì, guidiamola... largo a Stefanella... Viva Stefanella!... vieni...
— Corriamo... vedi, son là... questi sono i cavalli... questo qui legato è il
postiglione... sono quattro: due uomini e due donne... denari pochi però...
Ma il capo dice che regalerà tutto a noi... per sè non vuole che i cuori...
Galante il nostro capo!...
Un’altra volta Stefanella a questo orrendo scherzo sarebbe cascata in
deliquio. Ma ormai, risoluta a gettar la vita nella catastrofe d’una tragedia,
raccoglieva tutto il suo coraggio e voleva arrivare alla fine.
Fatti ancora pochi passi nella spaccatura d’una montagna, che, guardata
dall’alto pareva una fessura e nel fondo era una valle, nascosta dai pini e
dagli abeti della foresta, le si parò d’innanzi questa scena che il chiarore di
due fiaccole di resina, infisse nel suolo, rischiarava in tutto il suo orrore.
Quattro persone stavano legate ginocchioni contro la parete della caverna
tremanti, disfatte, color della morte. Un uomo giovane ancora, ombreggiato
da una leggiera lanugine, senza armi, in maniche di camicia, brandiva una
frusta e passeggiava su e giù davanti agl’inginocchiati salutandoli di tratto
in tratto sul volto con un colpo del suo lungo scudiscio, e bevendo alla
salute della «Vendetta» in un calice d’oro, preziosa reliqua del convento dei
Certosini di Cadossa, al quale aveva messo una taglia.
La Furia, quando arrivò Stefanella, aveva appena incominciato a parlare:
— Non mi farete il torto di credere che voglia salvarvi la vita.... penserò
alle frustate che ho ricevuto, alla fame che ho durata, alla prigione che ho
sofferta e moltiplicherò tutto questo per due fratelli; vi metterò in conto la
prostituzione di una vergine e la corruzione d’un fanciullo e farò una
miscela che spero riescirà degna degl’ingredienti... Già ti cercavo e capirai
che t’ho riconosciuto... Tu eri il capo di qnell’altro brigantaggio parigino,
brigantaggio delle volpi contro i pulcini, men terribile ma più schifoso del
mio... tu sei l’uomo della tratta dei fanciulli... indarno ti tenevi nascosto, ma
io t’ho veduto... sei stato tu a ordinare le verghe di mia sorella, la sua
prostituzione... tu a far di me un saltimbanco... Io non so il tuo nome, ma
che m’importa?... io t’ho sempre chiamato la Fiera, per questo io mi
chiamo oggi la Furia... Tu m’hai fatto perdere tutto... l’innocenza, la bontà,
l’onore, la libertà, la giovinezza, la fede... tutto... persino l’amore di mia
sorella... la sola santa che io preghi... il solo Dio che riconosca... Ebbene...
tu e questa tua iniqua parentela... morrete... non so bene di qual morte... ma
della più lunga... della più atroce... della più spasmodica... Io raccoglierò
una ad una le goccie del tuo sangue in questo calice e ne farò un brindisi...
conterò uno ad uno i tuoi lamenti e ne formerò una musica... cercherò con
uno spillo nel tuo cervello le idee del male che t’hanno nutrito e... le
ucciderò ad una ad una... strapperò dal tuo cuore le fibre del delitto che ne
hanno formato il tessuto e le darò ai miei cani... L’anima tua sarà stanca di
sentire gli strazi del corpo nel quale io la terrò prigioniera... e.... invocherà
come una grazia.... l’inferno.
E finito il discorso, la Furia tracannò un altro sorso del suo calice e si
sedette come spossato per terra. In quel mentre una mano leggiera si posò
sulle sue spalle: egli si volse e riconobbe Stefanella.
— Tu qui?! ora? — sclamò, e restò stupidito a contemplarla.
— Io... io che ti perdonerò e vivrò sempre con te... se...
— Se?...
— Se tu salvi costoro, — disse risoluta la giovane accennando i prigionieri.
— Mai!... vattene... non mi tentare... o guai anche per te, Stefanella.
— Allora io voglio morire con loro... e tu non li potrai più toccare nemmeno
con quella frusta, se prima non avrai ucciso anche me...
— Sei pazza, Stefanella?...
— Sarò pazza... se l’amore è una pazzia...
— Tu... ami costoro?
