ENEIDE
PROEMIO: il proemio dell’Eneide di Publio Virgilio Marone è costituito
da versi che mettono in luce i vari elementi che caratterizzano
l’opera, delineandone la trama. Virgilio vuole mettere in evidenza le
fatiche che il pio Enea dovette affrontare per arrivare alla fondazione di
Roma. La visione storica del poeta è tragica: anche il
raggiungimento della pax augustea, vista come l’ età dell’oro, è un
lungo cammino macchiato dal sangue. Del resto era ancora
presente in Virgilio il ricordo delle guerre civili.
Il Proemio, come abbiamo detto, è fondamentale nella costruzione
di un’opera epica perché dà la possibilità all’autore di spiegare i
contenuti e al lettore di entrare subito nel contesto dell’opera stessa.
Non a caso, la prima parola che troviamo è “arma”, un chiaro
riferimento alla guerra che occupa tutta la seconda parte
dell’Eneide e la seconda è “virum”, cioè “uomo”, un riferimento alla
figura di Enea, protagonista assoluto di tutto il poema.
Quindi effettivamente Virgilio presenta con il Proemio ciò di cui
parlerà nell’Eneide: le guerre di Enea, l’uomo che per primo, fuggito
dalle spiagge di Troia per volere del destino, arrivò in Italia
sbarcando sulle rive di Lavinio ma che soffrì molto prima di fondare
la sua città a causa dell’ostilità di Giunone.
Nell’invocazione alla Musa il poeta si rivolge a Melpomene, musa della
poesia epica, pregandola di fargli conoscere prorpio le cause per cui
Giunone condannò Enea, uomo pio, a soffrire tante pene e angosce.
Nell’antefatto Virgilio spiega che Cartagine fu fondata dai Fenici di Tiro
e sarebbe diventata rivale dell’Italia e della città sorta sul
Tevere. Giunone, che amava Cartagine più di Samo, nella città
punica teneva le sue armi e il suo carro e sognava che diventasse la
dominatrice dei popoli.
Le Parche, le divinità del destino, avevano però stabilito che dal
sangue Troiano sarebbe discesa una stirpe che un giorno avrebbe
abbattuto le mura di Cartagine.
La dea ricordava la guerra combattuta a fianco dei Greci contro i
troiani e aveva ben presenti le motivazioni che l’avevano spinta a
schierarsi contro gli achei: il rancore nei confronti di Paride, che
aveva considerato Venere la più bella tra le dee, quello verso
Antigone, figlia di Laomedonte, che aveva osato sfidarla
reputandosi più bella di lei, e quello nei confronti di Dardano,
fondatore di Troia, che era nato da una relazione adulterina tra
Elettra e Giove. Infine di nuovo un troiano, Ganimede, era stato
preferito da Giove come coppiere al posto di sua figlia Ebe.
Giunone quindi temeva quei pochi superstiti che si erano salvati
dall’incendio di Troia
DIDONE: LA PASSIONE E LA TRAGEDIA: Didone, ormai innamorata di
Enea, trascorre la notte pensando a lui, senza mai trovar riposo. Al
mattino si confida con la sorella Anna, che la incoraggia ad
assecondare il nuovo sentimento, anche per i vantaggi che
deriverebbero al regno dall’unione dei Cartaginesi con i Troiani.
Confortata da queste parole, Didone accarezza volentieri l’idea di
nuove nozze e, intanto fa sacrifici agli dei per renderseli propizi.
Cerca di stare spesso in compagnia di Enea e tratta con affetto
materno Ascanio, ma trascura i suoi doveri di regina, per cui nella
città il fervore di opere cessa del tutto. Giunone contenta di tenere
Enea lontano dall’Italia, favorisce questa passione.
D’accordo con Venere, fa si che durante una battuta di caccia,
indetta dalla regina per onorare l’ospite scoppi un violento
temporale: tutti si sparpagliano in cerca di riparo, mentre Didone ed
Enea si ritrovano soli nella stessa grotta, e lì, col favore di Giunone
pronuba, l’unione matrimoniale dei due si compie. Preso la notizia si
divulga.
Jarba, re dei Getuli, che era stato respinto da Didono, si rivolge
sdegnato al padre suo, Giove Ammone, chiedendo vendetta per
l’affronto subito. E Giove manda Mercurio da Enea per ricordargli la
missione che gli è stata affidata dagli dei, per ingiungergli di salpare
alla volta dell’Italia. Enea rimane atterrito, ma capisce che deve
ubbidire al comando divino.
Non trovando il modo di parlare con Didone, decide di partire
all’insaputa di lei e, per tanto, ordina ai suoi di allestire in segreto la
flotta. Didone però s’accorge dei preparativi e, sdegnata e pazza di
dolore investe Enea con parole di rimprovero e di minaccia, ma pure
di preghiera e di scongiuro. Enea, irremovibile nel suo proposito, le
risponde tergiversando che non voleva partire segretamente, ma
che neppure le aveva promesso di rimanere per sempre a
Cartagine. Ed aggiunge che, suo malgrado, deve rispettare la
volontà del Fato che, avendogli tolto la patria, lo spinge a fondarne
una nuova in Italia. Allora Didone, guardandolo torva, gli manifesta
tutto il suo disprezzo. Vada pure verso il proprio destino: lei morrà e,
ombra implacata, lo seguirà ovunque per maledirlo.
Il “pio” Enea sebbene tormentato anche lui dalla passione d’amore,
rimane saldo nel suo proposito ed affretta la partenza delle navi.
Invano la regina, in un estremo tentativo, manda la sorella Anna a
supplicarlo di trattenersi ancora un po’ di tempo, nell’attesa che
spirino venti più propizi, per modo che Didone possa abituarsi
all’idea del distacco. Allora l’infelice decide di morire. Persuasa da
funesti presagi e torturata da sogni minacciosi, studia come attuare
il triste proposito senza destare sospetti nella sorella. Dice di voler
ricorrere alle arti magiche per liberarsi dalle sofferenze dell’amore.
Fa costruire a cielo aperto, un’alta pira di legna resinose e vi fa
mettere sopra il letto nuziale, la spada, le vesti e l’effigie dell’eroe
amato. Poi, assieme ad una maga, vi gira intorno celebrando rituali
magici.
Intanto Enea dorme tranquillo sull’alta poppa della nave,
quand’ecco Mercurio apparirgli in sogno e, con parole concitate,
sollecitarlo a partire perché Didone potrebbe, nella sua furia, dar
fuoco alle navi. L’eroe sveglia subito i compagni e taglia con la
propria spada gli ormeggi.
Allorquando Didone, sul far dell’alba, vede la flotta troiana navigare
nel mare aperto, cade in preda alla più cupa disperazione. Invoca
dagli dei una tremenda maledizione su Enea: che trovi nella nuova
patria guerra e dolori; che muoia anzi tempo; e che perpetua sia la
rivalità tra i suoi discendenti ed il popolo dei Tiri, cioè fra Roma e
Cartagine.
Poi, impaziente di morire, sale sul rogo e si trafigge con la spada
avuta in dono da Enea. Pianti ed urli echeggiano nella reggia Anna
sale sul rogo in tempo per raccogliere l’estremo respiro della
sorella. La morente cerca con gli occhi tremanti la luce che fugge,
poi manda un gemito e giace senza vita.