Finalmente Ho Capito A Cosa Serve La Matematica Giuseppe Bruzzaniti Ugo Bruzzo
Finalmente Ho Capito A Cosa Serve La Matematica Giuseppe Bruzzaniti Ugo Bruzzo
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@VallardiEditore
www.illibraio.it
ISBN 978-88-6987-456-7
Problematiche
Immagine 1
Figura 1
La stessa cosa è fatta dal poeta con le parole o dal pittore con le immagini
(come approfondiremo al punto 15), ma anche dal matematico: quando
quest’ultimo scrive ax + by + c = 0 non sta facendo altro che rappresentare
con dei simboli una retta come quella in Fig. 2.
Immagine 2
Figura 2
Immagine 3
Figura 3
Immagine
Immagine
Immagine
oppure:
Immagine
6. Torniamo ora a parlare di matematica come strumento di
rappresentazione. Dando alle variabili un’interpretazione “più
concreta”, possiamo dare significato alle espressioni
matematiche in altri contesti?
Sicuro. E uno dei contesti più utilizzati è quello geometrico. Consideriamo,
per esempio, la seguente espressione:
Immagine
Immagine 4
Figura 4
Immagine
IL METODO MATEMATICO
8. La matematica ha un suo metodo?
Certamente. Anzi, fra le discipline scientifiche, la matematica è quella che
ha il metodo più particolare. Infatti, poiché le diverse teorie matematiche
sono sempre sistemi logicamente coerenti, ogni affermazione deve essere
rigorosamente provata.
Ogni teoria matematica ha una struttura generale, che possiamo
schematizzare come segue:
• si suppone l’esistenza di alcuni enti (oggetti) fondamentali, che non
sono definiti a partire da altri oggetti, ovvero che sono definiti a priori.
Per esempio, nella geometria euclidea piana i concetti di piano, retta e
punto sono enti fondamentali;
• si assume l’esistenza di relazioni fondamentali fra i suddetti enti,
anch’esse non deducibili da altre relazioni. Per esempio, sempre in
geometria euclidea il fatto che un punto stia su una retta è una relazione
fondamentale;
• si postulano alcune proprietà fondamentali, non dimostrabili, degli
oggetti: gli assiomi. Per esempio, nella classica disposizione della
geometria euclidea piana il quinto assioma dice che: “dati una retta r e
un punto P a essa esterno, per P passa una e una sola retta parallela a
r”;
• si dimostrano dei teoremi.
Per esempio, supponiamo di voler dimostrare che: “la somma degli angoli
interni di un poligono convesso di n lati vale (n − 2) angoli piatti”. Poiché
un poligono convesso è individuato da una porzione delimitata di piano e
dato che per individuare tale porzione sono necessari almeno tre segmenti,
questa affermazione evidentemente ha senso quando n vale almeno 3 e poi
per tutti i valori superiori.
Immagine 5
Figura 5
Spunti di riflessione
IL METODO MATEMATICO
16. Esiste un unico modo di formulare gli assiomi di una
teoria?
No, al contrario, spesso uno stesso assioma può avere diverse formulazioni
equivalenti.
Per fare un esempio possiamo di nuovo lavorare sul quinto assioma di
Euclide: “dati una retta r e un punto P a essa esterno, per P passa una e
una sola retta parallela a r”. È infatti possibile dimostrare (e il lettore può
cimentarsi a darne un prova) che le affermazioni riportate di seguito sono
equivalenti a tale assioma.
• Se in un quadrilatero ABCD i due angoli  e Immagine sono retti e i due
lati AD e BC sono uguali (Fig. 6), allora anche gli altri due angoli sono
retti (questa formulazione è dovuta a Padre Saccheri, un matematico
italiano vissuto a cavallo dei secoli XVII e XVIII).
Immagine 6
Figura 6
• Date due rette parallele tagliate da una trasversale (Fig. 7), la somma dei
due angoli coniugati interni è pari ad un angolo piatto.
Immagine 7
Figura 7
Immagine 8
Figura 8
Immagine 9
Figura 9 - La figura a destra è ottenuta disponendo quattro triangoli rettangoli, come quello
rappresentato nella figura a sinistra, all’interno di un quadrato di lato a.
Immagine
ossia:
Immagine
da cui
Immagine
Teorema
Dato un triangolo qualunque, esso è isoscele.
Dimostrazione
Immagine 10
Figura 10
La bisettrice di un angolo è quella retta che divide l’angolo in due angoli uguali.
L’asse di un segmento è la retta perpendicolare al segmento che passa per il suo punto
medio.
Due rette si dicono perpendicolari quando dividono il piano in quattro angoli uguali
(retti).
Sia O il punto in cui tale bisettrice e tale asse si incontrano e sia M il punto
medio di BC (il segmento MO giace perciò sull’asse di BC).
Conduciamo le perpendicolari OD e OE rispettivamente ad AB e AC.
Consideriamo i triangoli AOE e AOD: essi sono congruenti, perché sono
entrambi triangoli rettangoli con l’ipotenusa AO in comune e gli angoli
acuti OÂD e OÂE congruenti (perché la retta che passa per A e O è la
bisettrice di BÂC). Da ciò si deduce che AE = AD e OE = OD.
Due figure si dicono congruenti quando un moto rigido del piano permette di
sovrapporle esattamente una all’altra.
SOLUZIONE
Il principio di funzionamento del sistema crittografico RSA è piuttosto
semplice. Prova a leggerlo sulla pagina web
http://it.wikipedia.org/wiki/RSA
• PROBLEMA 2
Come si interpreta geometricamente la relazione x2 − y2 = (x + y) · (x −
y)?
SOLUZIONE
Osserviamo la Fig. 11. Ammettendo che y sia minore di x, il primo
membro dell’equazione rappresenta l’area di una figura, tratteggiata in
Fig. 11a, ottenuta togliendo all’area del quadrato di lato x l’area del
quadrato di lato y. L’equazione ci dice che l’area di tale figura è
equivalente a quella di un rettangolo di base (x − y) e altezza (x + y),
tratteggiato in Fig. 11b. Tale uguaglianza si può facilmente verificare
“tagliando” il rettangolo che si trova in alto a destra in Fig. 11a e
spostandolo in basso a sinistra in Fig. 11b.
Immagine 11
Figura 11
• PROBLEMA 3
Come si calcola 3,013 in maniera semplice e veloce?
SOLUZIONE
Nella sezione Problematiche abbiamo visto un modo per approssimare (x
+ y)2 nel caso in cui y sia molto più piccolo di x e come esempio abbiamo
calcolato 3,012.
Per calcolare 3,013 basta utilizzare lo sviluppo del cubo del binomio e
pensare che 3,01 è uguale a 3 + 0,01. Come nel caso del quadrato di x +
y, anche qui ci sono quantità trascurabili. Se si fanno bene i conti, il
risultato dovrebbe essere 27,27.
• PROBLEMA 4
Esiste un modo per duplicare un quadrato, ossia costruire un quadrato
di area doppia rispetto a quella di un quadrato di area assegnata?
SOLUZIONE
Questo problema è tratto dal Menone di Platone. In questo libro Socrate
pone il quesito a un giovane che, come prima risposta, suggerisce di
raddoppiare il lato del quadrato assegnato. Socrate fa però osservare che
in questo modo la superficie ottenuta non sarebbe doppia, ma quadrupla
di quella data (Fig. 12).
Immagine 12
Immagine 13
Figura 13
• A partire dalle prime righe di questo capitolo per finire con l’intervista a
Ennio De Giorgi, si è accennato all’applicazioni della matematica alla
costruzione di modelli dei processi naturali. Che la matematica sia in
grado di descrivere il mondo è un fatto che viene spesso dato per
scontato, anche se la cosa non è affatto ovvia: anzi, questo è uno dei
campi che più ha impegnato i filosofi della scienza di tutti i tempi.
• Eugene P. Wigner, uno dei più grandi fisici del XX secolo, ha scritto un
interessante saggio sull’argomento: L’irragionevole efficacia della
matematica nelle scienze naturali. Questo saggio si apre con un
simpatico aneddoto.
C’è una storiella che racconta di due amici, che erano compagni di classe
al liceo; questi si incontrano e parlano dei loro rispettivi lavori. Uno di
loro, che fa lo statistico e lavora sulle dinamiche delle popolazioni,
mostra all’amico un articolo da lui scritto. L’articolo inizia, come
sempre, con la distribuzione gaussiana, e lo statistico spiega al vecchio
compagno di classe il significato dei simboli: uno si riferisce alla
popolazione nel suo complesso, uno alla popolazione media, e così via.
L’amico è un po’ incredulo e non è sicuro che lo statistico non lo stia
prendendo in giro.
«Come fai a saperlo?», chiede, «E che cos’è questo simbolo?»
«Ah», dice lo statistico, «questo è pi greco.»
«E sarebbe?»
«Il rapporto fra la circonferenza di un cerchio e il suo raggio.»
«Bene, adesso stai esagerando», dice il compagno di classe, «di certo la
popolazione non ha nulla a che vedere con la circonferenza del cerchio.»
(E. Wigner, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the
Natural Science in Communications in Pure and Applied Mathematics,
vol. 13, n. I (February 1960), pag. 1, New York: John Wiley & Sons, Inc.
Copyright © 1960 by John Wiley & Sons, Inc.)
II. IL LINGUAGGIO DELLA MATEMATICA
Problematiche
Immagine 14
Figura 1 - Nei triangoli rettangoli AHB e A′H′B′ gli angoli in A, A′, B, B′ sono tutti di 45°, quindi AH
= HB e A′H′ = H′B′. Per calcolare AH (l’altezza della piramide) basta dunque sommare al segmento
CB (l’ombra della piramide) il segmento HC (la lunghezza della semibase della piramide).
Il ragionamento di Talete rivela che per tutti i triangoli rettangoli con angoli
acuti di 45° il rapporto tra i due cateti è 1, indipendentemente dalle
dimensioni del triangolo.
Si tratta di un ragionamento molto importante, perché il concetto di figure
simili sul quale si basa può essere esteso non solo ad altri triangoli con
angoli diversi da 45°, ma anche ad ogni altra figura.
Se ci pensiamo un attimo, abbiamo molto spesso a che fare con questa idea.
Per esempio quando guardiamo la fotografia di una casa, sappiamo che non
stiamo osservando la vera casa, ma una sua rappresentazione; tuttavia siamo
certi che quella rappresentazione è molto simile alla casa fotografata. Allo
stesso modo quando osserviamo immagini rimpicciolite o ingrandite di
qualche oggetto abbiamo la netta sensazione che, dimensioni a parte,
qualcosa si conservi e renda le immagini simili tra loro. In ognuno di questi
due casi a conservarsi sono le proporzioni dell’oggetto rappresentato, il
che significa che se volessimo rappresentare fedelmente un portone
rettangolare di altezza 4 metri e base 2 su un foglio A4, saremmo obbligati a
disegnare un portone in cui il rapporto tra l’altezza e la base sia pari a 2,
ossia lo stesso rapporto che c’è tra l’altezza e la base del portone originale.
Queste considerazioni sono il fulcro dell’idea di similitudine, che va intesa
come una “trasformazione dei punti del piano tale che se A e B sono due
punti qualsiasi e A′ e B′ i loro corrispettivi, allora vale la relazione
Immagine dove k è detto fattore di scala o di similitudine”.
Immagine 15
Figura 2 - La base della prima figura è il doppio della base della seconda. Le due figure sono simili
se tra due punti qualunque A e B della prima e i corrispettivi A′ e B′ della seconda vale la relazione:
Immagine In questo caso il fattore di scala è 2.
Immagine
sono simili se:
Immagine
• valgono due delle seguenti condizioni:
Immagine
• vale:
Immagine
Per riassumere, possiamo dire che ognuno di questi insiemi di rapporti tra
lati assume lo stesso valore indipendentemente dalle dimensioni del
triangolo; l’unico modo per cambiare tale valore è variare l’angolo α tra le
due semirette. Per questo motivo è possibile pensare a questi rapporti
caratteristici come a quantità che contraddistinguono l’angolo α, tanto
che a essi sono stati attribuiti dei nomi particolari proprio a partire
dall’angolo stesso: sin α (seno di α) è il rapporto tra il cateto opposto ad α e
l’ipotenusa; cos α (coseno di α) è il rapporto tra il cateto adiacente all’angolo
α e l’ipotenusa; tan α (tangente di α) è il rapporto tra il cateto opposto e
quello adiacente ad α.
Più in generale, abbiamo visto che i lati di figure simili sono proporzionali
tra loro secondo un certo fattore di scala. Ma questo discorso può essere
esteso, con qualche accorgimento, anche ad altre grandezze, per
esempio all’area delle figure piane o al volume dei solidi. Dall’analisi della
Fig. 4 si può facilmente osservare che se raddoppiamo il lato di un quadrato
la sua superficie non raddoppia ma quadrupla, e che se raddoppiamo il lato
di un cubo otteniamo un cubo il cui volume è otto volte quello del cubo
originale.
Immagine
Immagine
Tabella 1
Questo fatto si generalizza a tutte le figure simili dicendo che “per le figure
piane le superfici sono proporzionali al quadrato di una qualunque delle loro
dimensioni lineari e per i solidi i volumi sono proporzionali al cubo di una
qualunque delle loro dimensioni lineari”.
Immagine 17
Figura 4 - Il quadrato di lato 2a contiene 4 quadrati di lato a e il cubo di lato 2a contiene 8 cubi di
lato a.
Una traslazione sposta una figura lungo una retta (in alto, in basso, a destra, a sinistra).
Una rotazione ruota una figura intorno a un punto.
Comporre due trasformazioni g e h (in matematica si scrive gh) significa applicare
all’oggetto su cui stiamo lavorando prima la trasformazione h e poi la trasformazione g.
Immagine 18
Figura 5 - I due triangoli, pur essendo traslati e ruotati uno rispetto all’altro, conservano le stesse
proprietà.
Immagine 19
Figura 6 - Ogni traslazione è dotata di inversa. La traslazione a porta il triangolo dalla posizione 1
alla posizione 2 e la traslazione −a lo riporta nella posizione iniziale.