— Quel giovane lì in mezzo... è Gabriele... egli mi ha promesso la sua
anima... io gli ho dato la mia... Son cinque anni che l’aspetto... egli andò in
esiglio per me... Egli mi salvò altra volta l’onore che è più della vita... io gli
devo restituire il suo dono...
— Non capisco... costui?
— Io doveva essere venduta a un ricco libertino... a un Norvegiano, credo...
Una sera mi dovevano dare un filtro che m’avrebbe tolti i sensi... quand’egli
comparve, come ora io compaio qui, mi portò via di là e mi condusse con
lui.
— Tu dunque sei stata sua amante? — fece Carluccio guardandola fisso ed
agitato d’un sospetto.
— Io sono stata sua fidanzata, Carluccio.... egli mi ha rispettata, ed io sono
pura...
— Ma poi? — chiese ancora incredulo il brigante.
— Poi.... suo padre lo mandò lontano perchè diceva che era troppo giovane
per sposarmi.... Gabriele partì promettendo che sarebbe tornato.... egli è
venuto....
— Ebbene, Stefanella.... io lo salverò.... è un debito che pago per te.... ma
lui solo.... lui solo, hai capito?...
— Oh, tutti, Carluccio... tutti.... egli non accetterebbe....
— Lui solo, ripeto, è anche troppo — e così dicendo Carluccio s’alzò, andò
verso i quattro prigionieri e piantandosi di faccia al più giovane lo apostrofò
così:
— Dimmi!... vuoi tu aver salva la vita?...
Gabriele, era lui, guardò il brigante con un’occhiata piena di serenità e di
fermezza. Gabriele era un’uomo di coraggio, soldato, e non temeva la
morte....
— Rispondi, — fece impaziente la Furia.
— Lo vorrei di certo.... — rispose Gabriele — ma non solo....
— Solo! gli altri morranno.
— Solo, rifiuto!... — rispose fieramente il giovane francese.
— Hai del cuore.... non sei della razza.... ebbene, vada per tutti, ma ad una
condizione però....
— Quale?
— Che tu sposi questa fanciulla — disse Carluccio tirando avanti Stefanella
che era rimasta fino allora nel fondo della caverna ad aspettare colla febbre
una risposta.
Quantunque gli anni l’avessero un poco mutata, Gabriele la riconobbe
subito. Egli restò a occhi spalancati e a bocca aperta senza respirare,
immobile, pallido come non lo era mai stato sotto le minaccie di morte del
brigante. Alfine gli uscì dalle labbra un Tu di sorpresa; guardò suo padre, gli
lesse negli occhi la confessione della sua esistenza obbrobriosa, sentì senza
spiegarselo che egli e Stefanella erano state vittime d’un tradimento, che il
brigante diceva la verità, che egli era infame nel suo sangue e nel suo nome,
e la testa gli cascò sul petto senza forza e senza moto, invocando il
compimento del suo destino.
— Gabriele!... mormorò la vergine inginocchiandosi vicino a lui.
— La riconosci, non è vero?... fece il brigante.
— La riconosco.... l’avrei riconosciuta fra cent’anni.... ma ciò che mi chiedi
è impossibile.
Stefanella tremò tutta; la Furia sogghignò e chiese:
— Impossibile!... come mai?..
— Io non potrei ingannarti una seconda volta.... preferisco morire.... Io sono
d’un altra.... sono ammogliato....
Stefanella mandò un urlo e cascò supina senza vita....
La Furia impugnò una pistola e muggì:
— Ah!... francesi!... traditori!... morrete dunque tutti.... — e puntò contro la
fronte di una delle donne la canna micidiale. Quei quattro sciagurati
credettero giunto l’ultimo loro momento, quando il brigante riavendosi
continuò:
— No, sarebbe morte troppo breve.... la festeggieremo col sole domattina,
una notte di agonia farà bene a voi ed anche a me.... e gettata la pistola, si
lasciò cadere sopra un letto di pelli e di foglie apprestato in un angolo della
caverna. Le fatiche e le emozioni l’avevano affranto; le frequenti e insolite
libagioni gli avevano dato alla testa e non si reggeva più di stanchezza e di
sonno. Appena fu steso nel suo giaciglio, si addormentò profondamente.
XXXII.

Qui n’è d’uopo aprire una parentesi, per dare al lettore un indispensabile
schiarimento.