Nel gruppo delle traslazioni l’ordine in cui componiamo le traslazioni non
ha importanza: come mostra la Fig. 7, una traslazione a destra di 10 cm
seguita da una traslazione in alto di 4 cm ha lo stesso effetto di una
traslazione in alto di 4 cm seguita da una traslazione a destra di 10 cm. In
formule possiamo scrivere gh = hg, dove h è la traslazione di 10 cm verso
destra e g quella di 4 cm verso l’alto. In linguaggio tecnico si dice che il
gruppo delle traslazioni è abeliano (il termine viene usato in onore del
matematico norvegese Niels Henrik Abel, che visse nella prima metà del XIX
secolo).
Immagine 20
Figura 7 - Il gruppo delle traslazioni è abeliano, ossia il triangolo passa dalla posizione 1 alla
posizione 2 facendo agire, indifferentemente, prima g e poi h oppure prima h e poi g.
Anche le rotazioni delle figure nel piano sono un gruppo abeliano, mentre
non lo sono le rotazioni degli oggetti nello spazio tridimensionale. La Fig. 8
ci illustra proprio questo caso. Prendiamo un mattone e teniamolo fra le
mani in posizione orizzontale, in modo da guardarne la faccia di superficie
maggiore. Applichiamo adesso una rotazione di 90o in senso antiorario
attorno alla direzione orizzontale, e poi una rotazione di 90° in senso
antiorario attorno alla direzione verticale. Memorizzata la posizione in cui si
trova il mattone dopo la seconda rotazione, ripetiamo l’operazione
invertendo l’ordine delle rotazioni. Il mattone è adesso in una posizione
diversa dalla precedente e ciò dimostra che il gruppo delle rotazioni in tre
dimensioni non è abeliano.
Immagine 21
Figura 8 - Il gruppo delle rotazioni in tre dimensioni non è abeliano. Nella prima sequenza
orizzontale il mattone subisce due rotazioni di 90° in senso antiorario: la prima lungo un asse
orizzontale, la seconda lungo un asse verticale. Nella seconda sequenza le due rotazioni sono
invertite: prima quella lungo l’asse verticale, poi quella lungo l’asse orizzontale. I due risultati sono
diversi.
TRADUZIONE DA UN LINGUAGGIO A UN
ALTRO: DALLA GEOMETRIA ALL’ALGEBRA
8. Algebra e geometria sono due aree diverse della matematica
oppure esiste una relazione che le lega?
Ciò che lega algebra e geometria è più di una relazione: il connubio tra le
due discipline può essere visto come uno dei fondamenti su cui, nel XVII
sec., si iniziò a costruire la matematica moderna. Per quanto si possano
trovare idee e intuizioni in autori precedenti, solitamente l’applicazione
dell’algebra alla geometria è attribuita a Cartesio e il risultato di questa
unione viene chiamato “geometria analitica”. Il termine “analitica” mostra
quanto sia riduttivo parlare di applicazione dell’algebra alla geometria,
poiché solo l’applicazione del calcolo differenziale e integrale alla geometria
– cioè l’uso di tecniche cosiddette “analitiche” – ha reso questa disciplina un
potentissimo strumento per la risoluzione di problemi.
L’idea che sta alla base della geometria analitica consiste nell’associare i
punti della retta ai numeri reali. In pratica, per prima cosa si sceglie un
punto O (origine) sulla retta e lo si identifica con lo zero dei numeri reali.
Successivamente si sceglie un’unità di misura e un’orientazione sulla retta,
generalmente da sinistra a destra. A questo punto è possibile far
corrispondere a ogni numero reale x un punto sulla retta, scegliendo il
particolare punto che si trova a distanza x a destra di O se il numero x è
positivo, oppure a distanza −x a sinistra di O se x è negativo. Viceversa, è
possibile associare un numero reale x a ogni punto della retta: tale
numero (ascissa) rappresenta la distanza del punto dall’origine, avendo
l’accortezza di aggiungere un segno positivo se siamo a destra di O e
negativo se siamo alla sua sinistra.
Allo stesso modo è possibile identificare i punti del piano con coppie
di numeri reali. Scelto un punto O del piano, si tracciano due rette
ortogonali orientate che passano per O. Una di queste rette viene chiamata
asse delle ascisse (o delle x) e l’altra asse delle ordinate (o delle y):
usualmente si scelgono le orientazioni degli assi in modo che ruotando in
direzione antioraria il semiasse positivo delle ascisse questo si sovrapponga
al semiasse positivo delle ordinate dopo una rotazione di 90°; la coppia di
assi così scelta è detta sistema di coordinate e viene denotata come la terna
xOy. A questo punto, preso un qualunque punto P, i due numeri reali x0
(ascissa) e y0 (ordinata) che lo rappresentano si ottengono facendo una
proiezione ortogonale del punto su entrambi gli assi, così come
rappresentato in Fig. 9.
Immagine 22
Immagine 23
Figura 10 - La coppia (1,2) identifica un punto del piano diverso da quello identificato dalla coppia
(2,1).
Per esempio, come si evince dalla Fig. 11, il teorema di Pitagora diventa la
seguente affermazione: “dati due punti (x1,y1) e (x2,y2), la loro distanza è
data dalla quantità
Immagine
Immagine 24
Figura 11 - La distanza d tra P1 e P2 può essere calcolata come l’ipotenusa di un triangolo
rettangolo i cui cateti sono x2 − x1 e y2 − y1.
Immagine 25
Figura 12 - In (a) la retta r è l’asse del segmento AB poiché tutti i suoi punti sono
equidistanti dagli estremi A e B: AR = RB; AS = SB; AT = TB; AU = UB. In (b) la
semiretta r è la bisettrice dell’angolo formato dalle semirette s e q poiché tutti i punti di r
sono equidistanti da q e s: CT = TC′; BS = SB′; AR = RA′.
Figura 13 - Tutti i punti della circonferenza hanno distanza r dal centro C di coordinate (x0,y0).
DIZIONARIO BILINGUE
Linguaggio geometrico Linguaggio algebrico
Punto del piano → Coppia di numeri reali (x0,y0)
… → …
Tabella 2
Immagine 27
Figura 14 - Posizione reciproca di due rette nel piano: (a) incidenti, (b) parallele, (c) coincidenti.
La ricerca geometrica dei punti d’intersezione tra due rette si traduce, in
linguaggio algebrico, nella ricerca delle soluzioni di un sistema di due
equazioni. Le soluzioni di un sistema sono infatti quei valori delle due
incognite che soddisfano le due equazioni del sistema, così come i punti
d’intersezione tra due rette sono quei punti che appartengono a entrambe le
rette.
Poiché ogni retta è espressa da un’equazione del tipo ax + by + c = 0, il
sistema che permette di determinare le intersezioni cercate è il seguente:
Immagine
Immagine 28
Immagine
Immagine
Immagine 29
Figura 16 - La posizione del punto P può essere può essere fissata sia attraverso le coordinate (x,y),
sia attraverso le coordinate (ρ,θ).
Immagine 30
Figura 17 - In figura è disegnata una circonferenza di raggio 2 con centro nell’origine: la condizione
che tutti i suoi punti devono soddisfare è quella di avere una distanza dall’origine pari a 2. In
coordinate cartesiane questo si esprime con l’equazione x2 + y2 = 4. In coordinate polari, invece, con
ρ = 2.
Immagine 31
Figura 18 - Il centro O della circonferenza circoscritta al triangolo ABC è individuato
dall’intersezione degli assi di due lati qualsiasi del triangolo. Nel caso qui rappresentato sono le rette
perpendicolari ad AB e AC e passanti, rispettivamente, per i loro punti medi M e N. In figura è
illustrato il modo, limitatamente al solo lato AB, per tracciare l’asse di un segmento: puntando il
compasso prima in A e poi in B si tracciano due circonferenze uguali di raggio maggiore della metà
di AB. L’asse del lato è la retta che passa per i due punti di intersezione delle due circonferenze.
Immagine
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che porta alla soluzione cercata. A prima vista il sistema che abbiamo scritto
può sembrare molto complicato. Ma non appena sostituiamo il valore di r2
fornito dalla prima equazione nella seconda e nella terza equazione,
arriviamo a notevoli semplificazioni: tutti i termini di secondo grado in x0 e
y0 si semplificano e rimangono solo i termini di primo grado. Lasciamo
quindi decidere al lettore quale sia il metodo più semplice.
Spunti di riflessione
Immagine 32
Figura 19 - Una griglia e la sua immagine ottenuta attraverso una trasformazione conforme: gli
angoli sono preservati nel senso che le curve, pur essendo distorte rimangono perpendicolari.
Immagine 33
Immagine 34
Figura 21 - Proiezione stereografica di una porzione dell’America del Sud. In questo caso il piano
della proiezione è tangente al Polo Sud.
Immagine 35
Figura 22 - Proiezione stereografica di una regione della superficie terrestre attorno al Polo Nord.
Benché non preservi lunghezze e forme, la proiezione preserva gli angoli: le proiezioni dei paralleli e
dei meridiani continuano infatti a essere perpendicolari.
16. Il Programma di Erlangen (1872) parte dalle trasformazioni
per definire la geometria. Qual è stata la sua importanza nello
sviluppo della matematica moderna?
Dopo una pausa durata circa un secolo e mezzo, nel XIX secolo ritornò in
auge l’interesse per la geometria: in questo periodo furono dimostrati
tantissimi teoremi, molti dei quali sulla base della grande tradizione della
geometria sintetica di tipo euclideo. Le nuove teorie formulate, infatti,
continuavano ad avere l’usuale struttura logicodeduttiva in cui i teoremi
venivano dimostrati a partire da un insieme di assiomi tramite alcune
“regole del gioco”. A metà del XIX secolo, però, la geometria fu
protagonista di una grande svolta: la geometria analitica fu la base sulla
quale matematici del calibro di Bernhard Riemann, Karl Theodor Wilhelm
Weierstrass e Gregorio Ricci-Curbastro diedero vita alla geometria
differenziale, una branca importantissima della geometria moderna.
Furono inoltre inventate nuove geometrie (per esempio la geometria di
Riemann e la geometria di Lobačevskij) che non obbedivano agli assiomi
della geometria euclidea. Questi studi diedero luogo a confusione e
perplessità nella comunità matematica: alcuni studiosi, infatti, rifiutarono
sistematicamente le nuove geometrie poiché non obbedivano a tutti gli
assiomi della geometria euclidea, considerati fino ad allora talmente evidenti
e consoni alla realtà del nostro mondo fisico da essere ritenuti irrinunciabili.
Nel Programma di Erlangen, Felix Klein propose di spostare l’enfasi
dall’insieme degli assiomi che introducono gli oggetti di cui poi la
geometria si occuperà, al gruppo di trasformazioni rispetto al quale la
geometria sarà poi invariante. Questo principio ha in sé una valenza
rivoluzionaria e molto “democratica”. Esso infatti permette di mettere
l’accento sul fatto che non esiste una geometria più giusta dell’altra, ma
che semplicemente esistono geometrie che hanno gruppi diversi di
invarianza: in questo senso la geometria euclidea è definita come la
geometria del gruppo euclideo, cioè del gruppo formato da traslazioni,
rotazioni e composizioni di queste. Il Programma permette inoltre di
mettere in luce precise relazioni fra le diverse geometrie e di poter
ragionare da un punto di vista più generale, non più vincolato al
paradigma della geometria euclidea.
Lo stesso Klein, nella prefazione alla traduzione inglese dell’articolo in cui
presentò il suo programma, si dichiarò sorpreso dall’interesse sollevato e
dalla vastità delle applicazioni che esso aveva ricevuto in pochi anni dalla
sua enunciazione.
Lo spirito del Programma di Erlangen è stato completamente
assimilato dalla matematica moderna, ed è anche alla base delle
moderne teorie fisiche in cui il concetto di simmetria (rispetto a
opportune trasformazioni) è così importante.
TRADUZIONE DA UN LINGUAGGIO A UN
ALTRO: DALLA GEOMETRIA ALL’ALGEBRA
17. La geometria euclidea è stata utilizzata per secoli perché è
la più generale che si possa definire?
Nient’affatto. La geometria euclidea è stata largamente usata perché descrive
molto bene la realtà del mondo fisico così come la percepiamo con i nostri
sensi. Ma tale realtà può, per esempio, essere generalizzata dalla
geometria del gruppo affine. Nello spazio a 2 dimensioni, una
trasformazione affine è descritta dalle equazioni:
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Nell’usare le tre coordinate omogenee X, Y, Z per individuare i punti del piano (euclideo)
bidimensionale, stiamo pensando quest’ultimo come un sottospazio del cosiddetto piano
proiettivo, che consiste nell’insieme delle rette dello spazio tridimensionale che passano
per l’origine (si noti che l’insieme di queste rette è uno spazio bidimensionale, come si
può capire constatando che ogni retta è individuata dal suo punto di intersezione con la
sfera di raggio unitario nel trispazio; tale sfera è chiaramente bidimensionale). Le
coordinate (cartesiane) X, Y, Z di un punto di una retta del trispazio sono le coordinate
omogenee della retta pensata come punto del piano proiettivo. Un punto aX, aY, aZ (con
a non nullo) sta sulla stessa retta, e quindi le coordinate omogenee aX, aY, aZ
individuano lo stesso punto del piano proiettivo.
Il piano proiettivo si può pensare come formato dal piano euclideo (che possiamo
identificare con il sottospazio del piano proiettivo dove Z ≠ 0) più la retta Z = 0, detta
“retta all’infinito” (nel trispazio, questa retta è il piano di equazione Z = 0).
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Immagine 36
Figura 23 - Le coordinate di P sono (x,y) nel sistema xOy e (x′,y′) nel sistema x′O′y′.
In Fig. 24 il sistema x′Oy′ è ottenuto a partire dal sistema xOy ruotando gli
assi x, y di un angolo α. In questo caso il legame tra le coordinate dello
stesso punto nei due sistemi è dato da:
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Immagine 37
Figura 24 - Il sistema x′Oy′ è ruotato di un angolo α rispetto al sistema xOy. Per ottenere le
coordinate (x′,y′) del punto P nel sistema accentato si osservi che x′= OK + KQ′ = O′Q cos α + PQ sin
α = x cos α + y sin α e che y′= PS − Q′S = PQ cos α − OQ sin α = y cos α −x sin α.