Gabriele s’era mantenuto fedele alla memoria di Stefanella fino al suo
ritorno a Parigi. Il tempo e la compagnia di uomini che erano soliti a trattare
l’amore come un trastullo avevano finito coll’attiepidire l’ardore primitivo
dei suoi vent’anni; ma tuttavia, tornando in Francia, egli credeva sentire
ancora tanto affetto nel cuore da poter sciogliere senza sforzo la sua
promessa. Infatti, scorsi tre anni e tornato a Parigi, la prima cosa che chiese
a suo padre fu della sua fidanzata, ma suo padre assumendo un contegno di
tristezza e facendo precedere le sue parole da un sospiro, gli rispose:
— Che vuoi, figlio mio!?... io l’ho custodita e protetta per un anno intero ed
era felice di potertela conservare pura ed intatta... Illusione!... Un giorno
ella disparve con un altr’uomo ed io per quanti sforzi facessi non ne ebbi
mai più notizia.
— Menzogna, gridò il giovane.
— Tu dimentichi che parli a tuo padre, replicò severamente De-Mauve, ma
ti perdono; poniti tu stesso alla ricerca e lo vedrai.
Gabriele infatti si diede a cercare di Stefanella per tutta Parigi.... Ne chiese
al mondo elegante, al mondo equivoco, al mondo turpe, alla polizia, agli
ospedali, alle carceri, e in capo a molti mesi ebbe la conferma che una
calabrese della quale non si sapeva nemmeno il nome era uscita da un luogo
infame per passare in un carcere.
Restò atterrito e per più mesi istupidito e quasi pazzo. Egli non poteva
credere che Stefanella fosse discesa spontaneamente in tanta abbiezione e la
credeva vittima d’un tradimento; ma intanto ella non c’era più, ella era
perduta, era come morta. E i fedeli alla morte son pochi; sopravvive forse
nei più gentili il fiore della ricordanza, ma a poche anime elette è dato
eternare sopra una tomba il fiore ardente dell’amore.
Però Gabriele, bella ma non perfetta natura, più generoso che costante e
abbastanza buono per vagheggiare, ma non abbastanza forte per consacrare
la sua vita al culto di un ideale che la scettica saviezza del suo tempo e del
suo paese derideva, piegò agli eventi, agli anni, al destino; si credette
obbligato a vivere come tutti gli altri, sciolto dalla sua promessa; ricordò
qualche volta con una lacrima il suo mesto idillio di gioventù e vi posò
sopra una pietra.
Scorso alcun tempo, il padre, sempre intento ad apprestargli la fortuna, gli
propose un ricco matrimonio. Gabriele mostrò dapprima qualche riluttanza,
ma poi si arrese. La sposa parve gentile, la coppia bene assortita: il padre
insisteva, il mondo applaudiva, Gabriele finì col credere d’amare la sua
promessa e di essere felice con lei. Egli si sposò e nella settimana stessa col
padre, la matrigna e la sposa si mise in viaggio per l’Italia. Il resto ci è noto:
il primo viaggio di nozze doveva finire nella caverna del brigante.
XXXIII.

Stefanella, scosso il terribile colpo che aveva ricevuto, aprì gli occhi a
stento, e all’incerto crepuscolo che spandeva nella caverna il fioco lume
d’una lanterna cieca, potè vedere che i quattro prigionieri erano sempre
legati e ginocchioni allo stesso posto. Allora si alzò a stento e stette un
istante a pensare: poi coll’atto di chi ha preso una risoluzione si
inginocchiò, fece una rapida preghiera, rialzossi e corse vicino a Gabriele,
dicendogli a bassa voce:
— Io vi salverò... secondatemi... e silenzio.
Detto ciò, corse al fratello e brancolando cercò dove teneva la mano destra
nella quale portava l’anello dell’Erinni che gli serviva di sigillo. La mano
gli pendeva abbandonata per terra. Essa la prese delicatamente, la sollevò
leggierissimamente, ne cavò l’anello e se lo pose in dito. Stefanella sapeva
che Carluccio aveva prescritto che chiunque gli portasse un ordine a nome
suo mostrando quell’anello dovea essere obbedito. Poi la Stefanella,
brandito un coltello che giaceva sulla tavola, cominciò a tagliare le ritorte
che tenevano avvinti i francesi e quando l’ultimo fu libero.
— Aspettatemi! disse, scendo subito.
E Stefanella salì per il sentiero della caverna fino alla sua imboccatura. Ivi
vegliava un brigante in sentinella; mostrò l’anello e gli disse:
— Ordine del capo di lasciarmi passare coi francesi.