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Posto:
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la (2.4) diventa:
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Problemi di approfondimento
• PROBLEMA 1
Osserviamo la nave rappresentata in Fig. 25. Attraverso una misura
particolare è stato possibile determinare la misura degli angoli a e β,
rispettivamente 50° e 40°, nonché la lunghezza del tratto AB, pari a 10 metri.
È possibile determinare l’altezza della nave?
Immagine 38
Figura 25 - OH è l’altezza della parte emersa della nave che bisogna determinare.
SOLUZIONE
Riassumiamo inizialmente i dati e le richieste del problema:
Dati:
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Le equazioni 2.5 e 2.6 costituiscono un sistema di due equazioni nelle due
incognite OA e OB:
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Sostituendo infine uno di questi due valori nella 2.5 si ottiene l’altezza OH
della nave, che risulta pari a 28,9 metri.
• PROBLEMA 2
È possibile dimostrare il teorema di Pitagora sfruttando il fatto che per le
figure piane le superfici sono proporzionali al quadrato di una qualunque
delle loro dimensioni lineari?
Osserviamo la Fig. 26. L’altezza CH relativa all’ipotenusa AB del triangolo
rettangolo ABC suddivide quest’ultimo in due triangoli simili ad ABC
stesso.
SOLUZIONE
Immagine 39
Figura 26 - Il triangolo ABC è suddiviso dall’altezza CH in due triangoli che risultano simili al
triangolo di partenza e quindi simili tra loro.
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Poiché inoltre:
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si ha:
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e, dividendo per k:
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• PROBLEMA 3
Come si può dimostrare che tutte le equazioni di primo grado in x e y del tipo
ax + by + c = 0 rappresentano rette?
SOLUZIONE
Prima di passare alla soluzione del problema ricordiamo che, mentre in
geometria euclidea la retta è un ente primitivo (ossia un termine assunto
senza definizione come il punto o il piano), in geometria analitica possiamo
definire una retta come “il luogo dei punti del piano che soddisfano
un’equazione di primo grado”. In altri termini, in geometria euclidea il
concetto di retta è primitivo, mentre in geometria analitica il concetto di
retta può essere definito. Quello che ci proponiamo di illustrare risolvendo
questo problema è che le equazioni di primo grado costituiscono la
traduzione algebrica di proprietà che caratterizzano geometricamente la
retta, ed è per questo motivo che esse vengono dette equazioni lineari.
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Figura 27 - Il punto P(x,y), che appartiene all’asse del segmento AB, è equidistante da A e da B.
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Ponendo ora:
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Problematiche
GLI INSIEMI
1. C’è nella matematica un oggetto che può essere considerato
il più elementare di tutti?
Molti matematici hanno pensato per qualche tempo che un simile oggetto
esistesse davvero e che tutta la matematica potesse essere costruita a partire
da esso: tale oggetto era l’insieme. Oggi questa convinzione è superata, ma
il concetto di insieme continua a svolgere un ruolo di grande
importanza all’interno della matematica.
Figura 1 - A è un sottoinsieme di B.
Figura 2 - La zona più scura appartiene sia ad A sia a B. Essa rappresenta perciò l’intersezione tra A
e B.
Figura 3 - La zona in grigio appartiene ad A oppure a B. Essa rappresenta perciò l’unione tra A e B.
LE RELAZIONI E LE FUNZIONI
5. È possibile costruire altri oggetti matematici a partire dagli
insiemi?
Sì. Grazie agli insiemi si possono costruire alcuni tra i più importanti
oggetti matematici: le relazioni e le funzioni, che, intuitivamente,
costituiscono il modo più semplice e naturale per “associare” elementi di
un insieme a elementi di un altro insieme.
Ma prima di addentrarci in questi concetti è necessario introdurre alcune
definizioni: quella di coppia, di coppia ordinata e di prodotto cartesiano.
Una coppia è “l’insieme formato da due soli elementi x e y, e si scrive {x,y}”.
Si osservi che l’ordine con il quale sono elencati gli elementi x e y è del tutto
inessenziale.
Talvolta, però, è necessario che la coppia possieda un ordine, ossia bisogna
poter distinguere il primo elemento dal secondo. Si pensi, ad esempio al
modo in cui scriviamo le date: la coppia (2,3) indica il 2 marzo, mentre la
coppia (3,2) indica il 3 febbraio. Aggiungiamo perciò alla definizione di
coppia quella di coppia ordinata, ovvero “l’insieme che gode delle seguenti
proprietà:
• (x,y) ≠ (y,x) se e solo se x ≠ y;
• ogni coppia non ordinata {x,y} determina due e solo due coppie ordinate
(x,y) e (y,x)”.
Figura 5 - Le frecce associano Marco ad Anna e Sara, e Paolo a Elena. Marco e Paolo appartengono
all’insieme A mentre Anna, Elena e Sara appartengono all’insieme B.
Figura 7 - I tre grafici si riferiscono a situazioni diverse. In (a) a ogni elemento dell’insieme A è
associato un solo elemento dell’insieme B, quindi il grafico rappresenta una funzione. In (b)
all’elemento al dell’insieme A sono associati due elementi dell’insieme B, quindi il grafico non
rappresenta una funzione. In (c) a ogni elemento dell’insieme A è associato un solo elemento
dell’insieme B, quindi il grafico rappresenta una funzione.
Alcuni autori chiamano codominio quello che qui abbiamo chiamato Im f e insieme di
arrivo quello che qui abbiamo chiamato codominio.
In termini più intuitivi si può pensare una funzione come una “regola”, o
una “legge”, che associa a ogni elemento a del suo dominio A un solo
elemento f(a) del suo codominio B: una sorta di scatola nera in cui entra
l’elemento a, poi f opera su questo elemento ed esce l’elemento b (Fig. 8).
dove B è l’insieme dei numeri reali (cioè tutti i numeri, positivi e negativi,
interi e decimali, periodici e non, dei quali verrà data una definizione
rigorosa dal punto 14 in avanti), e A e A′ sono due intervalli di numeri reali:
in particolare A è l’intervallo costituito da tutti i numeri compresi tra 0 e 1,
e A′ da quelli compresi tra 2 e 3. Si osservi ora che le due leggi che
caratterizzano rispettivamente f e g sono le stesse: entrambe trasformano
l’elemento in ingresso nel suo doppio. Nonostante questo, le due funzioni
sono diverse, come risulta facilmente osservando i loro grafici riportati in
Fig. 9.
Figura 9 - Le due funzioni f e g, pur essendo caratterizzate dalla stessa legge, sono diverse: il loro
dominio è diverso, per cui anche il loro grafico è differente.
Facendo riferimento alla Fig. 7, il caso (a) rappresenta una funzione non
iniettiva e non suriettiva: non iniettiva poiché elementi diversi del dominio
(a2 e a3) hanno la stessa immagine (b2), non suriettiva poiché esiste un
elemento del codominio (b3) che non è immagine di alcun elemento del
dominio. Il caso (c) rappresenta invece una funzione biiettiva poiché è sia
iniettiva sia suriettiva.
I NUMERI
13. Nel pensiero comune i numeri sono gli oggetti matematici
per eccellenza. Lo sono davvero? E vanno interpretati come
enti primitivi?
Effettivamente è vero che, se si facesse un’indagine chiedendo agli
intervistati che cosa sia la matematica, si otterrebbe come risposta più
frequente una frase del tipo: «La matematica è una scienza che studia i
numeri». In realtà, per quanto possa sembrare strano, il concetto di
numero non è primitivo in matematica, ma si può derivare da quello di
insieme. La teoria degli insiemi è pertanto il vero cardine su cui poggia e si
muove l’intero edificio della matematica. È per questo motivo che
introduciamo solo ora i numeri, dopo aver introdotto e illustrato la nozione
di insieme e alcune nozioni e costruzioni a essa correlate.
Prima di parlare di numeri dal punto di vista matematico, soffermiamoci un
attimo a pensare ai numeri che usiamo nella vita di tutti i giorni. La prima
cosa di cui ci rendiamo conto è che esistono diversi insiemi numerici. I
numeri che usiamo quando contiamo gli elementi di un insieme, per
esempio quando contiamo quanti sono gli studenti di una classe, ovvero i
numeri 0, 1, 2, 3… sono i numeri naturali. Sin dai tempi della scuola
elementare, però, abbiamo appreso che questo insieme di numeri non è
sufficiente per soddisfare tutte le necessità del nostro quotidiano; per
esempio non si può rispondere con un numero naturale alla domanda:
«Quale frazione della popolazione di Genova ha più di 75 anni di età?». La
risposta sarà infatti espressa con una frazione o con una percentuale, due
modi diversi di scrivere un numero razionale. Ci capita spesso anche di
dover usare numeri negativi (un sottoinsieme dei numeri interi) in modo da
poter sottrarre due numeri senza preoccuparci di quale sia il più grande dei
due. O, ancora, di dover usare numeri che “hanno la virgola” ma non sono
razionali (un sottoinsieme dei numeri reali), come per esempio il rapporto π
= 3,1415… fra la lunghezza di una circonferenza e la lunghezza del suo
diametro.
Questa breve premessa delinea lo schema con cui introdurremo i vari
insiemi numerici: iniziando dai numeri naturali, definiti a partire dalla
teoria degli insiemi, ci renderemo conto che, per poter compiere certe
operazioni, si renderà necessario introdurre insiemi numerici (gli interi,
i razionali, i reali, i complessi) via via sempre più flessibili.
Abbiamo parlato di classe di tutti gli insiemi, e non di insieme di tutti gli insiemi, per non
naufragare in acque pericolose. Stiamo infatti toccando il cosiddetto paradosso di
Russell, in base al quale non esiste l’insieme di tutti gli insiemi; ma visto che non è
nostra intenzione addentrarci in queste sottigliezze, ci accontentiamo di risolvere la cosa
in maniera puramente linguistica parlando di classe di tutti gli insiemi.
Una possibile definizione di insieme infinito è dovuta a Dedekind: “Si dice che un
insieme è infinito quando esiste una biiezione, cioè un’applicazione biiettiva, fra l’insieme
e un suo sottoinsieme proprio”.
15. Che cosa sono i numeri interi? E come si passa dai naturali
agli interi?
I numeri interi sono “numeri naturali con un segno”; per esempio, oltre
che 2, 5, 37, sono numeri interi anche −5, −10, −567.
In generale possiamo motivare l’introduzione di nuovi insiemi numerici con
la richiesta di chiusura del nuovo insieme rispetto a certe operazioni. Come
vedremo tra breve, nel nostro caso i numeri interi vengono introdotti a
partire dai numeri naturali affinché il nuovo insieme sia chiuso rispetto
all’operazione di somma.
Iniziamo a lavorare sui numeri naturali N. Per prima cosa è facile verificare
che, sommando due numeri naturali se ne ottiene un terzo. Sappiamo
inoltre che l’operazione di somma tra numeri naturali gode di alcune
proprietà:
• esiste un elemento neutro, lo zero: infatti abbiamo n + 0 = n per ogni
numero naturale n;
• l’operazione di somma è associativa: se dobbiamo sommare tre numeri
naturali, possiamo sommarne due e sommare il risultato al terzo numero,
e il risultato non dipende da quale coppia di numeri abbiamo scelto di
sommare all’inizio. In formula, abbiamo (m + n) + p = m + (n + p) per
qualunque numero naturale m, n, p.
Queste due proprietà ci inducono a pensare che l’insieme dei numeri
naturali sia un gruppo, con la somma come legge di composizione. Un
esame più attento, però, mostra che l’insieme dei numeri naturali non è
un gruppo rispetto alla somma perché manca dell’inverso: se m è un
numero naturale, infatti, non esiste un altro numero naturale n tale che m +
n = 0.
L’insieme dei numeri naturali è quindi un semigruppo, cioè una struttura
che presenta tutte le proprietà di un gruppo tranne l’esistenza dell’inverso.
In realtà è molto facile “completare” un semigruppo, ovvero aggiungere
degli elementi, in modo che l’insieme completato sia un gruppo. Nel caso
dei numeri naturali, quello che possiamo fare è proprio aggiungere gli
inversi. Consideriamo l’insieme delle coppie (m,n) di numeri naturali e
definiamo “la somma tra due coppie (m,n) e (p,q) come (m,n) + (p,q) = (m +
p,n + q)”.
Questa operazione di somma ammette un elemento neutro, cioè la coppia
(0,0).
A questo punto identifichiamo le coppie che soddisfano la seguente
relazione: “due coppie (m,n) e (p,q) sono equivalenti, e scriviamo:
Se m è numero naturale, diciamo che coincide con il suo valore assoluto |m|, mentre il
valore assoluto del numero intero negativo −m è ancora m. Quindi |m| = m se m è
positivo, |m| = −m se m è negativo.
Per esempio |4| = 4, |−3| = 3.
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qualunque siano gli interi u, v, z. Queste caratteristiche rendono i numeri
interi un anello commutativo.
Se ora scriviamo la coppia (p,q) nella più comune notazione p/q, la relazione
di equivalenza si scrive p/q ~ r/s. In questo modo è facile riconoscere nella
3.4 una nota proprietà delle frazioni.
Seguendo questo approccio appare evidente che quando, per esempio,
scriviamo 20/25 = 4/5, stiamo dicendo che lo stesso numero razionale
può essere rappresentato mediate diverse frazioni fra loro equivalenti.
In un certo senso la frazione “piu semplice” p/q che rappresenta un
numero razionale è quella in cui i due termini p, detto “numeratore”, e
q, detto “denominatore”, sono primi fra loro. Data una frazione, la
ricerca della frazione equivalente in cui numeratore e denominatore
sono primi tra loro è detta “riduzione ai minimi termini”. In questo
senso le frazioni 20/25, 4/5 e 32/40 sono tutte equivalenti, ma solo 4/5 è
ridotta ai minimi termini. Infine, esattamente come i numeri naturali sono
un sottoinsieme dei numeri interi, gli interi sono un sottoinsieme dei
numeri razionali: ogni numero intero m si può, infatti, pensare come una
frazione m/1 (quindi lo 0 e l’1 degli interi diventano rispettivamente lo 0 e
l’1 dei razionali).
Possiamo ora definire un’operazione di somma e una di moltiplicazione tra
frazioni secondo le regole:
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Si chiama “corpo” un anello in cui tutti gli elementi non nulli hanno un inverso rispetto
alla moltiplicazione.