La sentinella guardò l’anello e rispose:
— Passate.
Stefanella ridiscese a’ suoi liberati e sempre a bassa voce disse loro:
— Seguitemi ora....
Gabriele, la sua sposa, De-Mauve e la matrigna si mossero insieme come
spettri usciti da un sepolcro, per il sentiero sul quale Stefanella li precedeva.
In capo a pochi minuti furono tutti di sopra. La sentinella disse:
— Quanti sono?...
— Quattro!... rispose Stefanella, e si fermò all’imboccatura per contarli:
l’ultimo a salire era stato Gabriele e quando egli al chiarore delle stelle
rivide il volto della santa fanciulla che era stata tanta parte de’ suoi sogni
giovanili, s’arrestò un attimo per contemplarla e per dirle forse una parola
d’affetto.
— Andate via!... fate presto!... fece la giovine interrompendogli la parola
sulle labbra. — Ma Stefanella non aveva ancora profferito queste parole che
due detonazioni partirono dal basso della caverna, e nello stesso tempo
Gabriele e Stefanella rotolarono insieme di pietra in pietra fino al fondo
dell’antro e vi restarono immobili.... morti!...
Carluccio ad onta della grande cautela impiegata dai fuggitivi, aveva sentito
un lieve rumore e, avvezzo agli all’erta s’era destato. Egli apriva gli occhi
proprio nel momento che Gabriele toccava la soglia dell’antro e
s’avvicinava a Stefanella. A quella vista egli non fece che balzar dal suo
letto, afferrare la sua carabina a due colpi e puntare le sole due persone che
avesse sotto la mira. Egli aveva ferito al cuore sua sorella e Gabriele al
cervello.
Allo scoppio dell’archibugio tutta la masnada fu in all’arme; la voce di
tradimento si sparse da una fila all’altra e gli altri tre francesi che si
trovavano nella notte smarriti per il bosco, furono a colpi di coltello, di
fucile e di scure massacrati. In pochi minuti erano tutti morti.
Carluccio intanto aveva aperta la sua lanterna cieca e s’era curvato sul
corpo dei feriti per riconoscerli.... Guardò il primo era Gabriele, guardò
l’altro era Stefanella.
Il brigante si precipitò sul bel corpo che egli aveva piagato, ne cercò i battiti
e non li trovò; volle ridestarne il calore, ma solo il gelo della morte gli
rispose; cercò scuoterla, rianimarla, e vide una testa già livida e inanimata
penzolargli tra le braccia.
Allora, ben persuaso che era morta.... diè fiato tre volte al suo fischio e tutti
i briganti in un attimo accorsero colle faci sull’alto della caverna.
E quando vide tutta la banda raccolta, fe’ un cenno colla mano e parlò:
— La Furia ha finito!... egli s’era fatto brigante per vendicare costei che le
pende morta fra le braccia.... Ma per vendicarla l’ha uccisa.... Dio ha
mostrato che la vendetta è fatale a chi l’adopera e colpisce colla stessa arma
il vendicatore. Voi non lo credete?... Guardate allora.
E afferrato il pugnale che portava infisso alla cintola se lo affondò nella
gola, e spirò senza un gemito, tra i corpi di Gabriele e Stefanella l’anima
fiera.

FINE.
NOTE:

1. La prima fu fatta dai Tipi Polizzi della Riforma, la seconda nelle Appendici del Pungolo
di Napoli.

2. È nota la tradizione che nel medio evo trasformò il Virgilio, poeta pagano, in una specie di
mago o di genio taumaturgo protettore del popolo. Ma più che altrove il culto democratico
di Virgilio perseverò nel Mezzogiorno d’Italia, a Napoli ed in Calabria, forse perchè quivi
il poeta mantovano visse e morì — Mantua me genuit; Calabri rapuere, tenet nunc
Parthenope — Oggi il santo democratico e gentile è detronizzato dal santo aristocratico e
cristiano; oggi san Gennaro ha scacciato Virgilio. L’arte può però immaginare che
dovunque sopravvive lo spirito della rivolta sociale, il taumaturgo popolare e
repubblicano non sia del tutto dimenticato, e che le anime ribelli godano invocarlo come
uno scongiuro e profferirlo come una sfida contro il santo avversario. Ecco perchè
l’abbiamo posto sulla bocca del brigante.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute,
correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.
*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA TRATTA DEI
FANCIULLI ***

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