Un corpo commutativo non solo rispetto alla somma ma anche rispetto alla
moltiplicazione si dice “campo”.
I numeri razionali sono quindi un campo, cioè un anello commutativo in
cui tutti gli elementi non nulli hanno un inverso rispetto alla
moltiplicazione.
Infine, anche i numeri razionali, al pari dei numeri interi, sono ordinati.
Ma in che modo ordinare i numeri razionali quando sono scritti come
frazioni m/n non è un’operazione del tutto ovvia; per farlo conviene
introdurre la notazione decimale per i numeri razionali.
Per scrivere una frazione in notazione decimale si utilizza l’algoritmo di divisione che
abbiamo imparato alle scuole elementari.
Supponiamo di considerare una frazione m/n positiva, cioè in cui gli interi m e n hanno lo
stesso segno; in base alla nostra definizione di numero razionale, possiamo assumere
che m e n siano entrambi positivi, infatti le due frazioni m/n e −m/−n sono equivalenti.
Calcoliamo quante volte n sta in m, ovvero, calcoliamo qual è il più grande numero
naturale p tale che p · n < m; se m < n, allora p = 0. Il naturale p è la parte intera del
numero decimale che stiamo calcolando. Adesso calcoliamo il resto r = m − p · n, lo
moltiplichiamo per 10, e ripetiamo la divisione; scriviamo quindi il risultato a fianco della
parte intera dopo una virgola.
In questo modo, se partiamo dalla frazione 27/10, abbiamo p = 2 e r = 7: moltiplicando il
resto per 10 abbiamo 70, quindi la seconda divisione produce il decimale 2,7. Poiché
questa seconda divisione ha resto 0, l’algoritmo di divisione si può considerare concluso.
Per trasformare la frazione 456/53 in un numero decimale, invece, i passaggi sono un
po’ di più: in notazione decimale, infatti, diventa 8,6037736.
Tutto questo ha una piccola complicazione, che per il momento abbiamo ignorato:
l’algoritmo di divisione, infatti, potrebbe essere infinito. Per esempio, la prima divisione
per trasformare la frazione 4/3 in forma decimale, dà come parte intera 1 e resto 1;
moltiplicando il resto per 10 abbiamo 10, quindi la seconda divisione per 3 dà come
prima cifra decimale 3 con resto 1; ripetendo più volte l’operazione, quindi, otteniamo il
numero decimale 1,3333333… senza mai fermarci. Numeri decimali di questo tipo sono
detti “periodici”, sia che il periodo inizi “subito dopo la virgola”, sia che inizi più avanti.
Per esempio, il numero decimale 6,326754675467546754… con il gruppo di cifre 6754
che si ripete indefinitamente, è la frazione Immagine Anche i numeri decimali
periodici sono,evidentemente, rappresentazioni di numeri razionali.
Resta da notare che introduciamo la notazione decimale solo perché abitualmente
usiamo numerare in base dieci.
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Solitamente definiamo un numero pari come un numero che può essere diviso per 2.
Ma questo non è che il modo “comune” per dire che un numero pari contiene il fattore 2,
ovvero che se il numero p è pari, allora si può scrivere p = 2n.
I numeri dispari, viceversa, sono numeri che non contengono il fattore 2; se p è dispari
scriviamo p = 2n + 1.
In una successione {an} di termini an, n è un numero naturale che prende i valori 0, 1,
2, … ed etichetta i termini della successione.
Calcoliamo ora le differenze tra i termini con lo stesso indice di queste due
successioni, ovvero calcoliamo le differenze bn − an: b1 − a1 = 0,1; b2 − a2 =
0,01; b3 − a3 = 0,002… Evidentemente, queste differenze diventano sempre
più piccole mano a mano che procediamo nella successione, ovvero via via
che l’indice n assume valori più grandi. Se ora disponiamo idealmente i
valori an e bn su una retta, notiamo subito che i segmenti aventi questi
estremi diventano sempre più piccoli e si addensano attorno a un punto:
intuitivamente, questo punto limite rappresenta il numero Immagine
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Diciamo che “una successione {an} di numeri razionali converge a un numero razionale
a se, ogni volta che scegliamo un numero razionale positivo e anche molto piccolo, cioè
molto vicino allo zero, possiamo far sì che
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a patto di prendere n abbastanza grande, ovvero a patto di andare abbastanza avanti
nella successione”.
Si noti che la 3.5 si può anche scrivere: a − ε < an< a + ε, il che ci dice (visto che
abbiamo deciso di prendere ε piccolo quanto vogliamo) che i termini della successione si
avvicinano ad a quanto vogliamo al crescere di n (Fig. 14).
Il numero a è detto limite della successione e, in generale, si dice che la
successione è convergente e converge al limite a.
Non tutte le successioni convergono a un limite. Per esempio, la semplice successione
an = n non converge ad alcun limite: i termini diventano via via più grandi, ma non si
avvicinano mai a un numero particolare.
Evitando di entrare nei dettagli, ricordiamo che le successioni di numeri razionali
convergenti hanno un ottimo comportamento algebrico. Infatti, date due successioni
an e bn che convergono rispettivamente a due limiti a e b, vale che:
• le successioni aventi termini an − bn e an + bn convergono,
rispettivamente, ai limiti a − b e a + b;
• preso un qualunque numero razionale c, la successione avente
termini c · an converge a c · a;
• la successione di termini an · bn converge al prodotto a · b.
Per rendere più rigoroso l’approccio intuitivo col quale stiamo cercando di
completare l’insieme Q, nel caso del nostro esempio diciamo che
identifichiamo il numero Immagine con una delle successioni che lo
approssimano. L’esempio ci spinge a notare che il limite della successione
non può essere un numero razionale, altrimenti saremmo daccapo con i
nostri problemi. Come fare allora a riconoscere le successioni che ci
interessano? Il suggerimento è fornito dal fatto che, quando abbiamo una
successione approssimante per difetto e una approssimante per eccesso, le
differenze dei rispettivi termini diventano sempre più piccole, ossia la
successione delle differenze converge a zero. Per prima cosa utilizziamo
questa proprietà per definire una tipo particolare di successioni: le
successioni di Cauchy.
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Figura 15 - La dimostrazione di Cantor sulla corrispondenza biunivoca tra numeri razionali e numeri
naturali.
I numeri reali non sono numerabili. Questo vuol dire che non esiste una
corrispondenza biunivoca fra i numeri reali e i numeri naturali.
Per dimostrare questo fatto è conveniente ridursi all’intervallo aperto (0,1); è infatti facile
vedere che la retta reale e l’intervallo (0,1) sono in corrispondenza biunivoca.
Intuitivamente, si tratta di ingrandire l’intervallo (0,1) con un fattore di scala sempre più
grande; mano a mano che il fattore di scala aumenta, l’intervallo diventa sempre più
grande, sino a coincidere al limite con la retta reale.
Più rigorosamente, possiamo notare le che la funzione Immagine stabilisce
esattamente una corrispondenza biunivoca fra (0,1) e R.
Quello che dobbiamo fare, quindi, è dimostrare che l’intervallo (0,1) non è numerabile;
per arrivare a questa conclusione possiamo basarci sulla stessa idea di partenza con cui
abbiamo dimostrato che i numeri razionali sono numerabili.
Supponiamo, per assurdo, che l’intervallo (0,1) sia numerabile. Allora possiamo
associare a ogni numero di questo intervallo un numero intero e scrivere: (0,1) = {x1, x2,
x3,…}. Utilizzando per il numero x1 la notazione decimale x1 = 0, a11 a12 a13 … e così
via, facciamo corrispondere all’intervallo (0,1) una “tabella infinita”:
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Figura 16 - La funzione rappresentata in figura stabilisce una corrispondenza biunivoca
tra i punti dell’intervallo (0, 1) e l’insieme dei numeri reali. Lo possiamo dedurre
osservando che tutte le rette parallele all’asse delle y comprese nell’intervallo (0,1)
intersecano in un punto il grafico della funzione, che si estende da − ∞ a + ∞.
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Se è vero che (0,1) è numerabile, allora tutti i numeri dell’intervallo (0,1) sono contenuti
in questa tabella.
Costruiamo adesso un numero reale y = 0, y1y2… yn … scegliendo per ogni n la n-sima
cifra yn della sua scrittura in forma decimale come un numero da 0 a 9 diverso da ann.
Così facendo y risulta diverso da 0,000… = 0 e da 0,999… = 1, e quindi appartiene
all’intervallo (0,1). Ma, poiché y ha almeno una cifra decimale diversa da ognuno degli
xk, allora y è diverso da tutti i numeri xk appartenenti a (0,1). Quest’ultima affermazione,
quindi, contraddice il fatto che tutti i numeri reali nell’intervallo (0,1) siano inclusi nella
tabella, e quindi contraddice l’ipotesi iniziale che l’intervallo (0,1) sa numerabile.
Di conseguenza, e in conclusione, i numeri reali non sono numerabili.
20. Abbiamo costruito il corpo dei numeri reali anche per poter
fare la radice quadrata dei numeri positivi. E se volessimo fare
la radice quadrata di un numero negativo?
Nonostante il corpo dei numeri reali sia già piuttosto flessibile,
nuovamente l’estrazione della radice quadrata può crearci dei problemi
perché sembra possibile solo limitatamente ai numeri positivi. Infatti,
per come abbiamo definito l’operazione di radice quadrata e per via della
regola di segno del prodotto, y2 è sempre positivo (a meno che y = 0) e
quindi i numeri reali negativi non hanno radici quadrate! La questione in
realtà è più seria di quanto possa sembrare, infatti ci crea difficoltà già a
partire dalla risoluzione delle equazioni algebriche di secondo grado,
operazione che tutti conosciamo dalla scuola. Per esempio, l’equazione x2 −
4 = 0 si può scrivere: x2 = 4 ed evidentemente le due radici quadrate di 4, i
numeri 2 e −2, risolvono questa equazione. Se però volessimo risolvere
l’equazione x2 + 4 = 0 saremmo nei guai, perché questa volta dovremmo
estrarre la radice quadrata del numero negativo −4. Più in generale,
un’equazione di secondo grado ax2 + bx + c = 0 si risolve mediante la
formula:
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Prima di eseguire una costruzione rigorosa del corpo dei numeri complessi,
lavoriamo un po’ di immaginazione. Introduciamo per il nuovo corpo
l’esistenza di un elemento, che denotiamo con “i” e chiamiamo “unità
immaginaria”, con la seguente proprietà: il suo quadrato vale −1, cioè
i2 = −1. Questo numero risolve tutti i nostri problemi perché, assumendo
che le espressioni contenenti questa nuova quantità si manipolino
esattamente come quelle che contengono solo numeri reali, si ha, per
esempio, che (2i)2 = 22 · i2 = −4. In generale, se x è negativo (per cui −x
è positivo e ammette radici quadrate), le radici quadrate di x si
possono quindi scrivere: Immagine
Chiamiamo quindi tutti i numeri del tipo ia, dove a è un numero reale,
“immaginari puri”, e definiamo “numero complesso” un numero del tipo
a + ib dove a e b sono entrambi reali. A questo punto non abbiamo più
problemi a risolvere l’equazione 3.6, anche quando il suo discriminante Δ =
b2− 4ac è negativo, a condizione di accettare soluzioni che siano numeri
complessi. Le due soluzioni sono infatti date da:
Immagine
Immagine
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Infine, per comprendere che cosa abbia a che fare tutto questo con le radici
quadrate e con i numeri immaginari, notiamo innanzitutto che la regola 3.7
implica (0,1) · (0,1) = (−1, 0). Se ora identifichiamo i numeri immaginari ib
con le coppie (0,b) e quindi, in particolare, l’unità immaginaria i con la
coppia (0,1), l’algebra del corpo C è esattamente l’algebra dei numeri
complessi, cioè i numeri del tipo a + ib che ci siamo inventati per estrarre le
radici quadrate dei numeri negativi. Con questa identificazione, a + ib
rappresenta semplicemente una diversa notazione per la coppia (a,b).
Nella pratica si usa la notazione a + ib, però l’introduzione dei numeri
complessi come coppie di numeri reali con una particolare struttura
algebrica rende la loro costruzione del tutto rigorosa.
Spunti di riflessione
GLI INSIEMI
21. Se è vero che gli elementi di un insieme sono insiemi, allora
la relazione di appartenenza e quella di inclusione tra due
insiemi sono la stessa cosa?
No. Bisogna fare molta attenzione a non confondere la relazione di
appartenenza x ∈ A con la relazione di inclusione x ⊆ A, altrimenti
confonderemmo un elemento con l’insieme costituito da quell’elemento.
Anche se x è un insieme, x è diverso dall’insieme costituito da x. In altre
parole, è vero che: x ∈ {x}, ma non è vero che x = {x}.
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Problemi di approfondimento
• PROBLEMA 1
In questo capitolo abbiamo inizialmente introdotto il concetto di funzione, in
maniera molto generale, come caso particolare della nozione di relazione fra
insiemi; in tale contesto molto ampio, una funzione ha come dominio e
codominio due insiemi.
Ci siamo poi soffermati sul caso delle funzioni reali di variabile reale, ovvero
sul caso in cui dominio e codominio siano la retta reale R o sottoinsiemi di
questa. Un caso molto interessante è, però, quello in cui una funzione prende
valori reali, ma, invece di dipendere da una sola variabile in R, dipende da
molte variabili (due o più). In questo caso il dominio è lo spazio Rn (lo
spazio delle n-ple di numeri reali). È possibile approfondire “in modo
semplice” questo caso?
SOLUZIONE
Un esempio di funzione reale di più variabili reali nasce dalla misurazione
della temperatura eseguita con un termometro. La nostra esperienza ci porta
a pensare che quello che leggiamo sul termometro sia, per esempio, la
temperatura nella stanza dove il termometro è posto. In realtà la lettura del
termometro indica, con molta più precisione, la temperatura dell’esatto
punto in cui il termometro è posto. Possiamo immaginare, quindi, che
muovendo il termometro nella stanza la lettura cambi. Questa variazione è
facilmente verificabile: variando, infatti, la quota del termometro
otterremmo quasi sicuramente temperature più alte per quote più alte,
poiché l’aria calda si sposta verso l’alto. Se pensiamo allora di introdurre
una terna di assi cartesiani nello spazio della camera (un asse lungo ognuno
di tre spigoli concorrenti con l’origine nell’angolo della camera dove questi
si incontrano), possiamo esprimere la temperatura T come una funzione
delle tre coordinate cartesiane x, y, z del punto di misura; scriveremo cioè:
T = T(x,y,z).
Lo studio delle funzioni di più variabili è ovviamente più complicato dello
studio delle funzioni di una sola variabile, e comporta alcune sottigliezze
che sono assenti nel caso di una variabile. Il caso più elementare è
chiaramente quello di due variabili, nel quale è ancora possibile
rappresentare le funzioni visualizzandone il grafico. In particolare, data una
funzione di due variabili f(x,y) e introdotte le coordinate cartesiane (x,y,z)
nello spazio a tre dimensioni, possiamo rappresentare la funzione come una
superficie di equazione z = f(x,y). La Fig. 17 mostra il grafico della funzione
f(x,y) = 1 − x2 − y2; poiché intersecando il grafico con un piano passante
per l’asse z si ottiene una parabola, il grafico delle funzione f è detto
paraboloide.
Immagine 56
• PROBLEMA 2
Nel problema precedente abbiamo considerato funzioni il cui dominio è
multi-dimensionale. In modo analogo possiamo pensare che il codominio sia
multi-dimensionale?
SOLUZIONE
Sì. Come per il caso della temperatura, possiamo prendere un esempio dalla
fisica. Supponiamo di voler studiare il moto di un fluido: la quantità
fondamentale per questo studio è il campo di velocità del fluido stesso.
Fissiamo ora un punto dello spazio, corrispondente ai valori delle tre
coordinate cartesiane x, y, z in un sistema di assi cartesiani, e pensiamo di
misurare quanto vale la velocità del fluido in quel punto. Il vettore velocità
v avrà tre componenti, secondo le tre direzioni degli assi cartesiani, che
possiamo denotare con v1, v2, v3. Esprimendo ognuna di queste in funzione
di x, y, z, otteniamo tre funzioni di tre variabili:
Immagine
Problematiche
I quattro quadranti in cui il piano viene diviso dagli assicartesiani – con l’orientazione
che a essi si assegna comunemente – vengono numerati a partire da quello in alto a
destra (che corrisponde ai due semiassi positivi), e proseguendo poi in senso antiorario.
Figura 3
Figura 4 - (a) La trasformazione che porta il punto del piano di coordinate (x,y) nel punto di
coordinate (y,x): si tratta di una simmetria rispetto alla bisettrice del I e III quadrante. (b) Il grafico di
una funzione e della sua inversa: una è la simmetrica dell’altra rispetto alla bisettrice del I e III
quadrante.
Figura 5 - La funzione f: x → x2 (una parabola) è una funzione pari poiché f(x) = x2 = (−x)2 = f(−x):
il suo grafico presenta una simmetria rispetto all’asse delle y.
Figura 9 - Effetti di una dilatazione lungo l’asse delle ordinate sul grafico di una funzione. Se k > 1 il
grafico si dilata; se 0 < k < 1 il grafico si comprime. In entrambi i casi, il grafico di k f(x) rimane
“agganciato” all’asse delle ascisse negli stessi punti in cui lo era il grafico di f(x).
Veniamo ora alle dilatazioni lungo l’asse delle ascisse. In questo caso la
trasformazione che permette di dilatare o contrarre il grafico della funzione
è y = f(x) → y = f(kx). Per verificare questa affermazione facciamo un
semplice ragionamento: i valori assunti dalla funzione f(x) nel punto x0
Figura 11 - Due traslazione di una unità della funzione y = f(x): una è verso l’alto, l’altra verso
destra.
FUNZIONI PARTICOLARI: LE SUCCESSIONI
9. Nel Capitolo III abbiamo utilizzato la nozione di successione
senza soffermarci sulla sua definizione. Ma una successione
può essere considerata una funzione tra insiemi numerici?
Le successioni di numeri reali sono funzioni in cui l’insieme di
partenza è costituito dai numeri naturali e l’insieme d’arrivo dai
numeri reali. Più precisamente, una successione di numeri reali è una
funzione f: N → R il cui dominio è l’insieme dei numeri naturali e il cui
codominio è l’insieme dei numeri reali. Il valore f(n) corrisponde al termine
n-esimo an della successione. Per esempio, se consideriamo le due
successioni f: N → R con l’assegnazione f: n → n2 e g: N → R con
l’assegnazione avremo per la f la successione di termini a0 =
02 = 0; a1 = 12 = 1; a2 = 22 = 4; a3 = 32 = 9; … e per la g i termini
La proprietà di continuità ha senso per funzioni di tipo molto generale, cioè per scelte
molto generali del dominio e del codominio della funzione. La parte della matematica che
studia la nozione di continuità si chiama “topologia”.
Non è necessario che la funzione sulla quale si lavora sia definita in a, per quanto questo
possa succedere: la definizione di limite, infatti, non dipende da questo condizione.
mano che ci si avvicina a zero. La stessa cosa in (c) e (d) per la funzione
In generale possiamo dire che la funzione f assume valori tanto più vicini a l
quanto più x si avvicina ad a. In matematica dire che la funzione f è vicina a
l vuol dire che:
qualunque sia il numero reale ε. Questo, infatti, significa che f(x) sta in una
banda di semilarghezza ε centrata attorno al valore l, qualunque sia il valore
di ε; ovvero che f(x) prende valori arbitrariamente vicini a l (Fig. 15).
Figura 15 - Se f(x) deve stare all’interno della banda delimitata da l − ε e l + ε, allora, diminuendo ε
possiamo far avvicinare f(x) a l tanto quanto vogliamo. In particolare se f(x) sta nella banda per
qualunque valore di e, allora f(x) assume valori arbitrariamente vicini a l.
Più precisamente, dire che una funzione f tende al limite l quando x tende
ad a, ovvero che significa affermare che per ogni numero reale ε
esiste un intervallo (x1,x2) tale che, se x sta in questo intervallo, allora vale
la condizione 4.1 (Fig.16).
Nella definizione di limite che abbiamo dato finora, abbiamo lavorato con
una funzione che si avvicina al valore l quando x tende ad a sia da destra sia
da sinistra. Esistono però casi in cui la funzione tende a due diversi
limiti a seconda che la variabile indipendente si avvicini ad a da destra
o da sinistra, come fa per esempio la funzione riportata in Fig. 17. Le
definizioni precise di questo tipo di limiti, tuttavia, non si discostano molto
da quella con cui abbiamo lavorato finora.
Figura 16 - Due diverse situazioni corrispondenti a due distinti valori di ε. In entrambi i casi, in
corrispondenza del valore di ε scelto, esiste un intervallo (x1,x2) tale che se x sta in questo intervallo
allora f(x) sta nella banda delimitata da l − ε e da l + ε. Se questo accade per qualunque valore di x,
allora diciamo che f(x) tende a l quando x tende ad a.
Figura 17 - f(x) tende a l1 quando x tende ad a da sinistra, ossia per valori di x minori di a; tende
invece a l2 quando x tende ad a da destra, ossia per valori di x maggiori di a. Si osservi che nel punto
a la funzione può non essere definita.
L’apice + che abbiamo messo a destra dello 0, sta a indicare che il limite viene fatto da
destra.
Viceversa, l’apice − indica limiti fatti da sinistra.
Il grafico della nostra funzione mostra inoltre che il limite per x → 0 fatto
per valori negativi vale – ∞, ovvero che
15. Fin qui abbiamo parlato di limiti. Ma che relazione c’è con la
nozione di continuità?
Il modo rigoroso di definire la continuità di una funzione passa per la
nozione di limite. Supponiamo che una funzione abbia un limite l quando
x tende a un valore a, ovvero
Figura 19 - (a) La funzione tende a valori infinitamente grandi se x tende a + ∞, mentre tende ad
assumere il valore 1 se x tende a − ∞. (b) La funzione tende a 1 se x tende a + ∞, mentre tende a − ∞
se x tende a − ∞.
e questa volta supponiamo in più che la funzione sia definita in a, per cui
ha senso calcolare f(a). Diciamo che “la funzione f è continua in a se f(a)
coincide con il valore del limite 4.2, ovvero, in formule, se
Per verificare che questa definizione riproduca la definizione empirica di
continuità che abbiamo dato al punto 12 (cioè che una funzione è
continua quando possiamo tracciarne il grafico senza staccare la penna dal
foglio), partiamo da un esempio di funzione che non ammette limite.
Consideriamo
il cui grafico è riportato in Fig. 20. Questa funzione è definita per tutti i
valori di x in R, compreso x = 0 dove vale 1. Evidentemente non possiamo
contenere i valori della funzione in una sottile striscia attorno al valore 1
quando x si avvicina a 0, perché per ogni valore di x positivo, per quanto
piccolo esso sia, la funzione vale più di 2. Quindi, per x che tende a 0, la
funzione non ammette limite (si potrebbe dire che la funzione ammette
limite destro e limite sinistro, ma che questi sono diversi) e non può essere
continua. E infatti il grafico non soddisfa la nostra definizione intuitiva di
continuità!
Figura 20 - La funzione rappresentata non è continua nel suo punto di ascissa 1. Basta prendere ε < 1
per non riuscire a trovare alcun valore di x positivo per cui f(x) sia compresa nella banda tratteggiata.
Può anche accadere che una funzione ammetta limite quando x tende a un
certo valore a, ma che questo limite sia diverso dal valore della funzione in
a. In base alla nostra definizione, una funzione con questa caratteristica non
è continua; un esempio di tale tipo è dato dalla funzione:
rappresentata in Fig. 21.
Figura 21 - La funzione rappresentata non è continua nel suo punto di ascissa 1. In tale punto la
funzione vale 2, ma il suo limite è 1. Si osservi infatti che, per qualunque valore di ε, riusciamo
sempre a trovare un valore di x per il quale la funzione sta nella banda tratteggiata.
Se una retta passa per due punti P1 =(x1, f(x1)) e P2=(x2, f(x2)), allora il suo
coefficiente angolare è:
e la sua equazione y − f(x1) = m(x − x1) o, alternativamente, y − f(x2) = m(x – x2)
Figura 22 - Un modo per determinare la tangente alla curva y = f(x) nel punto di ascissa x0.
In formula si scrive:
Osservando il grafico di una funzione, spesso notiamo che questa ha dei “massimi” o
dei “minimi”. Prima di dare una definizione di queste due nozioni, facciamo un esempio.
La parabola di equazione y = 2x − x2, il cui grafico è riportato in Fig. 26, ha un massimo
nel suo vertice, ovvero nel punto di ascissa x = 1 e ordinata y = 1.
In questo caso, diciamo che il vertice è un massimo perché notiamo che i punti vicino al
vertice hanno ordinata minore di uno. In generale, quindi, poiché il fenomeno che
vogliamo studiare è locale, cioè riguarda il comportamento della funzione nell’intorno di
un punto, possiamo considerare una funzione definita su un intervallo aperto della retta
reale f: (a,b) → R e dire che “f ha massimo in un punto x0 se in un intorno di x0 si ha f(x)
< f(x0) (tranne, ovviamente, nel punto x0)”. La nozione di minimo si definisce allo stesso
modo, ma cambiando il verso della disuguaglianza, cioè chiedendo che f(x) > f(x0).
Poiché, come precedentemente accennato, queste sono nozioni locali, una funzione può
avere più massimi o minimi locali (e ovviamente anche nessuno, se la funzione è sempre
crescente, sempre decrescente o costante).
Figura 27 - Il grafico di una funzione crescente per x < 0 e decrescente per x > 0. Sono anche
rappresentati 4 punti (P1, P2, P3, P4) e le relative rette tangenti (t1, t2, t3, t4). Si osservi che nel
tratto in cui la funzione è crescente le inclinazioni delle rette tangenti sono minori di 90°, quindi il
loro coefficiente angolare è positivo. Nel tratto in cui la funzione decresce, invece, i coefficienti
angolari delle rette tangenti sono negativi poiché le loro inclinazioni sono maggiori di 90°. Si osservi
ancora che in P1 il coefficiente angolare della retta tangente è maggiore di quanto non sia in P2:
questo sta a significare che in P1 la funzione “cresce di più” di quanto non faccia in P2. Analogo
discorso può essere fatto per P3 e P4.
Il simbolo [a,b] indica l’intervallo chiuso della retta reale, ovvero il segmento avente come
estremi compresi a e b.
si indica con
Figura 30 - L’area della regione di piano delimitata dall’asse delle ascisse e da una funzione lineare
definita nell’intervallo [a, b] è un trapezio.
La formula per l’area del trapezio, ossia (1/2) × somma delle basi × altezza,
ci dà:
Figura 31 - Una funzione lineare a tratti. I puntini indicano la presenza di altri tratti non riportati in
figura. È possibile calcolare l’area della regione di piano sotteso dalla funzione sommando l’area di
tanti trapezi. In figura ci si riferisce al tratto che ha per base l’intervallo [ci−l, ci]: in tale tratto la
funzione è f(x) = αix + βi.
Per calcolare l’area del generico trapezio di base [ci−l, ci], utilizziamo la
formula 4.3 e otteniamo:
In generale, se la funzione dà luogo a un numero N di trapezi, possiamo
dividere l’intervallo [a,b] in N intervalli: numerando questi intervalli con un
indice i, che prende valori da 1 a N, il primo intervallo andrà da a a c1, il
secondo da c1 a c2, e così via, fino all’ultimo intervallo, l’N-simo, che andrà
da cN-1 a b. Per uniformare la notazione, possiamo decidere di denotare a
con c0 e b con cN. Poiché la funzione nel tratto i-esimo si scrive f(x) = αix
4.4, cioè
Il significato del membro di destra della formula 4.5 è che sommiamo tutti i contributi
del tipo 4.4, facendo variare l’indice i dal valore 1 al valore N.
Figura 32 - Una funzione lineare a tratti. Il numero N di intervalli (tratti) in questo caso è pari a 4.
Figura 33 - L’area sottesa dal grafico della funzione è costituita da un triangolo rettangolo i cui cateti
misurano 1, da un quadrato di lato 1, e da un trapezio di altezza 1 e basi 1 e 2.
Se vogliamo applicare la formula 4.5, dobbiamo innanzitutto esplicitare i
valori delle costanti αi e βi per i = 1, 2, 3:
Immagine 91
Figura 35 - Approssimazione della funzione f(x) attraverso una funzione lineare a tratti. Nel caso (a)
N = 3, ossia l’intervallo [a,b] è stato diviso in 3 parti. Nel caso (b) N = 7. Al crescere di N la somma
dell’area degli N trapezi approssima sempre meglio l’area della regione di piano sottesa dal grafico di
f(x).
Immagine 92
Figura 36 - Se la funzione assume valori negativi, l’area della regione piana delimitata dal suo
grafico e dall’asse delle ascisse è pari al valore dell’integrale cambiato di segno.
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Figura 37 - L’area della regione piana delimitata dal grafico di f(x). tra a e b è data dalla somma delle
aree di due regioni piane relative, rispettivamente, agli intervalli [a,c] e [c,b].
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Immagine 94
Figura 38 - Data una funzione continua in un intervallo [a,b] esiste un punto c interno ad [a,b] tale
che l’area del rettangolo avente per base il segmento [a,b] e per altezza f(c) sia uguale all’area sottesa
dal grafico di f(x)nell’intervallo [a,b].
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Data F(x) definita come in 4.6 e presa una seconda funzione integrale G definita rispetto
a un diverso estremo inferiore di integrazione, per esempio b, G differisce da F per una
costante. Infatti, applicando a G la proprietà di additività rispetto al dominio si ha
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Si noti che questa formula non ha senso per m = − 1, cioè con questa
formula possiamo calcolare gli integrali indefiniti di tutte le potenze salvo
che di 1/x.
LE FUNZIONI TRASCENDENTI
31. Analogamente a quanto si fa con i numeri, si può
distinguere tra funzioni algebriche e funzioni trascendenti?
Sì. Le funzioni reali che abbiamo considerato finora negli esempi sono tutti
polinomi o funzioni che si definiscono comunque in termini di questi,
come per esempio quozienti o radici di polinomi: queste funzioni sono
dette “funzioni algebriche”. Analogamente alla nozione di numero
algebrico – ossia un numero che è soluzione di un’equazione algebrica a
coefficienti razionali –, possiamo dare una definizione precisa di funzione
algebrica: è una funzione f(x) che soddisfa una condizione del tipo an(x)
[f(x)]n + an-1(x)[f(x)]n-1 + … + a1(x) f(x) + a0(x) = 0, dove a0(x),…, an(x)
sono polinomi.
Una funzione che non sia algebrica viene detta “trascendente”. Esempi
di funzioni trascendenti sono le funzioni trigonometriche (seno, coseno,
tangente,…), le funzioni logaritmo ed esponenziale (che sono una l’inverso
dell’altra), e molte altre. Non dimostreremo qui che queste funzioni sono
effettivamente trascendenti, ma dedicheremo un po’ di tempo a introdurle e
a studiare le loro principali proprietà.
Immagine 95
Figura 39 - Il rapporto tra l’arco di circonferenza l (il segmento curvilineo PA) e i raggio r
(il segmento PO) definisce la misura in radianti dell’angolo α.
Immagine 96
Figura 40 - Il rapporto tra il segmento PP′ e il raggio definisce il seno dell’angolo α, mentre il
rapporto tra il segmento OP′ e i raggio definisce il coseno di α. Poiché nella circonferenza
goniometrica il raggio si assume pari a 1, segue che le coordinate di P sono (cos α, sin α).
Osserviamo ora la Fig. 40. Per andare dal punto A (1,0) al punto P
possiamo percorrere più volte la circonferenza in senso antiorario, ovvero
possiamo pensare che α possa assumere qualunque valore positivo. Allo
stesso modo, ma percorrendo la circonferenza in senso orario, possiamo
anche convenire che α prenda qualunque valore negativo. Infine possiamo
affermare che quando α = 0 il punto P coincide con A (1,0).
A questo punto possiamo definire cos α e sin α dicendo che queste sono le
coordinate cartesiane (rispettivamente, ascissa e ordinata) del punto P.
Una prima proprietà che segue immediatamente dalla definizione è la
periodicità: se a partire dal punto P incrementiamo il valore di α di un
numero intero di angoli giro, il nuovo punto coinciderà con P. In formula
questo si scrive:
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Come per la funzione seno, possiamo dedurre che coseno è una funzione
derivabile, e in particolare si può dimostrare che la sua derivata è la
funzione −sin x. Di conseguenza, possiamo anche affermare che la primitiva
delle funzione sin x è −cos x.
A partire dalle funzioni seno e coseno possiamo definire varie altre
funzioni trigonometriche; per esempio la funzione tangente, ovvero il
quoziente fra seno e coseno:
In primo luogo notiamo che, poiché il coseno si annulla nei punti x = π/2 +
kπ con k appartenete ai numeri interi, la funzione tangente non è definita
su tutto R.
Figura 43 - Il grafico della funzione y = tan x.
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Figura 44 - L’integrale tra a e b della funzione 1/t esprime l’area sottesa dal grafico tra a e b. Se si
fissa a = 1 e b si lascia libero di variare nei reali positivi, allora tale integrale definisce la funzione
logaritmo.
4.8 abbia senso è necessario che x sia positivo. Possiamo inoltre calcolare il
valore di log x per x =1: log 1 = 0, poiché l’integrale Immagine di ogni
funzione continua f(t) è nullo se a = b.
Inoltre la funzione logaritmo è derivabile, come immediata conseguenza
del teorema fondamentale del calcolo integrale, e la sua derivata vale 1/x,
infatti Immagine
Questo fatto ci dice anche che la funzione logaritmo è strettamente
crescente: infatti, essendo derivabile, la funzione logaritmo è continua e,
poiché abbiamo assunto che x sia sempre positivo, la sua derivata è sempre
positiva. In particolare, il logaritmo assume valori negativi per x < 1 e
positivi per x > 1. Il grafico della funzione logaritmo è riportato in Fig. 45.
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La formula 4.9 è alla base dell’utilità dei logaritmi nello svolgimento dei calcoli.
Supponiamo innanzitutto di avere a disposizione alcune tecniche per il calcolo dei
logaritmi, per esempio delle tavole che ne listino i valori. Se ora volessimo calcolare il
prodotto ab di due numeri molto grandi, potremmo prima calcolare i logaritmi di a e
b, poi sommarli in un’operazione molto semplice per ottenere il logaritmo del prodotto
ab, e infine invertire quest’ultimo per ottenere il valore di ab.
Questo modo di eseguire i calcoli veniva usato correntemente prima dell’avvento delle
calcolatrici tascabili. Chi ha frequentato una scuola superiore entro la prima metà degli
anni settanta, infatti, sicuramente ricorda le “tavole dei logaritmi” poi relegate in soffitta
dalle piccole macchine calcolatrici. Anche il funzionamento del regolo, uno strumento un
tempo usatissimo da ingegneri e architetti per fare calcoli, si basa sui logaritmi: non a
caso il regolo è – o, dovremmo dire, fu – l’evoluzione moderna di un congegno inventato
da Napier, detto “ossa di Napier” per via del materiale con cui era costruito.
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Il primo termine nel membro di destra è, per definizione, log a; quindi, per
completare la dimostrazione, dobbiamo provare che:
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Ora, se x tende a zero per valori positivi, allora 1/a tende a+∞, e dalla 4.11
vediamo che log x tende a −∞.
Le ultime osservazioni sulle caratteristiche della funzione logaritmo hanno
come conseguenza il fatto che la funzione log x prende tutti i possibili
valori reali, ovvero, che la sua immagine è l’intera retta reale.
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Figura 46 -La funzione esponenziale è la funzione inversa della funzione logaritmo, quindi il grafico
di y = ex è il simmetrico, rispetto alla bisettrice del I e III quadrante del grafico di y = log x.
Ulteriori caratteristiche della funzione esponenziale mutuate da quelle della
funzione logaritmo sono la continuità e la derivabilità. A proposito della
derivabilità, va ricordato che la funzione esponenziale gode di
un’importante e peculiare proprietà, che peraltro potrebbe essere usata per
definire tale funzione in maniera alternativa: la derivata della funzione
esponenziale è ancora la funzione esponenziale. Ciò segue dalla
relazione 4.12; infatti, applicando quest’ultima alla definizione della
derivata si ha:
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che abbiamo visto al punto 11 di questo capitolo.
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Spunti di riflessione
LE FUNZIONI TRASCENDENTI
38. Nella sezione Problematiche di questo capitolo abbiamo
visto che le funzioni logaritmo ed esponenziale sono l’una
l’inversa dell’altra. Come possiamo introdurre le funzioni
trigonometriche inverse?
Cominciamo con l’osservare che non possiamo invertire le funzioni
trigonometriche su tutto il loro dominio perché non sono biiettive.
Quindi, dobbiamo restringere il dominio di definizione ad un intervallo
in cui le funzioni siano monotone strettamente crescenti (o
decrescenti). Per esempio, la funzione seno è monotona strettamente
crescente e continua, quindi invertibile, nell’intervallo [−л/2, л/2] e la sua
immagine è l’intervallo [−1,1]. Perciò è possibile definire la sua funzione
inversa y = arcsin x, detta arcoseno, che ha per dominio
l’intervallo[−1,1] e per immagine l’intervallo [−л/2, л/2]; per costruire il
suo grafico prendiamo il grafico della funzione seno e invertiamolo rispetto
alla retta y = x, come mostrato in Fig. 47a.
Un discorso analogo vale per le funzioni arcocoseno e arcotangente: la
prima, y = arccos x, ha per dominio l’intervallo [-1,1] e per immagine
l’intervallo [0,л] (Fig. 47b); la seconda, y = arctan x, ha per dominio
tutto R e per immagine l’intervallo (−л/2, л/2) (Fig. 47c).
Per concludere osserviamo che avremmo potuto scegliere altri intervalli di
restrizione su cui invertire le funzioni trigonometriche. Per esempio,
nell’intervallo [л/2, 3л/2] la funzione seno è continua e monotona
strettamente decrescente.
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Figura 48 -Il grafico della funzione “salto”. Essa presenta una discontinuità per x =1: per x minore o
uguale a 1 vale 0, per x maggiore di 1 vale 1.
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Figura 49 - Il grafico della funzione integrale: vale 0 per x minore o uguale a 1; cresce invece
linearmente per x maggiore di 1. Si tratta di una funzione continua ma non derivabile in x =1.
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Problemi di approfondimento
• PROBLEMA 1
Come si dimostra rigorosamente la continuità della funzione seno?
SOLUZIONE
Se vogliamo dare una dimostrazione rigorosa del fatto che f(x) = sin x è una
funzione continua, possiamo ricorrere alla definizione di funzione continua:
dovremmo mostrare che per ogni valore di x0 si ha Immagine il che si
può fare senza troppi problemi a partire dalla definizione di limite.
Un metodo più rapido, però, è il seguente. Analizzando la Fig. 50 possiamo
convincerci che, se l’angolo x è piccolo e positivo (o nullo), vale la
disuguaglianza: sin x ≤ x.
La tecnica appena esposta, che consiste nello stringere la funzione di cui vogliamo
calcolare il limite fra due altre funzioni di cui conosciamo il limite, è detta “teorema dei
carabinieri”.
Nel nostro esempio, le funzioni f e g sono due carabinieri che, camminando ai due lati
della funzione seno, la obbligano a tendere a 0.
• PROBLEMA 2
Come si dimostra rigorosamente la derivabilità della funzione seno?
SOLUZIONE
Da un punto di vista rigoroso, si tratta di calcolare il limite:
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Immagine
• PROBLEMA 3
Saper determinare i massimi e minimi di una funzione permette di risolvere
molti problemi pratici. Consideriamo, per esempio, un semplice problema
geometrico: come si trova, fra tutti i rettangoli di dato perimetro, quello che
ha area massima?
SOLUZIONE
Se denotiamo con 4p il perimetro del rettangolo e con x un suo lato, allora
l’altro lato avrà lunghezza 2p − x e l’area del rettangolo, scritta come
funzione di x, sarà data da y = 2px − x2. Essendo l’area di un rettangolo una
quantità necessariamente positiva, consideriamo questa funzione
nell’intervallo (0,2p), dove effettivamente y > 0. La funzione y = 2px − x2 è
una parabola come quella in Fig. 26, a cui si riduce quando p = 1. In questo
caso possiamo risolvere geometricamente la determinazione del massimo,
cioè, dal grafico della funzione possiamo capire che il rettangolo che ha area
massima è il quadrato di lato p.
• PROBLEMA 4
Sempre parlando di massimi e minimi di una funzione, come possiamo
comportarci con funzioni più generali, per le quali non siano disponibili
formule come quella che ci permette di ottenere il vertice di una parabola?
SOLUZIONE
Come già abbiamo detto nel punto 23, se una funzione è derivabile in un
certo intervallo e la sua derivata è positiva, allora la funzione cresce. Se,
viceversa, la derivata è negativa, la funzione decresce.
A stretto rigore le affermazioni inverse sono false. Infatti, una funzione che ha derivata
positiva in un certo intervallo e si annulla in un punto di questo, è comunque
crescente.
In Fig. 28c possiamo osservare che, nel punto in cui la derivata si annulla, il grafico della
funzione attraversa la tangente: la funzione è sempre crescente, pur avendo un punto di
flesso in cui cambia concavità.
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In entrambi i casi si ottiene che f′ > 0 per x < 2 e x > 8, mentre f′ < 0 per 2 <
x < 5 e 5 < x < 8. Quindi la derivata cambia segno, passando da positiva a
negativa, per x = 2 e, passando da negativa a positiva, per x = 8: la funzione
ha dunque in x = 2 un massimo locale e in x = 8 un minimo locale. Questa
analisi è confermata dal grafico della funzione f(x) = (x2 − 16) / (x − 5),
mostrato in Fig. 52.
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Si noti, infine, che il valore della funzione nel minimo locale è maggiore del
valore della funzione nel massimo locale; ciò è possibile a causa della
“discontinuità” della funzione nel punto x = 5.
La determinazione dei massimi e dei minimi di una funzione di variabile reale è solo un
caso particolare di una tecnica molto più generale, che in matematica applicata va sotto
il nome di ottimizzazione. In generale, si tratta di risolvere un problema di ottimizzazione
tutte le volte che ci troviamo ad affrontare un processo dipendente da un certo numero di
parametri e vogliamo determinare per quali valori dei parametri certe grandezze
assumono valori che noi consideriamo ottimali. Nella pratica i possibili valori dei
parametri sono spesso vincolati da certe restrizioni, dette appunto vincoli.
Ovviamente, noi stessi siamo continuamente alle prese con problemi di ottimizzazione:
quando pianifichiamo le nostre vacanze, per esempio, abbiamo a disposizione una
quantità fissata di denaro e dobbiamo decidere come dividerlo nei vari capitoli di spesa
(trasporti, ristoranti, alloggio, divertimenti…) in modo da massimizzare la soddisfazione
di ogni membro della famiglia. Un problema di ottimizzazione che, come tutti i problemi di
ottimizzazione, non è quasi mai di facile soluzione…
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che dipenderà allo stesso tempo dalla nuova variabile α e dal valore di x
prescelto. Una volta fissato questo, la funzione f(x) sarà, entro i limiti
assegnati alla variabile x, funzione continua di tale variabile, se, per ogni
valore di x compreso fra tali limiti, il valore numerico della differenza:
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Mentre la scuola italiana rimane ancora fiorente per altri 13 anni, grazie
alle indagini di Cavalieri e soprattutto di E. Torricelli, sorge intorno al
1634 la scuola francese, che potremmo chiamare della geometria
analitica, perché i due maggiori rappresentanti di essa, Descartes e
Fermat, hanno aggiunto ai metodi adoperati dagli italiani, lo strumento
potente della geometria analitica. Attorno a questi fioriscono Roberval e
Pascal. Amichevoli sono per una decina d’anni i rapporti fra i matematici
italiani e francesi; frequenti le lettere scambiate, spesso con
l’intermediario del Padre Mersenne, non rare le notizie portate
verbalmente da uomini colti che valicano le Alpi nell’uno e nell’altro
senso. Ma questo scambio di notizie, non sempre autorizzate da uomini
gelosi delle proprie scoperte (gelosi al punto da nascondere i metodi
perché altri non se ne potessero valere), doveva condurre inevitabilmente
a reclami di priorità ed accuse di plagio. Cosi avvenne realmente, ed i
rapporti amichevoli si troncarono con una violenta lettera del Roberval al
Torricelli a proposito della cicloide, lettera contenente accuse
assolutamente infondate che hanno amareggiato gli ultimi giorni di vita
dello scienziato di Faenza. Dopo la morte di questo le accuse furono
rinnovate e rese pubbliche dal Pascal, il quale non si curò di esaminare
quali ne fossero le basi.
Spenti dopo la metà di quel secolo gli ultimi echi della polemica tra i
seguaci di Newton e di Leibniz, stabiliti in modo rigoroso i principi del
calcolo infinitesimale per opera di Cauchy e della sua scuola nella prima
metà del secolo scorso, la nuova scienza fu universalmente accolta nella
forma in cui la presentano i recenti trattati e fornì la via regia per
discutere i problemi che ogni giorno pongono le matematiche pure ed
applicate.
(G. Castelnuovo, Le origini del calcolo infinitesimale nell’era moderna,
Feltrinelli, Milano 1938)
V. PER CONCLUDERE: MATEMATICA E
MODELLI DELLA REALTÀ
Prima di addentrarci nella lettura del punto 1, ricordiamo alcuni concetti sicuramente già
incontrati nei primi anni delle scuole superiori.
Immaginiamo di avere un corpo di massa m che si muove con velocità v. A partire da
queste, si possono definire due quantità: la quantità di moto mv, vettoriale, data dal
prodotto della massa per la velocità, e l’energia cinetica Immagine scalare (cioè un
numero), data dal semiprodotto della massa per il quadrato della velocità del corpo. Il
significato e l’importanza di queste due quantità sono dovuti alle proprietà di
conservazione di cui godono. In un sistema di punti materiali su cui non agiscono
forze esterne, infatti, la somma della quantità di moto di tutte le particelle si
conserva, ossia non cambia al trascorrere del tempo. In un processo d’urto elastico,
invece, è l’energia cinetica che si conserva: nel-l’urto tra due particelle, se la somma
dell’energia cinetica delle particelle prima dell’urto è uguale alla somma dell’energia
cinetica dopo l’urto, allora diciamo che quell’urto è elastico.
L’energia cinetica, però, è solo una delle innumerevoli forme di energia. A partire dalla
definizione di “lavoro”, cioè della quantità data dal prodotto della forza applicata a un
corpo per lo spostamento del corpo stesso (assumendo, per semplicità, che forza e
spostamento abbiano la stessa direzione e lo stesso verso), in generale possiamo dire
che l’energia è una quantità scalare la cui variazione indica che è stato compiuto un
lavoro. Se la variazione, data dalla differenza tra energia finale ed energia iniziale, è
positiva, allora diremo che sul sistema è stato compiuto del lavoro; se la variazione è
negativa, allora diremo che è stato il sistema ad aver compiuto lavoro. In entrambi i casi,
comunque, questo lavoro sarà in relazione con variazioni di energia di forme diverse:
dell’energia cinetica, dell’energia interna, del calore ecc. Quello che si ipotizza è che
tutte le trasformazioni energetiche che si verificano in un sistema isolato lascino
invariata la quantità totale di energia: questa ipotesi è nota come principio di
conservazione dell’energia e dalla sua formulazione a metà dell’Ottocento fino a oggi
non è mai stata osservata alcuna sua violazione.
L’esperienza ci mostra che non siamo liberi di variare una delle grandezze V,
P o T senza determinare anche una variazione delle altre due; in altre
parole, queste tre grandezze non sono tra loro indipendenti, ma sono
collegate da una relazione particolare che possiamo scrivere:
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Figura 1
Costruire un modello vuol dire, sostanzialmente, sostituire alla
situazione reale una sua rappresentazione all’interno della quale siamo
in grado di formulare problemi e di risolverli.
La Fig. 1 mostra diverse cose. Prima di tutto possiamo osservare come la
situazione reale si traduca in un modello in cui la domanda QM è la
trasposizione della domanda Q ottenuta attraverso le stesse regole utilizzate
per costruire il modello. In secondo luogo appare chiaro che, internamente
al modello, è possibile dare una risposta RM alla domanda QM. Infine la
figura mostra che la risposta RM può essere riconvertita nella risposta R
usando le regole di traduzione usate per costruire il modello applicate,
questa volta, in senso inverso. Nel nostro esempio, creare il modello
consiste nello schematizzare il gas come un insieme di particelle puntiformi
dotate di massa che interagiscono tra loro e con le pareti del recipiente
soltanto attraverso urti elastici. All’interno di questo modello possiamo
allora applicare le leggi della meccanica classica, in cui valgono le leggi di
conservazione dell’energia e della quantità di moto: in questo modo
possiamo interpretare la pressione del gas come l’effetto della forza che, in
media, le particelle esercitano sulla parete attraverso gli urti. Ragionando sul
modello, quindi, possiamo dire che il prodotto della pressione P per il
volume V è proporzionale all’energia cinetica media <E> delle particelle; in
formule si ha:
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I calci di rigore
Un bravo calciatore sa che la possibilità di fare goal con un calcio di rigore
dipende sostanzialmente da tre fattori: da parte sua ci sono la velocità
iniziale e la direzione che riesce a imprimere al pallone; da parte del
portiere c’è l’intuizione, che gli permette di parare il rigore se riesce a
prevedere correttamente il punto verso cui si dirige il pallone.
Ma è possibile avere un’indicazione precisa dell’intervallo angolare che la
direzione della velocità deve formare con il terreno affinché il pallone finisca
in rete?
E, in secondo luogo, è possibile capire se è quantitativamente fondata
l’opinione, peraltro molto diffusa, secondo la quale un portiere non può
aspettare di vedere la direzione presa dal pallone se vuole parare il tiro?
Per rispondere a queste due domande, iniziamo col costruire un modello
basato su alcune approssimazioni:
• il pallone è considerato un punto materiale, il che significa che
trascuriamo tutti i movimenti di rotazione della palla su sé stessa e la
resistenza che l’aria oppone al suo moto;
• il tiro è centrale, ossia la traiettoria del pallone giace su un piano
perpendicolare allo specchio della porta;
• la velocità con cui il pallone è calciato è la massima velocità che,
mediamente, un calciatore è in grado di imprimere a un pallone.
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Figura 2 - Per descrivere il moto di un punto materiale bisogna sapere come variano nel
tempo le componenti del vettore r, ossia x = x(t), y = y(t), z = z(t).
Come secondo passo sulla via che conduce alla costruzione del modello,
cerchiamo ora di determinare l’equazione della traiettoria di un punto
materiale di massa m, sottoposto a un’accelerazione di gravità g costante e
pari a 9,8 m/s2, lanciato con velocità di modulo v0 che forma un angolo α
con il terreno. Il moto che vogliamo studiare può essere pensato come la
composizione di due moti: uno con velocità costante v0cos α lungo l’asse
delle x, e l’altro con accelerazione costante −g e velocità iniziale v0 sin α. La
traiettoria di un punto soggetto a questo tipo di moto è rappresentata in
Fig. 3.
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Figura 3 - Traiettoria di un punto materiale di massa m lanciato con velocità v0 lungo una certa
direzione, che forma un angolo α con l’asse delle ascisse. Il moto è pensabile come la composizione
di due moti: uno lungo l’asse delle x e l’altro lungo l’asse delle y.
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L’equazione 5.3 ha una forma che conosciamo bene: essa è del tipo y = ax2
+ bx, ovvero è l’equazione di una parabola passante per l’origine degli assi i
cui coefficienti a e b sono:
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L’equazione 5.4 ci fa capire una cosa nota empiricamente a tutti gli atleti che
praticano il lancio del disco, il getto del peso o il tiro del giavellotto, e cioè
che la massima distanza a cui si può lanciare un oggetto si ottiene per un
angolo di lancio pari a 45 gradi. Come risulta dall’equazione 5.4, infatti, G
dipende da sin 2α, che diventa massimo (ossia uguale a 1) per 2α = 90°,
ovvero per α = 45°.
Cerchiamo ora di risolvere il primo dei nostri due problemi, ossia scoprire
con quale angolo bisogna calciare il pallone affinché entri in porta.
Il problema, tradotto nel nostro modello, si trasforma in una semplice
questione di geometria analitica relativa all’intersezione tra una parabola
(la traiettoria del pallone), e una retta (che rappresenta la distanza della
porta). Ricordando infatti che l’altezza della porta nel gioco del calcio è 2,44
metri e che il calcio di rigore si calcia a 11 metri dalla porta, basta calcolare
se l’ordinata del punto d’intersezione tra la parabola che descrive il moto del
pallone e la retta x = 11 che descrive la distanza della porta è maggiore o
minore di 2,44. Nel primo caso, il pallone non entrerà in porta; nel secondo
caso, sarà goal.
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Figura 4 -Due diverse traiettorie paraboliche di un pallone. Nel caso 1 l’ordinata dell’intersezione tra
la parabola e la retta x = 11 è minore dell’altezza della porta (2,44 metri), nel caso 2 è invece
maggiore.
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Si osservi che questa è una stima minima, infatti abbiamo assunto che il
portiere calci la palla con l’angolo a lui più favorevole: verosimilmente, la
velocità impressa al pallone potrebbe essere ancora maggiore.
A questo punto abbiamo tutti i dati per poter scrivere l’equazione della
traiettoria del pallone e calcolare l’intersezione con la retta x = 11:
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Figura 5 -Traiettorie limite di un calcio di rigore per fare goal. La velocità con cui viene calciato il
pallone è di circa 97 km/h, la distanza dalla porta è di 11 m, l’altezza della porta è di 2,44 m. Se
l’angolo con cui viene calciato il pallone è minore di 16° 36′, esso entra in porta. Si fa ugualmente
goal se l’angolo di tiro è compreso tra 85° 40′ e 85° 48′, ma in questo caso il modo in cui il pallone
entra in porta è completamente diverso dal precedente.
La Fig. 5 ci mostra che nel primo caso il pallone entra in rete nel tratto
ascendente della sua traiettoria, mentre nel secondo caso entra nel tratto
discendente. La stessa figura ci mostra anche che il secondo modo di
segnare è molto più difficile da realizzare, poiché la precisione richiesta al
calciatore è massima: egli ha, infatti, soltanto un intervallo di 8 primi per
fare goal (a meno che non diminuisca la velocità di tiro).
Per cercare di risolvere il nostro secondo problema, invece, proviamo a
calcolare il tempo in cui il pallone deve rimanere in aria prima di entrare in
porta. Per fare ciò, basta dividere lo spazio di 11 metri per la componente
orizzontale della velocità, ovvero v0cos α, ottenendo di conseguenza t =
0,42 s per α = 16° 36′ e t = 5,43 s per α = 85° 40′. Il secondo risultato ci
mostra che sarebbe del tutto assurdo cercare di segnare calciando con un
angolo di tiro compreso tra 85° 40′ e 85° 48′: in questo caso, infatti, non
solo il calciatore dovrebbe essere in grado di calciare con estrema
precisione, ma il portiere avrebbe anche tutto il tempo per parare il tiro.
Molto interessante è invece il primo risultato. Infatti, se teniamo conto che i
tempi di reazione umani (cioè il tempo che il cervello umano impiega per
elaborare lo stimolo visivo e avviare la risposta a quello stimolo) sono di
circa mezzo secondo, il modello ci dice che, calciando il pallone con un
angolo di 16°, il tempo che esso impiega per arrivare in porta è minore del
tempo di reazione del portiere. E questo ci dimostra che parare un rigore è,
veramente, solo una questione di fortuna.
La competizione preda-predatore
Una situazione reale complessa, che spesso necessità di un modello di
rappresentazione per essere analizzata, è quella relativa alle comunità
biologiche.
Un semplice ma interessante modello differenziale di comunità biologica
fu formulato negli anni Venti del secolo scorso da Alfred J. Lotka e Vito
Volterra, per essere poi perfezionato dal solo Volterra.
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La soluzione della nostra equazione, cioè la quantità che stiamo cercando, è dunque una
funzione che sia uguale alla sua derivata per qualunque valore dell’argomento x. Poiché
la funzione esponenziale ha questo comportamento, possiamo dire che y(x) = ex è una
soluzione dell’equazione differenziale 5.5: infatti y′(x) = ex = y(x). In generale, però, le
soluzioni delle equazioni differenziali non sono uniche, a meno che non si
impongano ulteriori condizioni. Nel nostro caso, infatti, anche y(x) = kex con k
costante è una soluzione dell’equazione differenziale 5.5, poiché si verifica che y′(x) =
kex = y(x).
L’equazione 5.5 è detta “di primo ordine” perché l’ordine massimo in cui la funzione
incognita viene derivata è il primo.
Un esempio di equazione differenziale “di secondo ordine” è invece:
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In questo caso, l’equazione dice che dobbiamo cercare una funzione la cui derivata
seconda, ovvero la derivata della derivata, sia uguale alla funzione cambiata di segno.
Due funzioni che hanno questa proprietà sono la funzione sin x e la funzione cos x, così
come A sin x e B cos x sono pure soluzioni. Il lettore può verificare che anche una
funzione del tipo:
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con A e B costanti, ovvero una combinazione lineare delle funzioni seno e coseno, è
ancora una soluzione dell’equazione 5.6.
In generale non è vero che sommando soluzioni di equazioni differenziali si ottiene
una nuova soluzione: ciò accade nei nostri esempi perché le equazioni
differenziali che abbiamo scelto sono equazioni lineari, in cui, cioè, la funzione
incognita e le sue derivate appaiono sempre in maniera lineare (ossia legate tra loro da
somme e sottrazioni). Il lettore può infatti verificare che questo “principio di
sovrapposizione”, cioè la possibilità di sommare soluzioni, non vale per le equazioni:
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dove a è una costante positiva. Assumiamo poi che la rapidità con cui la
popolazione di gazzelle decresce, cioè la derivata x′(t) cambiata di segno, sia
proporzionale al numero di leoni:
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Figura 6 - Andamento in funzione del tempo di due popolazioni in competizione, gazzelle e leoni.
Dopo un certo periodo di tempo le gazzelle si estinguono.
La riproduzione cellulare
Un’altra situazione complessa che nasce dal mondo della biologia è legata
alla coltura di cellule. Se osserviamo le cellule al passare del tempo, ci
accorgiamo subito che il numero N di elementi della coltura cambia
continuamente: ciò è dovuto al fatto che le cellule si riproducono e
muoiono. In particolare, la riproduzione cellulare si attua attraverso la
scissione della cellula madre in due cellule figlie esattamnte identiche alla
cellula genitrice. L’obiettivo che ci prefiggiamo è quello di costruire un
modello capace di prevedere come varia il numero di cellule della
coltura in funzione del tempo. In termini più matematici possiamo dire
che chiediamo al modello di fornirci una funzione reale N = N(t); richiesta
questa che comporta già una deviazione dalla situazione reale in quanto,
nella realtà, il numero di cellule varia soltanto nell’insieme dei numeri
naturali.
Il nostro modello si regge su tre ipotesi:
• ogni cellula ha lo stesso tempo di riproduzione e la stessa durata di vita;
• ogni cellula, in un intervallo di tempo Δt molto piccolo rispetto al suo
tempo di riproduzione, riproduce una frazione costante di sé stessa, che
indichiamo con a. In particolare se N(t) è il numero di cellule presenti al
tempo t e aΔt è la frazione di sé stessa che ogni cellula riproduce nel
tempo Δt, allora N + aΝΔt rappresenta il numero di cellule Ν(t+Δt) che,
in seguito all’attività riproduttiva, sono presenti al tempo (t+Δt);
• ogni cellula, in un intervallo di tempo Δt molto piccolo rispetto al suo
tempo di riproduzione, distrugge una frazione costante di sé stessa, che
indichiamo con b. In particolare se N(t) è il numero di cellule presenti al
tempo t e bΔt è la frazione di sé stessa che ogni cellula distrugge nel tempo
Δt, allora N + bNΔt rappresenta il numero di cellule N(t+Δt) che, in seguito
al solo fatto che parte di esse muoiano, sono presenti al tempo (t+Δt).
A questo punto siamo in grado di sviluppare il nostro modello per fare delle
previsioni. In base a quanto supposto, in seguito ai due eventi di
riproduzione e morte, il numero di cellule presenti al tempo t varia nel
tempo Δt della quantità
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La 5.10 è molto simile alla 5.5, con la differenza che nella 5.10 la derivata
dN/dt - una diversa notazione di N′(t) - della funzione che stiamo cercando
deve essere pari a k volte la funzione incognita. Per risolvere questa
equazione seguiamo il metodo detto “separazione delle variabili”. Trattando
formalmente i termini dN e dt della derivata dN/dt come quantità
autonome, otteniamo:
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Il parametro k, detto velocità di accrescimento specifica, è
determinabile sperimentalmente.
Il grafico riportato in Fig. 7 mostra l’andamento esponenziale di una coltura
per la quale k è positivo, ovvero cellule per le quali il tasso di riproduzione
è maggiore del tasso di morte.
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Figura 7 - Andamento nel tempo di una coltura la cui popolazione iniziale è di 10 cellule. Il tempo è
misurato in minuti e k è pari a 0,3 (minuti)–1.
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La prima equazione delle 5.11 dice che il ritmo relativo (dS/dt)/S con cui la
popolazione suscettibile decresce, per via del fatto che si ammala, è
proporzionale al numero degli infettivi. La seconda ci dice, viceversa, che il
ritmo relativo (dI/dt)/I con cui la popolazione degli infettivi varia ha due
contributi: uno proporzionale al numero di persone contagiabili, e l’altro
proporzionale a una costante negativa −γ La terza equazione esprime il fatto
che la velocità con cui la popolazione dei guariti aumenta è proporzionale al
numero di infetti.
Si noti che la somma S + I +G, che rappresenta la totalità della popolazione
studiata, è una costante: infatti la derivata (d/dt) (S + I + G) si può calcolare
sommando i membri di destra delle equazioni (5.11), ottenendo zero. Il
modello assume pertanto che la popolazione complessiva sia costante, e in
particolare che non vi siano morti.
Per verificare questo modello, possiamo studiare un caso limite. Se poniamo
c = 0, stiamo studiando una malattia che non si trasmette per contagio. In
questo caso la prima equazione ci dice:
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la cui soluzione è I(t) = I0e-γt, con I0 pari alla consistenza della popolazione I
all’istante iniziale. La Fig. 8, in cui questa soluzione è rappresentata, ci
mostra che il numero di contagiati diminuisce nel tempo con una curva che
tende a zero. Il significato pratico di questo fatto è che i contagiati
diminuiscono perché guariscono.
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Figura 8 - Diminuzione del numero di contagiati in funzione del tempo.
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Figura 9 - Andamento del numero dei guariti in funzione del tempo. I guariti iniziali sono 20 e il loro
numero tende a 120.
L’oscillatore armonico
Una classe importantissima di modelli matematici è quella che descrive
i sistemi meccanici. Il più semplice di questi sistemi è il punto materiale,
di cui abbiamo già trattato ne I calci di rigore. Un secondo semplice sistema
è quello formato da un punto materiale di massa m connesso a una molla
ideale, ovvero una molla che esercita una forza proporzionale al suo
spostamento dalla posizione di equilibrio. Questo significa che, se una
molla ideale ha lunghezza a riposo pari a x0, quando la sua lunghezza è x
essa esercita una forza pari a:
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La massa m è uno scalare e descrive l’inerzia che il punto oppone al movimento; più
grande è la massa, maggiore è lo sforzo necessario per mettere in moto il punto.
L’accelerazione invece è una quantità vettoriale che descrive la variazione della velocità
del punto nel tempo. Nello stesso modo in cui la velocità è la derivata della posizione,
l’accelerazione è la derivata della velocità; pertanto essa è la derivata seconda
della posizione.
Se consideriamo moti lungo una sola direzione e denotiamo con x la coordinata in
questa direzione, abbiamo:
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ed essendo:
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si ha:
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L’equazione 5.12, ossia l’equazione del moto, si può pertanto scrivere come:
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Se la forza F è assegnata (in funzione della posizione, ed eventualmente della velocità),
l’equazione 5.16 diventa un’equazione differenziale, la cui soluzione fornisce (una
volta fissate le condizioni iniziali) la legge oraria del moto x(t).
Un esempio molto semplice e intuitivo di quanto detto finora è rappresentato dal caso in
cui la forza è costante, ossia F = k. In tale circostanza, invertendo la 5.16, la 5.15
diventa:
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Abbiamo dunque a che fare con un moto ad accelerazione costante pari a k/m,
comunemente detto “moto uniformemente accelerato”.
Poiché a è costante, la 5.13 è facilmente risolvibile e porta alla determinazione della
velocità in funzione del tempo:
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dove c è una costante d’integrazione che si determina a partire dalla conoscenza delle
condizioni iniziali. In questo caso, se v(0) = v0, allora:
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Tenendo conto della 5.18, la 5.14 diventa
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Anche l’equazione 5.19 è facilmente risolvibile e la sua soluzione è:
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Ancora una volta, c′è una costante d’integrazione che determiniamo a partire dalle
condizioni iniziali; se x(0) = x0 si ha:
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che rappresenta la legge oraria di un moto con accelerazione costante.
Consideriamo ora un punto materiale di massa m connesso a un estremo
della molla, il cui altro estremo è mantenuto fisso. L’equazione del moto per
questo sistema si scrive:
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La propagazione ondosa
Tra i fenomeni reali di una certa importanza, quello della propagazione
ondosa ammette una precisa modellizzazione matematica. Il sistema più
semplice in cui questo fenomeno ha luogo è la corda vibrante, sistema che
viene comunemente associato alla corda di uno strumento musicale (per
esempio una chitarra o un violino).
Consideriamo una corda di massa totale m e lunghezza L i cui estremi sono
fissati a due punti posti a distanza L fra di loro. Prendiamo una coppia di
assi coordinati xy con origine nell’estremo di sinistra della corda, in modo
tale che l’altro estremo sia situato nel punto (L,0). In condizione di riposo la
corda si dispone lungo l’asse x, quindi il suo profilo ha equazione y = 0. Se
agitata, ossia perturbata dall’equilibrio, la corda si mette in oscillazione e il
suo profilo diventa una funzione del tempo y = y(x,t). Come possiamo
determinare questa funzione? Innanzitutto osserviamo che, poiché y
dipende da due variabili, un’equazione differenziale simile a quelle viste nei
casi precedenti non fa al caso nostro. Equazioni come quelle viste finora,
che coinvolgono funzioni di una sola variabile e quindi contengono derivate
rispetto a quella singola variabile, sono dette “equazioni alle derivate
ordinarie”. Nel nostro caso, invece, è necessario considerare un’equazione
che coinvolga le derivate rispetto alle variabili x e t: una tale equazione si
dice “equazione differenziale alle derivate parziali” (dove le derivate
ordinarie rispetto a x e t prendono il nome di “derivate parziali”).
La Fig. 10 mostra la corda vibrante all’istante t e descrive, come grafico della
funzione y = y(x,t) a t fissato, la forma della corda vibrante in quell’istante.
Supponiamo, per semplicità, che la corda si sposti di poco dalla posizione
di equilibrio. Consideriamo un pezzo della corda di lunghezza h centrato
attorno alla posizione x; per proporzionalità, la massa di questo elemento
sarà mh/L. Cerchiamo di scrivere l’equazione della dinamica F = ma lungo
la direzione verticale (l’asse delle y) per questo elemento di corda. Il
membro di destra è dato da:
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Figura 10 - Profilo di una corda vibrante con estremi fissati. La corda ha subito una perturbazione
dalla sua posizione di equilibrio.
La tensione della corda uguaglia la forza che i pioli su cui la corda è fissata esercitano
sulla corda stessa.
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Figura 13 - La funzione sinusoidale f1(x) fornisce una prima approssimazione dell’onda quadra di
periodo 2.
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Figura 14 - Il grafico di f1(x) e f2(x). La loro somma approssima l’onda quadra di periodo 2.
E la Fig. 15 ci mostra che se proviamo con f1(x) + f2(x) + f3(x), dove:
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va ancora meglio.
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Figura 15 - Il grafico di f1(x), f2(x) e f3(x). La loro somma migliora, rispetto ai casi precedenti,
l’approssimazione dell’onda quadra.
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Figura 16 - I primi sette termini dello sviluppo in serie di Fourier dell’onda quadra f(x). La loro
somma migliora notevolmente le approssimazioni precedenti.
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Premessa
I. PERCHÉ LA MATEMATICA?
Problematiche
LA MATEMATICA COME LINGUAGGIO E STRUMENTO DI RAPPRESENTAZIONE
IL METODO MATEMATICO
UNA MATEMATICA O TANTE MATEMATICHE?
Spunti di riflessione
LA MATEMATICA COME LINGUAGGIO E STRUMENTO DI RAPPRESENTAZIONE
IL METODO MATEMATICO
Problemi di approfondimento
Problematiche
ORIGINE E SVILUPPO DEL LINGUAGGIO: L’ESEMPIO DELLA GEOMETRIA
TRADUZIONE DA UN LINGUAGGIO A UN ALTRO: DALLA GEOMETRIA ALL’ALGEBRA
Spunti di riflessione
ORIGINE E SVILUPPO DEL LINGUAGGIO: L’ESEMPIO DELLA GEOMETRIA
TRADUZIONE DA UN LINGUAGGIO A UN ALTRO: DALLA GEOMETRIA ALL’ALGEBRA
Problemi di approfondimento
Problematiche
GLI INSIEMI
LE RELAZIONI E LE FUNZIONI
I NUMERI
Spunti di riflessione
GLI INSIEMI
Problemi di approfondimento
Problematiche
I GRAFICI DELLE FUNZIONI
FUNZIONI PARTICOLARI: LE SUCCESSIONI
LE FUNZIONI CONTINUE E I LIMITI
LE FUNZIONI DERIVABILI E INTEGRABILI, LE DERIVATE E GLI INTEGRALI
LE FUNZIONI TRASCENDENTI
Spunti di riflessione
LE FUNZIONI TRASCENDENTI
Problemi di approfondimento
La parola ai grandi matematici
I calci di rigore
La competizione preda-predatore
La riproduzione cellulare
L’oscillatore armonico
La propagazione ondosa
I sistemi periodici
www.illibraio.it
Il sito di chi ama leggere